Lelio Basso
Senatore della
Repubblica
PERCHÈ
IL FASCISMO
Credo che non si possa considerare
né il fascismo né la democrazia secondo schemi di tipologia astratta. La storia
è un susseguirsi permanente di equilibri, anzi, meglio, è una ricerca
permanente di equilibri fra diverse classi sociali, diverse tendenze politiche,
diverse ideologie, che sono in permanente contrasto ma al tempo stesso devono
continuamente trovare un punto d’equilibrio perché la società non precipiti nel
caos. L’elemento motore di questo processo storico, che porta a continui
spostamenti di forza, a continui conflitti e a continui armistizi, è la
crescita delle forze produttive, è l’incidenza che questa crescita produce sui
rapporti di produzione, è in ultima analisi il processo di accumulazione del
capitale che coridiziona i rapporti fra le classi, il potere della classe
dominante, l’ampiezza del consenso. Le prime fasi di questo processo
d’accumulazione sono sempre estremamente dure per gli operai e i contadini che
ne sopportano il peso, e questo tanto in regime capitalista quanto in regime
socialista. Sarebbe impossibile in queste condizioni pensare a una democrazia
autentica: se ne possono in alcuni casi rispettare le facciate esteriori (il
suffragio universale presso un popolo incolto o immaturo, o il Parlamento solo
come sede di registrazione di decisioni prese dall’oligarchia dominante: grande
capitale, alte gerarchie burocratico-militari, dirigenza politica, in qualche
caso Chiesa), ma è chiaro che il processo di accumulazione non può essere
abbandonato dalla classe dominante alle sorprese di un’elezione democratica.
Ciò è ancora più difficile a misura che si va verso forme di investimento
sempre più colossali e a sempre più lungo termine, magari in terre straniere,
come oggi accade: tanto più forte diventa allora l’esigenza non solo di un
regime e di un ordinamento giuridico stabili su cui si possa contare, ma anche
di un congelamento di ogni forma di lotta di classe che possa alterare i
rapporti di forza. Solo quando le classi lavoratrici sono soddisfatte della
situazione sociale e del loro tenore di vita - e ciò richiede un alto grado di
prosperità - la democrazia diventa possibile.
Dittatura, sviluppo e sottosviluppo
Data questa premessa, possiamo
trarne una prima conseguenza e cioè che se è vero che regimi fascisti, o, per
meglio dire, dittatoriali, sono più consoni a paesi economicamente arretrati,
non è vero il reciproco e cioè che i paesi sviluppati debbano essere
democratici. Infatti anche i paesi sviluppati conoscono crisi, recessioni,
squilibri, e quando la macchina dell’accumulazione e del profitto s’inceppa, il
capitalismo è sempre tentato di ricorrere ad una maggiore utilizzazione dello
Stato, ad un maggiore sfruttamento del potere politico. In linea generale si
può soltanto affermare che la natura e il ritmo del processo di accumulazione
condizionano il grado di consenso e quindi anche tutte le articolazioni della
vita sociale. Infatti la classe dirigente potrà, se ciò le è possibile,
assicurarsi il consenso anche delle classi subalterne attraverso una condizione
di vita economica, sociale e culturale accettabile; potrà, se le condizioni non
sono accettabili, per esempio perché si devono tenere bassi i salari,
garantirsi egualmente il consenso attraverso la mediazione della Chiesa o di
miti, soprattutto nazionalistici, diffusi dai mass media; in difetto anche di
questo, ricorrere a forme di dittatura militare e poliziesca.
Naturalmente si tratta di esemplificazioni
sommarie: nella realtà i rapporti fra il processo di accumulazione, il grado di
consenso e le mediazioni sociali che assicurano il funzionamento del sistema
possono essere le più varie e offrire combinazioni apparentemente
contraddittorie, tanto più che anche la classe lavoratrice può intervenire con
la sua forza organizzata e costringere la classe dominante a compromessi. Il
punto centrale è tuttavia che la classe dirigente non può in nessun caso
perdere il controllo del meccanismo del profitto e del processo di
accumulazione, e che ciò esige da parte sua un grado, maggiore o minore a
seconda delle circostanze, di controllo sul potere statale in quanto lo Stato è
da sempre promotore indispensabile di questo processo. Contrariamente infatti a
un’opinione comunemente accolta che il vecchio capitalismo liberale rifiutasse
l’ingerenza dello Stato, al quale spettava soltanto il compito di assicurare
l’ordine interno e la difesa esterna, cioè la cornice entro cui il ceto
imprenditoriale potesse svolgere liberamente la propria attività, la più
recente storia economica tende a porre l’accento sul ruolo che lo Stato ha
sempre avuto nel processo di sviluppo. Non solo, ma è comunemente riconosciuto
che questo ruolo tende a crescere sia nei paesi a sviluppo capitalistico
ritardato, come furono la Germania, l’Italia, il Giappone, la Russia, sia nei
periodi di crisi o di transizione in cui il meccanismo normale del sistema si
inceppa, sia infine nei paesi a capitalismo sviluppato dove le dimensioni
dell’impresa e la complessità del processo produttivo tolgono elasticità al
sistema.
In senso molto lato, e sempre con l’avvertenza che
lo spazio mi obbliga allo schematismo, posso distinguere diverse tappe di
questo sviluppo conseguenti a diversi periodi di crisi. In primo luogo la crisi
che sboccò nella rivoluzione del 1848-49, e da cui il capitalismo,
contrariamente alle previsioni di molti, uscì trionfante di tutte le resistenze
precapitalistiche avviandosi a celebrare trionfi fin allora sconosciuti:
l’intervento statale si palesò allora necessario in molte forme, e in larga
misura per l’impulso che in vario modo diede in ogni paese alla costruzione
della rete ferroviaria, supporto principale di questo sviluppo. La seconda
crisi importante fu la lunga depressione dell’ultimo quarto del secolo scorso,
da cui uscì definitivamente debellato il capitalismo concorrenziale classico, e
che si chiuse con l’avvento dei monopoli e dei trusts, con l’affermazione del
capitale bancario e finanziario, soprattutto in Germania, con l’esplosione
imperialistica dell’ultimo decennio del XIX e degli inizi di questo secolo: in
questo processo di trasformazione l’intervento statale fu molto importante in
campo doganale, finanziario, di commesse, sovvenzioni, agevolazioni, ecc.
Infine l’ultima grande crisi fu quella degli anni ‘29 e successivi, da cui uscì
il New Deal negli USA e la politica keynesiana della maggior parte dei governi
europei, ma che soprattutto fece dell’intervento statale la condizione
quotidiana indispensabile per il sostegno dell’economia e il funzionamento del
sistema e quindi rese necessario l’interpenetrazione organica del potere
economicoo e del potere politico.
La sostituzione dello Stato
Coloro che pertanto hanno visto nel fascismo
soprattutto uno strumento padronale di lotta contro la classe operaia hanno
vista solo una parte, certo la più appariscente, ma forse non la più importante
storicamente, del problema: sotto questo aspetto lo videro soprattutto in
Italia gli agrari e all’inizio anche taluni settori industriali, ma quando si
scrive che la classe industriale non aveva nel 1922 nessun interesse alla
conquista fascista dello Stato, perché la classe operaia era già disfatta, si
dimentica che la classe operaia era, sì, in fase di riflusso da almeno un paio
d’anni, ma che quello che era necessario alla classe industriale era l’abbattimento
dello Stato liberale. Essa non aveva da sola la capacità di riconvertire
l’industria di guerra in industria di pace e tanto meno di superare la crisi
sopravvenuta nel dopoguerra, abituata com’era da sempre a vivere di aiuti
statali.
L’obiettivo della marcia su Roma non era quindi per
gli industriali l’abbattimento del movimento operaio, ma la sostituzione dello
Stato liberale con uno più ligio agli interessi industriali. E questo non tanto
a causa delle misure fiscali di Giolitti che colpivano fortemente il capitale e
che Mussolini si affrettò ad annullare, non tanto a causa di alcuni interventi
economici, come il monopolio delle assicurazioni sulla vita che Mussolini
restituì subito all’impresa privata, ma soprattutto a causa di un mancato
intervento di salvataggio, quando la crisi investì i massimi colossi
dell’industria e della banca (Ansaldo, Ilva, Banca Italiana di sconto) che il
governo liberale abbandonò al proprio destino e lasciò crollare. Il ceto
imprenditoriale giudicò allora che con lo Stato liberale i suoi abituali
tramiti con l’apparato statale non erano più in grado di assicurare il
mantenimento del meccanismo del profitto, e che, se si voleva salvare
l’economia, bisognava cambiare regime.
In altre parole il regime liberale deve
necessariamente appoggiarsi su un certo grado di consenso e deve lasciare
sussistere una dialettica di opinioni e posizioni politiche e quindi un certo
margine di dissenso e di critica. In queste condizioni un raccordo fra il
potere economico e quello politico non può essere diretto: al contrario, ha
bisogno di una serie più o meno ampia di mediazioni a seconda delle condizioni
specifiche in cui opera e del grado maggiore o minore di liberalismo o
democrazia che il regime consente. Quando le condizioni di vita del grande
capitale si fanno difficili, quando il meccanismo del profitto si inceppa e
solo pronti e adeguati interventi statali, o addirittura una politica organica
dello Stato finalizzata ad assicurare il profitto, possono rimetterlo in moto,
il raccordo deve essere diretto e pronto e le mediazioni diventano allora
difficili e pericolose perché rischiano di create diaframmi fra potere
economico e potere politico e, conseguentemente, di frenare i meccanismi di
intervento. È a questo punto che la dittatura diventa necessaria per il grande
capitale. Certo anche in regime di dittatura la mediazione della classe
politica è necessaria, ma si tratta di quella mediazione soltanto, e
soprattutto si tratta di una classe politica il cui atteggiamento è conosciuto
e che non è sottoposta alle incognite della democrazia.
Mi sembra importante che gli storici e in genere
gli studiosi, e in particolare gli storici del fascismo, si rendano conto che
questo è l’aspetto decisivo della vittoria fascista: non, come è stato troppo
spesso ripetuto, la rivolta dei ceti medi che fornì parte della truppa
d’assalto e la tecnica squadristica messa in atto dagli “arditi” reduci della
guerra, e su cui in un primo momento puntò Mussolini che di quel ceto medio era
tipica espressione (figlio di un artigiano e diventato intellettuale, cioè
maestro e professore di francese); non la repressione agraria che fu un
fenomeno autonomo venutosi a fondere con il fascismo mussoliniano ma rimasto
con esso in tensione, e che anch’esso mise a disposizione in larga misura la
base squadristica con il sottoproletariato agricolo della valle padana; e
infine neppure gli industriali in semplice funzione di lotta di classe, cioè in
funzione antioperaia. L’aspetto decisivo - non mi stancherò di sottolinearlo
perché è un aspetto vivo più che mai nella realtà di oggi, per esempio, nelle
dittature dell’America latina che sono opera delle multinazionali operanti in
quei paesi - fu la necessità di uno stretto legame fra grande industria e
potere politico, che la guerra aveva reso irrimandabile per le deboli forze del
capitalismo italiano, che non trovava in sé sufficiente iniziativa ed energia.
La prima guerra mondiale
Come hanno rilevato storici quali
Procacci e Cafagna, lo sviluppo ritardato del capitalismo italiano aveva avuto
come necessaria conseguenza un alto grado di concentrazione dell’apparato
produttivo nonché la nuova funzione dello Stato e del potere politico di
“componente essenziale del progresso economico” (secondo l’espressione di
Cafagna, ma io preferirei dire “dell’accumulazione capitalistica” che non
corrisponde automaticamente a progresso economico). Di questa nuova esigenza si
erano fatti interpreti i nazionalisti di Corradini, Federzoni e Alfredo Rocco,
e quest’ultimo aveva teorizzato in anticipo quello che sarebbe poi diventato lo
Stato fascista per poter assolvere a questa funzione.
La guerra accelerò questo processo. Da un lato essa
provocò un’inflazione dell’apparato produttivo che si trovò di fronte a
commesse statali (soprattutto di armi e munizioni, ma anche di automobili e
mezzi di trasporto in generale, vestiario, approvvigionamenti vari, ecc.)
superiori alle sue capacità produttive ante-guerra e dovette moltiplicarsi per
adeguarsi rapidamente alla nuova situazione che comportava lauti guadagni ma al
tempo stesso creava una situazione precaria che avrebbe potuto sopravvivere,
dopo la guerra, solo grazie ad ulteriori interventi statali di diversa natura
(se non più commesse belliche, sussidi o aiuti in altra forma). I maggiori
beneficiari della situazione bellica furono naturalmente i siderurgici e i
meccanici (Ansaldo, Ilva, Breda, Fiat, ecc.), che fecero anche i maggiori
aumenti di capitale e i più grandi balzi di capacità produttiva. Come osserva
Procacci, “questo grande sviluppo quantitativo implicò anche un mutamento
qualitativo dell’organizzazione produttiva italiana”, “contribuendo così ad
accentuare la dipendenza delle industrie protette, e di quella siderurgica in
particolare, dall’azione dello Stato, e per converso a render quest’ultimo più
esposto alla pressione dei grossi interessi privati costituiti”.
Ma lo Stato liberale italiano, osserva ancora il
Procacci, e il suo governo erano abituati ad occuparsi prevalentemente di
amministrazione ed erano impreparati ad affrontare stabilmente questi compiti,
che la fine della guerra rese invece drammaticamente urgenti. L’industria non
era in grado di mantenere il livello raggiunto dalla produzione, una volta
cessate le forniture di guerra: essa non dominava mercati stranieri e quello
interno era troppo limitato per poter alimentare un’industria cresciuta,
rispetto alle precedenti proporzioni, in modo macroscopico. Questa debolezza di
fondo rendeva la situazione industriale italiana particolarmente vulnerabile,
come confermò la crisi del 1920-21, che fece diventare sempre più insistenti le
richieste degli industriali per una diversa politica governativa, che, però,
come abbiamo detto, trovò insensibili le orecchie dei governanti liberali.
Italia e Germania
E quando si parla delle differenze fra il fascismo
italiano e quello tedesco, perché l’Italia era un paese industriale debole e la
Germania, per contro, forte, si dice una cosa certamente vera sotto molti
aspetti, ma si dimenticano due punti fondamentali che ne fanno un fenomeno
comune negli aspetti essenziali, e cioè, in primo luogo, che tanto in Germania
quanta in Italia il capitalismo si era sviluppato sempre all’ombra
dell’intervento statale, e aveva stretto tali legami con il potere politico da
non potervi rinunciare; in
secondo luogo che in entrambi i casi il meccanismo di sviluppo si era
inceppato: in Italia, paese più debole, per la crisi, minore, del 1921, e in
Germania per la grande crisi degli anni ‘30 che aveva creato un’immensa
disoccupazione, e quindi, oltre a tutto, aveva messo a disposizione una massa
di spostati che potevano servire proprio alla conquista del potere, come in
Italia questa massa era stata formata in parte da ceti medi urbani o agricoli,
e in parte da sottoproletariato rurale. Perché mi sembra evidente che, se non
si vogliono creare confusioni, non si può chiamare fascista qualunque regime
dittatoriale, come per esempio il Brasile, ma si deve riservare questa
denominazione a quei regimi che sono contrassegnati da questo triplice aspetto:
la conquista del potere statale da parte di gruppi egemonici dell’economia,
l’appoggio dato ad essi da un partito di massa formato in gran parte da
elementi spostati o emarginati, e infine l’esercizio dittatoriale del potere.
Ceti medi “emergenti”?
Sulla natura di questo partito di massa che diede
vita al primo fascismo urbano si è discusso molto in Italia e si è parlato di
ceti medi “emergenti”. Ora se l’aggettivo indica dei ceti che stanno per essere
travolti dall’ondata della crisi e vogliono riemergere dal naufragio, il
termine è esatto; ma se con la parola “emergenti” si intende invece, come pare
voglia intendersi, ceti avanzati, progressivi, come potrebbe essere stata più
tardi la tecnocrazia, credo che la definizione sia totalmente destituita di
fondamento.
Io li ho conosciuti questi ceti medi, perché era il
mondo a cui apparteneva la mia famiglia, a cui appartenevano le famiglie dei
miei compagni di scuola, il mondo che io frequentavo, con cui discorrevo,
litigavo, magari venivo alle mani - o alle bastonate - ma di cui per anni ho
conosciuto le idee e i sentimenti. Parlare di ceti medi emergenti significa
parlare di ceti nuovi, che per le qualità, la cultura, l’evolvere della
situazione, sono in una fase ascendente nella scala sociale, per ricchezza o
potere. Invece i ceti medi di cui parliamo erano i soliti ceti medi italiani
eternamente irrequieti e scontenti, la cui condizione io ho analizzato più
volte in diversi saggi e che qui mi limito a riassumere sinteticamente.
L’Italia è un paese che non soltanto è arrivato
tardi allo sviluppo industriale, ma in cui la crescita politica ha anche
preceduto la crescita economica, creando squilibri che hanno costituito un
ostacolo insuperabile allo sviluppo e quindi alla democrazia. Mi riferisco al
fatto che non solo l’unità italiana, a differenza di quella tedesca, si è
realizzata sotto la spinta di motivi sociali e ideologici, ma senza una base
economica che la giustificasse e soprattutto fosse in grado di sorreggerla; che
dopo la unificazione l’Italia ha cominciato a voler esercitare un ruolo di grande
potenza, e addirittura di potenza coloniale, senza averne neppure lontanamente
i mezzi; che questo iato fra lo sviluppo politico e quello economico ha
assorbito quasi tutte le risorse a beneficio del primo: basti pensare che
dall’unità al 1940 (e quindi senza contare la seconda guerra mondiale) le sole
spese militari hanno assorbito quasi la metà della spesa statale complessiva, e
il 20% è stato speso per interessi del debito pubblico e quindi ancora in gran
parte per le spese militari precedenti, per rendersi conto che per investimenti
industriali e socio-culturali rimanevano soltanto le briciole. Ciò da un lato
ha condannato i lavoratori italiani a sopportare più duramente e più a lungo le
conseguenze dell’accumulazione, ha obbligato la borghesia industriale a vivere
dell’aiuto statale, ma soprattutto ha creato una situazione impossibile ai ceti
medi. Quelli tradizionali, infatti, come gli artigiani, erano rovinati dallo
sviluppo dell’industria che, però, era troppo lento e insufficiente per create
nuovi posti di lavoro e assorbire negli impieghi i vecchi ceti medi; quelli
nuovi, soprattutto i giovani diplomati o laureati, magari figli di bottegai o
di operai, che speravano di salire nella scala sociale, erano condannati ad una
vita incerta e senza prospettive adeguate. Donde il continuo stato
d’irrequietezza che ha caratterizzato in Italia questo ceto, che verso la fine
del secolo si riversò in gran parte nelle file socialiste, e, viceversa, nel
periodo giolittiano, si spostò verso le nuove correnti irrazionalistiche e
nazionalistiche. È da questo stato d’animo che è nata in gran parte la spinta
all’intervento in guerra, e più tardi la spinta al fascismo.
La piccola borghesia
Non era difficile a un giovane come me, impegnato,
curioso, attento, assetato di riempire i vuoti della sclerotica cultura
scolastica, ritrovare nella protesta fascista gli echi confusi della protesta
precedente, la protesta di una piccola borghesia mortificata, che cercava di
riscattare la grettezza della vita quotidiana dell’“Italietta giolittiana”
nell’evasione del mito: quello nietzschiano del superuomo e la sua retorica
imitazione dannunziana; quello nazionalistico, destinato da un lato a
cancellare l’onta delle sconfitte di Lissa e di Adua e a rinverdire la
grandezza romana, e dall’altro a riaffermare il principio dell’autorità dello
Stato capace di riassorbire nelle strutture corporative il miserevole
particolarismo delle classi, soprattutto di quelle operaie; quello futurista,
che infrangeva gli schemi della melanconica vita quotidiana e liberava lo
spirito dalle catene della ragione e della parola ordinata; quello sindacalista
rivoluzionario, che voleva addirittura infrangere le strutture sociali; ecc.
Non mi risulta sia mai stato fatto un serio studio di tutte le fonti dell’ideologia
fascista di quei primi anni, ma penso che una ricerca in profondità aiuterebbe
a capire molte cose.
Ma per discendere dall’ideologia alla politica, i
motivi che spinsero allora questa piccola borghesia tradizionalmente irrequieta
a tentare nuove esperienze e a vivere la grande avventura del fascismo, furono
le conseguenze della guerra: alcune sono note e analizzate, come l’inflazione,
che colpì più duramente pensioni, redditi fissi, stipendi di categorie
sindacalmente deboli incapaci di lottare per l’adeguamento dei salari nominali,
come erano allora gli impiegati, polizze di assicurazioni sulla vita, i
risparmi della piccola gente confluiti durante la guerra nel debito pubblico,
ecc. Un’altra, pure nota, è lo stato d’animo degli ufficiali, abituati per anni
a comandare e ad essere celebrati come eroi, e incapaci di tornare a lavorare a
un qualsiasi tavolo d’ufficio o dietro uno sportello di banca, ritornare ad
essere nessuno dopo essere stati finalmente “qualcuno”.
Su di un solo aspetto mi vorrei soffermare perché
mi pare che gli storici l’abbiano trascurato più di quanto meritasse: alludo
alla decadenza, che si profilava in quegli anni, della piccola borghesia dal
ruolo tradizionale di sottufficiale dell’ordine sociale. Per un tipo di piccola
borghesia come quella che ho descritto, che non aveva mai avuto davanti a sé
grandi possibilità di ascesa sociale, questo ruolo gerarchico, per cui si
servivano i ceti superiori, ma si era però sempre superiore a qualcun altro,
all’operaio o al contadino, era un ruolo fondamentale e irrinunciabile. Ora
l’ascesa delle masse nel dopoguerra lo metteva in serio pericolo. Bisogna qui
ricordare che in Italia era durata fin allora la più rigida distinzione di
classe. Non era pensabile che un operaio e un borghese vestissero abiti della
stessa foggia o si coprissero con uguali copricapi (visto che allora non si
usava, come oggi, andare a capo scoperto): ognuno doveva mostrare nell’abito a
quale classe apparteneva. Ricordo lo scandalo della piccola borghesia quando le
operaie cominciarono a portare le calze di seta, magari artificiale, usurpando
una delle più gelose prerogative delle “signore” e sovvertendo in tal modo le
gerarchie sociali. Ma lo scandalo più grave di tutti fu quello delle donne del
popolo che cominciarono a rifiutare, nelle “code” dei negozi di generi
alimentari, di lasciare il passo a una “signora” con tanto di cappello, magari
una segretaria o una dattilografa, che era costretta a venir di persona a fare
la spesa e subire quest’affronto.
Il capovolgimento dei valori tradizionali
Si sono scritte molte cose sul ‘19 e sulle colpe
del massimalismo minacciante una rivoluzione che non era in grado di fare,
sugli scioperi inutili o le aggressioni agli ufficiali, e molto c’e di vero: le
responsabilità del movimento operaio sono grandi. Ma non si è detto quasi nulla
su quello che il ‘19 rappresentò come capovolgimento di valori tradizionali,
come maturazione improvvisa della volontà democratica delle masse che rompevano
una secolare sudditanza per entrare da protagonisti e da uguali sulla scena
della storia, che abbattevano molte delle divisioni semi-castali che ancora
irrigidivano la società italiana, che davano dignità e coscienza civile a
milioni di uomini e di donne fino ad allora considerati esseri inferiori e tenuti
ai margini della società. Ma il rovescio della medaglia di questa che si
potrebbe chiamare una “rivoluzione culturale” non tradotta in una rivoluzione
sociale, fu la disperata difesa da parte della piccola borghesia dell’ordine
sociale esistente e del proprio ruolo di sottufficiale di quest’ordine, fu la
violenza antioperaia. Sarebbe superficiale tradurre questo fenomeno in termini
psicologici di “invidia” verso una classe che cresceva anche economicamente
rispetto al passato, come la classe operaia; si tratta di un fatto sociologico,
della difesa di una struttura, in cui l’operaio deve restare operaio, il povero
povero, l’inferiore inferiore. Ma non sarà forse inutile ricordare che cosa
scriveva la rivista La finanza italiana: “Oggi ogni cosa è capovolta.
Nessuno oserà dire, per esempio, che le classi tiranneggiate e vilipese siano
proprio quelle che stanno in basso. No: i proletari sono i gaudenti, sono i
consumatori irriflessivi, sono coloro che pagano al fisco assai meno di quanto
dovrebbero”. E ancora: “ È tempo che si ponga fine agli eccessivi sperperi per
la bettola, per il giuoco e per il lusso smodato che assorbono una parte
cospicua dell’entrata di ogni singolo operaio”.
Si tratta in sostanza di piccola borghesia in
decadenza, che teme di essere sempre più respinta ai margini della società, che
può costituire un’utile massa di manovra per il grande capitale, ma che certo
non sarebbe riuscita da sola, e neppure con l’aiuto del fascismo agrario, a
prendere il potere. La vittoria del fascismo è in sostanza la vittoria del
grande capitale alleato con le autorità dello Stato, quando il vecchio regime
non riesce più né a dominare né a mediare. Sulle responsabilità del capitalismo
industriale nella vittoria fascista la documentazione è ormai vastissima: ricordiamo,
per l’autorità da cui proviene, la lettera di Luigi Albertini a Luigi Einaudi
sul silenzio della Confindustria dopo il delitto Matteotti e di fronte alle
minacce di una “seconda ondata” e di una notte di S. Bartolomeo: “Sembra a me
(...) che lo potresti scrivere un articolo per prendere nota di questo silenzio
e per chiedere agli industriali che cosa pensano della seconda ondata (...). I
rapporti degli industriali col governo sono così intimi e stretti da rendere
loro impossibile di esprimere un’opinione sincera su questo punto senza
incorrere in collere che si temono? Eppure gli industriali dovrebbero ricordare
la responsabilità che si sono assunti avendo sovvenzionato in passato e
seguitando a sovvenzionare giornali che sono espressione del peggior fascismo”.
Non è certo mio compito riprendere il discorso
sulle responsabilità personali e sui moventi dell’assassinio di Matteotti.
Possiamo però prendere atto di alcune conseguenze, che mi paiono storicamente
accettabili. In primo luogo l’uccisione di Matteotti eliminò l’avversario
principale, per la sua intransigenza e per la carica che occupava di segretario
del partito, di una delle ipotesi che erano state ventilate e certamente da
qualcuno accarezzate: la normalizzazione per la via di un accordo con i
socialisti turatiani, cioè, in altre parole, la realizzazione del compromesso
fra gruppi economici dirigenti e una parte della classe operaia, che
comprendeva però anche i dirigenti sindacali, come D’Aragona, Baldesi, Buozzi,
ecc., che appartenevano appunto al partito di cui Matteotti era segretario.
Questo compromesso era stato già auspicato da Giolitti, ma i ceti
imprenditoriali non si fidavano più di lui e l’avrebbero forse accettato sotto
la direzione mussoliniana. In secondo luogo il delitto, anche in conseguenza
delle profonde reazioni morali che suscitò nel paese, costrinse il re e la
grande borghesia a esigere da Mussolini una normalizzazione che doveva essere
ormai di nuovo tipo: venuta meno la possibilità di un accordo con gli
avversari, e quindi il consenso almeno di una parte della classe operaia, la
dittatura diventava necessaria, ma doveva essere legalizzata e non abbandonata
alla delinquenza e all’avventurismo. L’immediato passaggio del Ministero degli
Interni da Mussolini stesso a Federzoni fu il primo passo di una trasformazione
che ebbe forse il suo momento decisivo qualche mese dopo con l’assunzione di
Alfredo Rocco al ministero della Giustizia. Con Federzoni e Rocco era il
nazionalismo che si assumeva l’incarico di dare una struttura fascista
eliminando o riducendo il potere dei ras. Può apparire contraddire a questa
tesi la nomina avvenuta in un primo tempo di Farinacci quale segretario del
partito, ma essa rientrava probabilmente nell’abituale doppio gioco di
Mussolini che copriva in tal modo il voltafaccia che si preparava a compiere
nei confronti della vecchia base fascista. E difatti Farinacci fu allontanato
pochi mesi dopo. La vittoria del grande capitalismo era così completa.
Ieri e oggi
Bastano ormai solo poche
considerazioni per terminare il raffronto fra il fascismo di ieri e quello di
oggi. Partendo naturalmente dalla definizione di fascismo che io accetto, cioè
di una presa quasi diretta del potere, senza controllo democratico, da parte
del grande capitale, con l’appoggio di un partito di massa di piccolo-borghesi
o di spostati, direi che il pericolo di una dittatura è maggiore oggi di ieri,
ma per via militare e senza partito di massa. Perché se il fascismo italiano e
quello tedesco furono la conseguenza di una crisi economica, cioè di una
disfunzione provvisoria del sistema, oggi invece, come abbiamo detto, il
sistema ha un bisogno organico e permanente, non più soltanto occasionale, di
avere al proprio servizio l’apparato statale per fare funzionare il meccanismo
dell’accumulazione. Nella misura in cui l’accumulazione si sviluppa su scala
mondiale, questo fa sì che il regime antidemocratico della dittatura diventi
una necessità per i paesi dipendenti. Tuttavia si tratta quasi sempre di una
dittatura militare: essa si appoggia cioè piuttosto sulle forze armate che su
un partito unico di massa.
D’altra parte però non mancano, oltre i motivi
permanenti e strutturali, anche motivi contingenti e congiunturali di crisi.
Non escluderei anzi che l’insieme dei fenomeni economici di vasta portata cui
assistiamo, dalla recessione all’inflazione, potranno essere valutati domani
come un’altra delle grandi tappe critiche del capitalismo, da cui questo potrà
uscire sconfitto oppure ancora una volta rinnovato con un volto diverso. Siamo
comunque in un periodo di crisi, di transizione, di squilibrio dell’economia,
destinato a provocare fenomeni di crisi anche nella società, negli stati
d’animo e nelle ideologie delle classi sociali. Sotto questo profilo quindi non
è escluso il pericolo che si ripetano fenomeni come quelli che abbiamo
esaminato.
Fenomeno diverso è invece quello del terrorismo a
cui assistiamo in molti paesi, fra cui certamente l’Italia. Qui si tratta di
quella che è stata chiamata giustamente “strategia della tensione”, cioè della
chiara volontà di una parte minore della classe imprenditoriale, di alcune
gerarchie statali, in modo particolare di appartenenti a servizi segreti, e
probabilmente anche di una parte del ceto politico, di cercare di provocare,
attraverso attentati terroristici di cui vorrebbero riversare la colpa su
fantomatiche organizzazioni di sinistra, una reazione della piccola borghesia
simile a quella che ha dato origine al primo fascismo. Che una manovra simile
possa riuscire dipende soprattutto dalla vigilanza delle forze democratiche e
dal rispetto del dettato costituzionale da parte degli organi governativi.
Tanto considero difficile debellare le dittature
che sono organicamente legate al processo di accumulazione, altrettanto
considero facile resistere a queste disperate imprese che non hanno una radice
obiettiva nella situazione reale. E tuttavia c’è un’ultima osservazione che mi
pare importante: la democrazia, come la pace, è indivisibile, perché il regime
antidemocratico, sia fascista o militare, ha tendenza ad espandersi e a
distruggere le democrazie che lo circondano e che rappresentano una sfida
permanente al regime dittatoriale. Perciò la difesa della democrazia in ogni
paese è una battaglia che dovrebbe unire tutti i democratici di tutti i paesi:
questo fu l’ammonimento che Filippo Turati, esule dopo il delitto Matteotti e
le leggi eccezionali, lanciò, inascoltato, ai democratici europei.
Le responsabilità della classe dirigente prefascista per l’avvento del
fascismo sono riconosciute, di regola, dagli storici tradizionali. I quali ne
riferiscono, però, come di “errori” commessi da esponenti democratici, liberali
e cattolici che non diminuirebbero i meriti precedenti o - quando ne ebbero -
successivi.
Che
uomini politici qualificati, in età tra i 40 e i 70 anni abbiano potuto
sbagliare il loro giudizio sul fascismo (il quale proprio dal ‘19 al ‘26 si
presentava senza maschera) appare già discutibile. Ma ciò che lascia perplessi
è che si possano considerare quegli “errori” con criteri storicistici tanto distaccati,
senza prendere in considerazione, da un punto di vista politico-morale,
l’effetto che ebbero sull’opinione pubblica, in particolare sulle generazioni
giovani.
Tanto più
quando, nei confronti degli errori di queste ultime, gli storici tradizionali (in
pieno accordo con i vecchi esponenti che “sbagliarono”) non sogliono mostrare
altrettanta comprensione.
Uno
storico della generazione cresciuta durante il fascismo, Paolo Alatri, ha
recentemente affrontato la questione, sostenendo e documentando come, alla base
di quei famosi “errori”, si trovassero in realtà precisi intendimenti e calcoli
(di consegnare, cioè, sia pure temporaneamente, al fascismo, il “regime” di
conservazione che si vedeva minacciato dai progressi delle sinistre nell’altro
dopoguerra) e, spesso, anche una sostanziale identità ideologica originaria.
RUGGERO ZANGRANDI, Il lungo viaggio attraverso il
fascismo, Feltrinelli, 1962.