i testi
LELIO BASSO

LELIO BASSO

Frammenti della vita di un militante

La prima tessera socialista (1921)

 

 

Dedico questi ricordi della mia giovinezza alla memoria dei miei genitori: di mia madre che mi diede lo esempio di una vita di bontà, fraternità e amore degli esseri umani; di mio padre che m’insegnò il libero e spregiudicato uso della ragione.

 

 

Si compiranno nei prossimi giorni cinquant’anni da quando presi la mia prima tessera socialista, e voglio tentare di rievocare il processo formativo che mi portò, giovane men che diciottenne, a quel primo traguardo. E ciò non a scopo autobiografico, che non sarebbe di interesse alcuno, ma per quel tanto di più generale che quella mia esperienza può contenere, per quello cioè che poterono significare, non solo per me ma per altri della mia generazione, le vicende di quel periodo che mi fecero approdare, in un breve volger di tempo, a un porto lontano da quello da cui ero partito. E mentre chiedo scusa degli errori che, a tanta distanza di tempo, può causare la mia memoria, posso tuttavia assicurare che è qui fedelmente tratteggiato, almeno nelle grandi linee, l’iter formativo da me percorso in quegli anni.

Non c’era nessun precedente socialista in famiglia. Mio padre si era formato agli ideali ottocenteschi di progresso, di scienza, di libertà; appassionato di battaglie politiche, era solito recarsi, ad ogni campagna elettorale, nel suo collegio di origine, quello di Savona, per farvi campagna in favore del candidato giolittiano. Erano tempi di collegio uninominale e a due turni: il secondo turno (ballottaggio) vedeva di fronte solo i due candidati riusciti in testa nel primo, che erano in quel collegio il candidato giolittiano e quello socialista. Per cui, nonostante una larga apertura di idee, mio padre era sempre portato a personalizzare nel candidato socialista l’avversario numero uno, e nel socialismo il nemico principale da battere.

Cresciuto a quella scuola, io ne trassi però un insegnamento che considero ancora prezioso: un vivo interesse per la cosa pubblica e per gli avvenimenti politici in generale, il bisogno di una larga informazione, la passione del dibattito. Ricordo che fin da bambino, quando avevo imparato da poco a leggere, scorrevo il giornale per leggervi gli avvenimenti politici piuttosto che la cronaca nera. Forse contribuì a questo mio precoce interesse per le vicende politiche anche il fatto che non avevo ancora otto anni quando l’Italia entrò in guerra con la Turchia per la conquista della Libia, creando un clima di artificioso entusiasmo che si cercava di alimentare nelle scuole. Fu quella la prima guerra che vide l’impiego dell’aviazione militare, e anche questo fatto dovette colpire la mia fantasia di fanciullo perché i nomi di quegli aviatori italiani rimangono ancora nella mia memoria. Il mio interesse alla lettura rimase così in quel tempo diviso fra le avventure dei romanzi di Salgari e quelle non meno affascinanti delle vicende politiche reali di quegli anni, si trattasse della rivoluzione messicana con le imprese leggendarie di Pancho Villa e Emiliano Zapata e le lotte fra il generale Huerta e il generale Carranza, o, più vicino a noi, della guerra di liberazione condotta dai popoli balcanici contro l’impero ottomano. Parteggiavo in Messico per la rivoluzione e, nella guerra, per i piccoli stati balcanici, non certo per convinzione politica ma per una comprensibile simpatia per i deboli.

La prima volta che sentii parlare di socialismo, non da un avversario ma da un socialista, fu ad un comizio del candidato Orazio Raimondo a Ventimiglia, dove allora io abitavo, nelle elezioni politiche del 1913. Non avevo ancora 10 anni e, naturalmente, non avrò ritenuto nulla delle argomentazioni che la vivace dialettica e la straordinaria arte oratoria di Raimondo offrivano agli ascoltatori, e tuttavia quando, nel corso della stessa legislatura, egli abbandonò il Partito socialista per l’interventismo, mi parve quasi ch’egli avesse tradito le promesse fatte anche a me, ultimo dei suoi ascoltatori, in quel comizio sul piccolo piazzale della cattedrale nella città vecchia.

Nel 1916 la mia famiglia si trasferì a Milano e qui fui messo a contatto con una realtà nuova: soprattutto assunse un nuovo volto la guerra, il grande evento che ha segnato profondamente la mia formazione giovanile. A Ventimiglia la guerra non aveva, si può dire, turbato, almeno fino a quel momento, la vita di ogni giorno, tanto più che in campagna i viveri non mancavano. Certo parecchi uomini di nostra conoscenza erano stati chiamati alle armi, e un giovane nostro vicino era morto nei primi combattimenti. Ma l’impressione che io ne avevo ricevuto non era andata al di là di quella tragedia individuale, senza che la guerra mi apparisse ancora come un immenso fatto collettivo che interessava tutto un popolo.

A Milano la guerra assumeva un’altra dimensione, e tanto più l’assumeva quanto più i mesi succedevano ai mesi, le stragi alle stragi, le sofferenze alle sofferenze. A Milano c’erano le fabbriche che producevano per la guerra e c’erano gli operai, in gran parte socialisti; a Milano i problemi degli approvvigionamenti alimentari erano complessi e difficili (i viveri erano razionati e non era facile, come poteva esserlo in un piccolo paese circondato da campagne piuttosto ricche, provvedersi altrimenti); a Milano gli uomini partiti per la guerra non erano pochi individui ma una massa, e anche i problemi dell’assistenza alle famiglie dei richiamati interessavano la collettività; e poi a Milano c’era un’amministrazione socialista, presieduta dal sindaco Caldara, che stava dando prova proprio in quegli anni di una grande capacità organizzativa e di una rara solerzia nell’affrontare tutte le difficoltà create alla popolazione dalla guerra. E qui gli orizzonti di un ragazzo curioso della cosa pubblica dovevano necessariamente allargarsi.

Certo l’ambiente familiare rimaneva un ambiente borghese e patriottico, anche se il neutralismo di Giolitti non era passato senza lasciar traccia, almeno sotto forma di una venatura critica che si avvertiva nelle conversazioni con mio padre. Ma già l’ambiente scolastico era assai più numeroso (a Ventimiglia la mia classe ginnasiale comprendeva poco più che una decina di ragazzi) e quindi anche un pochino più vario. In quel primo anno di vita milanese, frequentavo la quarta classe ginnasiale al “Berchet”, e naturalmente, in un’epoca in cui la scuola era ancor più fortemente classista di oggi, la totalità, credo, dei miei compagni era di famiglia medio o piccolo-borghese, e l’aria che comunemente vi si respirava non aveva nulla di eterodosso o di contestatore. Tuttavia la fortuna volle che avessi come vicino di banco Mario Damiani, figlio di un ingegnere socialista, che non solo era imbevuto delle idee paterne ma aveva un carattere vivacemente polemico ed era continuamente al centro delle discussioni che si facevano tra ragazzi sulla guerra. C’era anche, fra i compagni di classe, la figlia del sindaco socialista, e così il socialismo cessava di avere per me il volto nemico che ero stato abituato ad attribuirgli in famiglia, per assumere un volto conosciuto e amichevole.

Un altro ambiente che mi metteva in contatto con un mondo nuovo e mi apriva ogni giorno orizzonti nuovi erano le “code” ai negozi per acquistare i generi alimentari che, pur essendo razionati, arrivavano sovente in quantità insufficiente. Toccava spesso a noi ragazzi, nelle ore libere, andar a far coda per il pane, la pasta, i salumi, il burro, il formaggio, il latte, la carne, e se la gran timidezza che mi caratterizzava in quel tempo mi vietava di prender parte alle conversazioni degli adulti, non m’impediva però di ascoltare delle voci e delle opinioni che erano assai spesso molto lontane da quelle che ero tradizionalmente abituato a sentire nell’ambiente di casa. La scarsità dei viveri e le “code” sono state sempre infatti, e furono anche allora, due potenti fattori di mobilitazione popolare.1

Fu così che, a poco a poco, cominciai a vedere il vero volto della guerra, le cui distruzioni e carneficine (“l’inutile strage” di cui doveva parlare in quel torno di tempo dal soglio pontificio un papa coraggioso, Benedetto XV) cancellavano brutalmente tutto quello che mi era stato insegnato sui valori della civiltà e del progresso. Certo io non aveva allora nessuna idea dei meccanismi dell’imperialismo, ma cominciavo a vedere da vicino dolori patimenti e ingiustizie, e cominciavo a intuire vagamente che dietro la vernice liberale della società in cui vivevo potevano nascondersi le espressioni più smaccate del privilegio e le supreme follie del nazionalismo, che imparavo in quel tempo ad odiare anche nelle manifestazioni più ingenue dei miei compagni di scuola.

Poi, nel novembre 1917, venne la rivoluzione sovietica. La rivoluzione, ha scritto Marx, è la locomotiva della storia, perché accelera il corso della storia e accelera in pari tempo anche la presa di coscienza delle masse: la rivoluzione russa ha avuto quest’effetto non solo in Russia ma anche nel resto dell’Europa come pure in vaste zone del mondo coloniale e semicoloniale. Io ero allora in un periodo di grande travaglio spirituale: in quel periodo aveva già cominciato ad entrare in crisi la fede religiosa, a cui ero stato educato (mio padre non era credente, mentre mia madre lo era, di viva fede interiore, e non praticante) è che io sentivo soprattutto come un’acuta tensione morale, senza alcun interesse per la simbologia e per l’esteriorità del culto. E fu proprio il contrasto fra la religione come io la sentivo e la chiesa come appariva ai miei occhi che m’insinuò i primi dubbi e provocò fra i 13 e i 14 anni il mio totale distacco dalle pratiche di culto, cui seguì ben presto - sotto l’influenza, in quel tempo, di letture darwiniane - il totale distacco anche da ogni credenza negli insegnamenti della chiesa cattolica. Ma la tensione interna, che si era prima nutrita di sentimenti religiosi, non sparì e si volse al mondo che mi stava attorno, si tradusse in sete di verità e di giustizia.

Il coincidere di questa crisi abbastanza comune di adolescente con quella provocata dalla guerra che, distruggendo anch’essa la fiducia in vecchi valori, mi aveva posto di fronte a problemi assai più grandi di me, offriva un terreno fertile alle suggestioni che venivano dalla rivoluzione sovietica. Io non conoscevo allora nulla del pensiero socialista, nulla di marxismo, nulla di menscevichi o bolscevichi, ma mi attraeva - forse sarebbe più giusto dire che mi attraeva e mi sgomentava insieme - il fascino del cambiamento radicale, del completamente nuovo che si annunciava in Russia. Quando scoppia una rivoluzione, nessun certo può dire dove andrà a sboccare, ma quello che emerge dall’istinto rivoluzionario delle masse è in generale il desiderio di un modo nuovo di vita, il desiderio di rompere con il passato in modo totale, la contestazione globale di una società e dei suoi valori. Ed era questo l’aspetto che doveva maggiormente attrarre un ragazzo, che proprio in quel periodo, sulle soglie dell’adolescenza, era alla ricerca di nuovi valori in cui credere.

Se cerco di scavare nelle reminiscenze che ancora emergono da quell’ormai lontano periodo, credo di poter dire che l’aspetto che maggiormente mi colpi, nella rivoluzione sovietica, fu il fatto che per la prima volta nella storia del mondo gli operai e i contadini di un immenso paese avevano abbattuto non soltanto l’imperatore (ciò era accaduto molte volte nella storia), ma tutte le gerarchie sociali esistenti, e stavano cercando di prendere in mano da sè i loro destini, si cimentavano direttamente con i problemi più ardui della vita dello stato e della società, cercavano di fondare una nuova forma di convivenza umana, che si presentava come l’espressione della più alta giustizia e della concreta solidarietà fra gli uomini.

Anche per chi non conosceva nulla della dottrina di Marx e degli scritti di Lenin, anche per chi addirittura ignorava che cosa volesse dire esattamente “socialismo”, per la massa dei lavoratori, degli oppressi, degli sfruttati, ma insieme anche per un giovane che s’interrogava, senza riuscire a dare risposta, sui problemi fondamentali della vita sociale, questo capovolgimento delle gerarchie, questo inizio di una convivenza nuova appariva come il dato essenziale della rivoluzione e apriva nuove infinite speranze per l’avvenire del mondo. Veniva offerta la prova che non c’era un ordine naturale ed eterno della società che non potesse essere messo in discussione, che la divisione in classi, in sfruttatori e sfruttati, potenti ed oppressi, padroni e servi, ricchi e poveri, non era qualche cosa d’immutabile che rispondesse ai “disegni della provvidenza”, ma che al contrario anche i poveri, gli sfruttati, i servi potevano rivendicare la piena dignità umana ed erano capaci di assumersi le maggiori responsabilità.

Con questo non voglio dire che la rivoluzione d’ottobre mi avesse convertito al socialismo o al comunismo, non solo perché rimanevano ancora in me le vecchie remore dell’educazione ricevuta, ma anche perché le immagini che mi arrivavano della Russia, filtrate prima attraverso i giornali che si leggevano in casa e poi passate al vaglio delle mie poche idee incerte e confuse, non erano soltanto luci ma anche ombre inquietanti. Soprattutto la forte carica libertaria, che era contenuta nell’educazione “liberale” ricevuta, ripugnava alle costrizioni che la rivoluzione necessariamente portava con sé. Certo è tuttavia che essa non solo contribuì ad allargare l’orizzonte della mia problematica ma fu probabilmente determinante nell’indirizzarla verso la ricerca e le soluzioni a cui sarei più tardi arrivato.

Decisivo per la mia formazione fu l’anno scolastico successivo, il primo corso liceale 1918-19, soprattutto per l’ascendente di un mio professore e per il nuovo clima che si veniva creando con la fine della guerra. Finché la guerra era durata, la tensione anche psicologica ch’essa provocava, l’intensità della propaganda patriottica, l’orgoglio nazionale umiliato dalla sconfitta di Caporetto, e infine le misure di sicurezza dell’apparato governativo avevano creato qualche ostacolo al libero corso delle discussioni e all’aperta espressione di opinioni dissenzienti anche fra noi studenti, e avevano tenuto a freno la manifestazione dei nuovi sentimenti che venivano maturando nell’animo popolare e a cui solo la fine della guerra doveva aprire le porte. Fu come se una molla lungamente compressa fosse lasciata libera di colpo. I sacrifici di ogni genere imposti dalla guerra, i lunghi anni di trincea, le esperienze nuove che ne erano derivate, i contatti umani che erano stati resi possibili e i nuovi orizzonti che si erano aperti a masse fin allora in gran parte soffocate nel chiuso della vita rurale, le ingiustizie patite, le abbondanti promesse della classe dirigente, tutto aveva contribuito ad accumulare nell’ambito delle masse italiane un potenziale di rivendicazioni e di rivolta che si trovava finalmente libero di esprimersi. E l’eco delle passioni, dei sentimenti e dei risentimenti, delle aspirazioni, delle invettive, delle lotte che cominciarono subito ad agitare il paese si ripercuoteva anche nelle aule scolastiche, allentava il rigore della disciplina, apriva per la prima volta, nella mia esperienza scolastica un autentico dialogo politico fra studenti ed anche con qualche professore, obbligava anche noi a pensare prima di formulare giudizi e a ripensare prima di controbattere gli argomenti contrari.

Io non potevo non essere colpito dalla vita che ritornava a pulsare nella grande città, così diversa dalla vita di guerra ma anche così diversa e lontana da quella che potevo ricordare del tempo di pace nella piccola e allora sonnolenta Ventimiglia. Non potevano non colpirmi le voci nuove, i racconti dei reduci, le grida degli operai manifestanti nelle strade, i comizi nelle piazze, le proteste, che ora si facevano sentire più nette, delle donne nelle code davanti ai negozi. Sembrava che un altro mondo nascesse, che non aveva quasi più nulla di comune con il vecchio mondo dell’anteguerra, quale io l’avevo conosciuto. Vengo da un tempo - non così lontano cronologicamente quanto lo è idealmente - in cui le differenze sociali erano materializzate anche negli aspetti esteriori ed irrigidite in una visione gerarchizzata e piramidale della società che si rifletteva in ogni atto della vita e in ogni momento della giornata. Non era pensabile allora che un operaio e un “signore” vestissero abiti della stessa foggia e si coprissero con uguali copricapi (visto che non si usava andare a capo scoperto) ognuno doveva mostrare nell’abito a quale classe apparteneva. E ricordo come ci si indignava in certi ambienti all’idea che le “sartine” di Torino osassero portare il cappello, che avrebbe invece dovuto essere riservato alle “signore”, e quale scandalo ancor maggiore si ebbe nel dopoguerra quando le operaie cominciarono a portare calze di seta, magari artificiale, usurpando in questo modo una delle più gelose prerogative delle “signore”.2 Ma scandalo più grave di tutti, perché era un affronto diretto al principio gerarchico, fu quello delle donne del popolo che cominciarono a rifiutare nelle “code” dei negozi di lasciare il passo ad una “signora” con tanto di cappello, che eccezionalmente veniva di persona a fare la spesa. Ho detto altra. volta, parlando delle origini del fascismo3, che questo sovvertimento delle gerarchie ebbe sicuramente gran peso nell’alimentare i sentimenti antioperai e antisocialisti della piccola borghesia urbana, cane da guardia di un ordine sociale che le permetteva di considerarsi al di sopra della “massa”, che le permetteva di sentirsi, come un qualunque caporale o sottufficiale, investito di una parcella dell’autorità che discende dall’alto: il passaggio di questi ceti al fascismo fu anche in funzione del desiderio di vedere nuovamente gli operai costretti a rispettare una scala gerarchica che la crescita delle masse andava sempre più sommergendo.

Attraverso quelle vicende si svolgeva davanti ai miei occhi un’autentica rivoluzione. Non rivoluzione nel senso che comunemente si dà a questa parola di cambiamento violento di regime sociale o politico, ma una rivoluzione che si potrebbe dire “culturale”, un radicale mutamento nella coscienza delle masse, un capovolgimento dei valori tradizionali, una. maturazione improvvisa di volontà democratica, una presa di coscienza della propria dignità e della propria responsabilità. Si sono scritte tante cose sugli eccessi e gli errori del ‘19, sulle colpe del massimalismo, e molto vi è di vero, ma nessuno, ch’io sappia, ha adeguatamente sottolineato quel che il ‘19 rappresentò come, crescita democratica delle masse, che rompevano una secolare sudditanza per entrare da protagonisti sulla scena della storia, che abbattevano molte delle divisioni semi-castali che ancora irrigidivano la società italiana, che davano dignità, coscienza civile, sentimento di uguaglianza, a milioni di uomini e di donne fino ad allora considerati esseri inferiori e tenuti ai margini della società, che infine contestavano l’aura di sacralità di cui si era circondato nei secoli il diritto di proprietà. Nessuna lotta precedente in Italia, e neppure successivamente la Resistenza, sollevarono, a mio parere, una così vasta presa di. coscienza collettiva, un rivolgimento così profondo dei valori stabiliti, un’ondata così alta di entusiasmo e di volontà di rinnovamento nelle idee, nel costume, nei rapporti sociali: mai l’iniziativa democratica delle masse toccò un più alto livello, La Resistenza puntò soprattutto sul mutamento del regime politico, anche se nel profondo si agitavano spinte e motivazioni sociali che furono represse dagli stessi partiti di sinistra; nel 1919 il PSI controllava assai meno le masse che esprimevano spontaneamente la volontà di un mutamento radicale.4

In quella rivolta democratica, ch’era insieme politica e morale, io mi trovai d’istinto dalla parte delle masse: fu questo l’aspetto che decise la mia scelta e orientò la mia vita di militante. Nell’atteggiamento delle popolane che rifiutavano di cedere il passo alle “signore”, nello scambio di battute che spesso accompagnava queste scenette, io sentivo vibrare questa nota nuova, e ricordo ancora la profonda impressione che, a torto o a ragione, mi fece un opuscoletto diffuso, non saprei dire con esattezza in quale anno, ma comunque in quel periodo, dalla Federazione lavoratori albergo e mensa per rivendicare l’istituzione della percentuale di servizio in luogo della mancia, che basava la sua argomentazione sul principio enunciato nel titolo che “la mancia avvilisce chi la dà e chi la riceve”. E se questa era la scena che si svolgerà sotto i miei occhi, nello sfondò lontano c’era ancora, più viva che mai, la rivoluzione sovietica.

Certo vi erano anche motivi economici che mettevano in moto i lavoratori, vi erano antiche ingiustizie da riscattare e nuove difficoltà da superare, c’erano i problemi della terra, dell’inflazione, del caro-vita, del reinserimento dei soldati nella vita civile, e via discorrendo. E se tutto ciò era largamente sufficiente a spiegare l’irrequietezza, l’instabilità, lo spirito di rivolta che percorreva le masse, se tutto ciò era sufficiente a giustificare l’ondata di scioperi, la profonda tensione sociale, l’agitazione continua delle masse, lo irrobustirsi del sindacato e del Partito socialista, mi pare però fuori di dubbio che, al di là di questi fenomeni, quel che dava alle masse una grande speranza, che dava un contenuto politico anche alle lotte economiche, che faceva sentire l’unità di tutte le battaglie in una prospettiva nuova, che dava il coraggio di maggiori responsabilità storiche e forse pesò in modo determinante nel dare alle Camere del lavoro un ruolo di primo piano in lotte non strettamente sindacali, come l’agitazione contro il caro-vita del 1919 e l’anno dopo nell’imprimere all’occupazione delle fabbriche un significato che andava ben al di là del carattere puramente sindacale della controversia da cui aveva preso origine, quel che insomma illuminò di una luce nuova tutto il movimento di quegli anni e orientò in modo decisivo la coscienza delle masse, fu da un lato questo senso nuovo di dignità e di democrazia, il bisogno di diventare finalmente uomini a parte intiera, ciò che non è possibile in una società divisa in classi, e dall’altro l’affermazione vittoriosa della rivoluzione d’ottobre che dava a questo bisogno, maturato nel fango delle trincee e nella fatica delle fabbriche, un supporto realistico.

Gli scrittori, i politici e i giornalisti borghesi non avevano cessato di prevedere il rapido crollo del regime bolscevico; i teorici della socialdemocrazia internazionale avevano dimostrato “scientificamente” che il regime nato dalla rivoluzione d’ottobre non poteva sopravvivere perché non ne esistevano le “condizioni storiche”. Ma a dispetto delle profezie borghesi e della “scienza socialdemocratica”, gli operai e i contadini sovietici continuavano a difendere le conquiste della rivoluzione e in mezzo a tremende difficoltà il partito bolscevico continuava a conservare il potere nonostante la guerra civile e l’aggressione esterna, nonostante l’incredibile situazione economica e il dissolversi di larga parte del tessuto sociale. Era una creazione continua, una risposta quotidiana del potere sovietico ai problemi nuovi che insorgevano da ogni parte, era una vittoria della volontà, del coraggio, dell’intelligenza e della giovinezza di una classe nuova che dimostrava la sua inesauribile capacità di iniziativa nelle condizioni più avverse. A misura che i pregiudizi cadevano, che le profezie venivano smentite dai fatti, che la “scienza” veniva confutata dalla realtà, anche le masse italiane sentivano che l’impossibile era diventato possibile, che quella che era stata irrisa per decenni come un’utopia poteva diventare realtà, che una nuova risposta poteva finalmente essere data alle difficoltà, ai problemi, alle contraddizioni che avevano travagliato fino ad allora la storia del loro paese.

Probabilmente, nel rievocare questi ricordi, io li presento oggi in un quadro più razionale e magari accosto immagini e sensazioni che provai in momenti diversi. Ma è certo che fu sull’onda di questo vasto moto popolare, nel quadro della nuova dimensione che la realtà del mondo veniva assumendo ai miei occhi, dopo che la guerra aveva distrutto l’immagine precisa ed ordinata che me ne era stata data nell’infanzia e dopo che il distacco dalla chiesa mi aveva privato di un metro di misura in cui avevo per un momento confidato, fu sotto la spinta delle motivazioni che ho enunciato, che io maturai definitivamente nel 1919 la mia convinzione socialista. Ma un ruolo importante ebbe in questa mia personale vicenda l’insegnamento e la guida del mio professore di storia Ugo Guido Mondolfo, che io conobbi entrando in prima liceo nell’ottobre 1918, proprio alla vigilia dell’armistizio, quando stava per scatenarsi l’ondata popolare di cui ho parlato.

Era il primo socialista adulto che io conoscevo direttamente, ed era così diverso dal tipo di socialista che io ero stato abituato a sentir dipingere, parolaio, retorico, arruffapopoli, facile al vino, alla demagogia, al disordine. Mondolfo non era nulla di tutto questo, anzi era esattamente il contrario, sobrio nella parola, concettoso, senza nessuna indulgenza per i difetti abituali della nostra classe politica. Sicché il solo fatto che questo uomo, la cui superiorità e il cui fascino avvertii fin dal primo momento, fosse socialista, e socialista militante, sovvertiva la nozione dei socialisti e del socialismo che mi era stata inculcata.

Nelle sue lezioni Mondolfo non faceva alcuna propaganda per le sue idee, ma il suo modo di insegnare la storia, così diverso da quello allora in uso nelle nostre scuole secondarie, la sua concretezza marxista nella narrazione degli eventi, avevano una tale vivezza da tradursi, nell’animo di un ascoltatore aperto e avido di apprendere, quasi in pagine di storia contemporanea, dove il parteggiare diventava un imperativo morale. Non più la storia soltanto di re e di papi, di generali e di ministri, di guerre e di trattati, ma la storia di popoli, di masse di uomini vivi, concreti, palpitanti, ricchi di bisogni e di aspirazioni, che lentamente, attraverso una multiforme opera collettiva, tessevano la trama del loro destino, ponevano le fondamenta di nuove civiltà e di nuove convivenze umane, elaboravano nuovi orientamenti di pensiero e nuove visioni del mondo. Ed ecco, come da quel lontano passato si vedeva a poco a poco nascere il presente, così dal presente si sarebbe potuto veder nascere il futuro; ecco sovrapporsi nella mia mente, alle masse di un tempo, ai loro bisogni e ai loro problemi, alle loro aspirazioni e alle loro ideologie, le masse del mio tempo, gli operai e i contadini russi, gli operai e i contadini del mio paese che, proprio durante quell’anno scolastico 1918-19, si agitavano e tumultuavano in nome del socialismo.

Non credo che la parola “socialismo” sia mai uscita dalla bocca di Mondolfo in quell’anno di lezioni, ma era l’esigenza di una superiore dignità dell’uomo, di una più vera libertà, intesa al tempo stesso come liberazione da tutte le oppressioni e come una più alta espressione di personalità, che appariva come il più sicuro criterio di giudizio per misurare l’ascesa dell’umanità verso forme superiori di civiltà. E nella coscienza collettiva dei mali sociali, nella solidarietà degli sforzi per superarli, appariva l’arma decisiva per abbattere regimi oppressivi o condannati dalla storia, per mettere in moto nuove spinte di progresso, per far affiorare nuovi valori. Sicché finalmente, proprio grazie all’insegnamento di Mondolfo, io potevo superare il dissidio fra il mio cuore, che già batteva all’unisono con le masse che tutt’attorno si agitavano in quel tumultuoso e difficile dopoguerra, e la mia mente, educata a respingere come utopistiche e assurde le tesi socialiste: una visione più alta e matura del socialismo cominciava a profilarmisi innanzi, un socialismo fondato sulla libertà e ricco dei più alti valori morali, cui l’umanità sarebbe pervenuta attraverso un difficile cammino di lotte, di sconfitte, di eroismi e di errori.

Tutto ciò, naturalmente, non rimaneva chiuso in un’elaborazione interiore, ma prendeva forma nelle polemiche accese che facevamo tra compagni di classe, una classe in cui non mancavano ingegni vivaci ed animi appassionati (Mondolfo mi disse molti anni dopo che la ricordava come la miglior classe che avesse avuto), da Mario Damiani, che ho già ricordato, combattivo entusiasta e generoso, a Vittorio Albasini, riflessivo e misurato, entrambi trascinati poi innanzi al Tribunale Speciale, e il primo morto in campo di concentramento tedesco, da Antonello Gerbi, nipote di Claudio Treves, intelligenza pronta e versatile, a Luigi Gedda, la cui intelligenza e il cui impegno politico non ho bisogno di ricordare perché tutti conoscono il leader dei Comitati civici.

Credo proprio che questa coincidenza fra l’insegnamento di Mondolfo e la svolta storica di quegli anni, che segnavano l’inizio della grande avventura del dopoguerra, sia stata decisiva per il mio sviluppo ulteriore. Perché è appunto nel corso di quell’anno scolastico che io feci la scelta del socialismo, non soltanto come idea da professare ma come milizia da seguire, scelta che mi doveva costare fin dai primi momenti accesi dibattiti in famiglia e non poche preoccupazioni. Fu a Mondolfo, naturalmente, che ricorsi, per consigli di prime letture, e da lui ebbi dei suggerimenti, che mi furono preziosi: i saggi di Antonio Labriola e gli scritti storici di Marx ed Engels sulle lotte di classe in Francia e in Germania, oltre al classico Manifesto.

Queste letture, così come l’insegnamento di Mondolfo, hanno influito nettamente sul mio pensiero: devo in gran parte ad esse di aver sempre ricercato in Marx più lo stratega della lotta di classe, il rivoluzionario impegnato a fare la storia, che il teorico dell’economia, ma soprattutto il gusto per gli studi storici e per le analisi dei problemi di classe come inseparabili da ogni valutazione e quindi da ogni atteggiamento politico, cioè la coscienza della necessità di verificare, nel vivo della concretezza storica, qualunque ideologia, qualunque teoria, qualunque strategia politica.

Quella formazione ha inciso su tutta la mia vita. Innanzi tutto sul piano del significato etico del socialismo, che a me si presentò soprattutto sotto specie di un grande moto di redenzione umana, e che perciò significò sempre per me liberazione dell’uomo da ogni servitù economica, sociale, politica o ideologica, partecipazione di tutti alla responsabilità collettiva, conquista di un’uguale dignità morale, fine di ogni alienazione. Mi persuasi allora che il socialismo, proprio in quanto esprimeva dei valori morali nuovi, era in radicale antitesi con il mondo borghese, che solo la distruzione della società capitalistica poteva aprirgli la strada, non solo sul piano economico ma anche sul piano morale. E’ probabile che la mia mente giovanile abbia avuto tendenza ad accentuare e magari esasperare i contrasti e che certe forme di intransigenza morale che mi furono proprie peccassero di eccessività, che il “neo-protestantesimo” che rappresentò, non sul piano religioso ma sul piano culturale, un momento successivo della mia formazione, e si espresse in forme spesso ingenuamente drammatiche, fosse soltanto un derivato della natura di quel mio primo approccio. Ma sono comunque lieto che il mio socialismo sia uscito in quella forma dalle temperie di quegli anni.

In secondo luogo sul piano intellettuale, perché fu proprio quella mia giovanile formazione marxista che impregnò la mia mente prima che potessero albergarvi altre Weltanschauungen, che mi diede il senso dialettico della storia e mi fece comprendere che la rivoluzione socialista nasce dalle contraddizioni della società capitalistica e quindi dalla multiforme realtà storica e sociale, senza seguire ovunque lo stesso schema fisso: da ciò anche la convinzione che la lotta per il socialismo fosse una lotta attuale, non nel senso che esso fosse già allora a portata di mano, ma che certamente fosse già all’ordine del giorno della storia, che non fosse più sogno utopistico, speranza da rimandare al futuro, bensì un ordine nuovo le cui fondamenta erano gettate nella società capitalistica e alla cui graduale edificazione doveva esser volta la lotta quotidiana. Donde infine la conseguenza, che emerse abbastanza chiara già nei miei anni giovanili, al termine del periodo formativo, che una forte tensione ideale, una chiarezza d’impostazione politica, una cosciente previsione del futuro e una dura volontà di vittoria dovevano animare di continuo il movimento operaio.

In ultimo sul piano personale. A misura che maturava la mia convinzione socialista, e con essa cominciavano a nascere anche i primi impegni pratici, si accentuava la tensione in famiglia e gli scontri verbali con mio padre diventavano sempre più frequenti, o addirittura quotidiani, soprattutto ai pasti che avevano rappresentato normalmente in casa nostra un momento di serena pace domestica e addirittura avevano conservato un’aura quasi sacrale di raccoglimento comunitario attorno all’autorità del paterfamilias. La ripresa dell’anno scolastico nell’ottobre 1919, i nuovi incontri e le nuove discussioni con i compagni di scuola avevano ravvivato il mio entusiasmo, il mio impegno, e di riflesso, anche le battaglie domestiche e questo m’indusse ad assicurarmi un’autonomia economica che mi garantisse la possibilità, se necessario, di una vita indipendente sotto tutti i rapporti. Fu così che ai primi di novembre 1919, non ancora sedicenne, cercai e trovai rapidamente un impiego come stenodattilografo che due mesi dopo cambiai con un posto di corrispondente presso una azienda di macchine per maglieria. Fu quello anche il mio primo contatto con il mondo del lavoro, e fu questa per me una esperienza particolarmente interessante, tanto che m’indussi presto a non recarmi a casa per il pasto di mezzogiorno, in modo da aver tempo di discutere con qualche collega, e soprattutto con gli operai, degli avvenimenti politici dell’Italia e del mondo.

Quella scelta di lavoro, anche se fu per me particolarmente faticosa, credo sia stata almeno altrettanto salutare, perché mi diede subito la misura della serietà dell’impegno che avevo assunto e che avrei dovuto portare avanti nella vita in mezzo a non poche difficoltà. Quei due anni che vanno dal novembre 1919 al novembre 1921 furono piuttosto duri: lavoravo in ufficio otto ore al giorno e anche più; rientravo a casa per l’ora di cena e dopo cena frequentavo quasi sempre riunioni pubbliche (mi piaceva in particolare assistere ad assemblee di operai alla Camera del Lavoro), conferenze e simili, perché avevo fretta di arricchire il mio bagaglio di idee e di esperienze socialiste, infine, dopo essere rincasato, dovevo sottrarre qualche ora al sonno per lo studio scolastico (non volevo perdere e non persi difatti neppure un anno) e per le altre letture che m’interessavano. Questo tipo di vita durò quasi sei anni, corrispondenti ai due ultimi anni di liceo e ai quattro anni della facoltà di legge, cioè dal novembre 1919 fino alla primavera 1925, e mi permise di laurearmi regolarmente al luglio del quarto anno, con una tesi di laurea su “La concezione della libertà in Marx”.

I primi due anni furono, tuttavia i più duri, sia perché non ero ancora abituato a un simile sovraccarico di lavoro, sia forse anche perché ero ancora molto giovane, sia infine perché gli. esami di liceo erano più impegnativi di quelli universitari e richiedevano una preparazione più faticosa. Forse fu questo sovraccarico di lavoro, insieme con la coscienza della mia immaturità, che mi trattenne in quegli anni dal formalizzare con una regolare iscrizione la mia milizia socialista, ma fu anche, almeno inizialmente, la difficoltà per me di orientarmi nelle lotte di frazione che dilaniavano il Partito socialista e preparavano le future scissioni. Lettore dell’Avanti! nella sua edizione milanese, avevo scarse nozioni di quel che succedeva a Torino, poche occasioni di leggere Gramsci e nessuna di leggere Bordiga, e mi riconoscevo abbastanza nella posizione di Serrati.

Dibattei lungamente con me stesso il problema della scissione di Livorno, e già allora l’argomento principale che m’indusse a non seguire il Partito comunista fu il problema che oggi si chiamerebbe delle “vie nazionali”: non mi persuadevano affatto le 21 condizioni imposte uniformemente a tutti i partiti, e di questa spiegazione del mio atteggiamento ho ritrovato traccia in un articolo scritto pochi anni dopo.

Intanto, nel corso del 1921, il fascismo avanzava ormai da ogni parte e poneva una serie di problemi pratici: la situazione esigeva da ogni militante un atteggiamento di lotta che non poteva più soddisfarsi di un impegno solitario come era il mio. Fu l’ingresso all’università di Pavia nel novembre 1921 che mi offerse:delle nuove possibilità. Avevo ottenuto dalla cortesia del mio datore di lavoro un giorno di vacanza settimanale per frequentare le lezioni, oltre a due-tre settimane complessive pere gli esami delle due sessioni; non ero quindi più un “privatista”, come ero stato nei due ultimi anni di liceo. Decisi perciò subito, fin dai miei primi contatti con l’ambiente universitario, di prendere aperta posizione nelle battaglie politiche del mondo studentesco e non ebbi esitazione a scegliere l’iscrizione al gruppo studenti socialisti, di cui era allora presidente Carlo Arnaudi, (scomparso recentemente dopo essere stato senatore e ministro socialista), e al quale si iscrisse pure con me Ezio Vanoni, mio compagno di corso.5

Fu quella, cinquant’anni fa, in un giorno tra la fine di novembre e i primi di dicembre 1921, la mia prima tessera

Roma, 5 dicembre 1971



1 Scrive G. Talès, a proposito delle donne della Comune, che esse “avaient plus souffert du siège que bien des gardes nationaux; les fatigues causées par la recherche perpétuelle de la nourriture, par les longues stations à la porte des magasins, les rendaient promptes à s’exaspérer, elles sont au premier rang dans toutes les journées de mars et plus tard, sous la Commune, on les retrouve bien souvent le fusil à la main”. (La Commune de 1871, Parigi, s.d., p. 15).

2 Sotto questo profilo eravamo ancora in pieno Ottocento, quando, anche a Parigi “prolétaires ou artisans, les gens du peuple ont des signes de reconnaissance immédiatement perceptibies: la blouse ou la casquette, véritable uniforme prolétarien” (H. Lefebvre, La proclamation de la Commune, Parigi, 1965, p. 124).

3 V. Fascismo e Antifascismo, Lezioni e Testimonianze (1918-1936), I, Milano, 1962, pp. 9 sgg.

4 Poiché ho ricordato sopra analogie con la Comune, anch’essa una rivoluzione che seguiva a una guerra, ricorderò che Louise Michel ha così descritto lo stata d’animo delle masse in quel momento storico: “on avait hâte de s’échapper du vieux monde” (La Commune, Paris, s.d., p. 426).

5 In una recente accurata biografia di Rodolfo Morandi, si dice che anche Morandi avrebbe preso la stessa tessera quell’anno (A. Agosti, Rodolfo Morandi, il pensiero e l’azione, Bari, 1971, p. 22). L’affermazione, basata sul ricordo dell’amico Eugenio Pennati, è tuttavia errata. Ero in quel tempo molto legato a Morandi, la cui serietà morale e il cui impegno di studio non potevano non accattivargli le mie simpatie, nonostante la sua chiusura e la sua difficoltà di comunicare, e tutti i quattro anni di vita universitaria comune (prima a Pavia, poi insieme, per una sola sessione di esami a Torino, e infine ancora assieme per l’ultimo anno a Milano, dove ci laureammo lo stesso giorno con lo stesso prof. Groppali di filosofia del diritto) furono una continua polemica politica, egli essendo rimasto fino alla fine repubblicano e mazziniano, e tenacemente antimarxista e antisocialista. Quando nel 1924, dopo il delitto Matteotti, fu fondato il gruppo goliardico per la libertà, di cui io fui eletto, presidente ed egli vicepresidente, egli continuava a essere repubblicano. La sua conversione al marxismo e al socialismo avvenne in occasione di un viaggio in Germania dopo la laurea (ib., p. 73).