LELIO BASSO
Frammenti della vita di un militante
La prima
tessera socialista (1921)
Dedico questi ricordi della mia giovinezza alla memoria dei
miei genitori: di mia madre che mi diede lo esempio di una vita di bontà,
fraternità e amore degli esseri umani; di mio padre che m’insegnò il libero e
spregiudicato uso della ragione.
Si compiranno nei prossimi
giorni cinquant’anni da quando presi la mia prima tessera socialista, e voglio
tentare di rievocare il processo formativo che mi portò, giovane men che diciottenne, a quel primo traguardo. E ciò non a
scopo autobiografico, che non sarebbe di interesse alcuno, ma per quel tanto di
più generale che quella mia esperienza può contenere, per quello cioè che
poterono significare, non solo per me ma per altri della mia generazione, le
vicende di quel periodo che mi fecero approdare, in un breve volger di tempo, a
un porto lontano da quello da cui ero partito. E mentre chiedo scusa degli
errori che, a tanta distanza di tempo, può causare la mia memoria, posso tuttavia
assicurare che è qui fedelmente tratteggiato, almeno nelle grandi linee, l’iter
formativo da me percorso in quegli anni.
Non c’era nessun
precedente socialista in famiglia. Mio padre si era formato agli ideali
ottocenteschi di progresso, di scienza, di libertà; appassionato di battaglie
politiche, era solito recarsi, ad ogni campagna elettorale, nel suo collegio di
origine, quello di Savona, per farvi campagna in favore del candidato
giolittiano. Erano tempi di collegio uninominale e a due turni: il secondo
turno (ballottaggio) vedeva di fronte solo i due candidati riusciti in testa
nel primo, che erano in quel collegio il candidato giolittiano e quello
socialista. Per cui, nonostante una larga apertura di idee, mio padre era
sempre portato a personalizzare nel candidato socialista l’avversario numero
uno, e nel socialismo il nemico principale da battere.
Cresciuto a quella scuola,
io ne trassi però un insegnamento che considero ancora prezioso: un vivo
interesse per la cosa pubblica e per gli avvenimenti politici in generale, il
bisogno di una larga informazione, la passione del dibattito. Ricordo che fin
da bambino, quando avevo imparato da poco a leggere, scorrevo il giornale per
leggervi gli avvenimenti politici piuttosto che la cronaca nera. Forse contribuì
a questo mio precoce interesse per le vicende politiche anche il fatto che non
avevo ancora otto anni quando l’Italia entrò in guerra con la Turchia per la
conquista della Libia, creando un clima di artificioso entusiasmo che si
cercava di alimentare nelle scuole. Fu quella la prima guerra che vide
l’impiego dell’aviazione militare, e anche questo fatto dovette colpire la mia
fantasia di fanciullo perché i nomi di quegli aviatori italiani rimangono
ancora nella mia memoria. Il mio interesse alla lettura rimase così in quel
tempo diviso fra le avventure dei romanzi di Salgari
e quelle non meno affascinanti delle vicende politiche reali di quegli anni, si
trattasse della rivoluzione messicana con le imprese leggendarie di Pancho Villa e Emiliano Zapata e
le lotte fra il generale Huerta e il generale Carranza, o, più vicino a noi, della guerra di liberazione
condotta dai popoli balcanici contro l’impero
ottomano. Parteggiavo in Messico per la rivoluzione e, nella guerra, per i
piccoli stati balcanici, non certo per convinzione
politica ma per una comprensibile simpatia per i deboli.
La prima volta che sentii
parlare di socialismo, non da un avversario ma da un socialista, fu ad un
comizio del candidato Orazio Raimondo a Ventimiglia, dove allora io abitavo,
nelle elezioni politiche del 1913. Non avevo ancora 10 anni e, naturalmente,
non avrò ritenuto nulla delle argomentazioni che la vivace dialettica e la
straordinaria arte oratoria di Raimondo offrivano agli ascoltatori, e tuttavia
quando, nel corso della stessa legislatura, egli abbandonò il Partito
socialista per l’interventismo, mi parve quasi ch’egli avesse tradito le
promesse fatte anche a me, ultimo dei suoi ascoltatori, in quel comizio sul
piccolo piazzale della cattedrale nella città vecchia.
Nel 1916 la mia famiglia
si trasferì a Milano e qui fui messo a contatto con una realtà nuova:
soprattutto assunse un nuovo volto la guerra, il grande evento che ha segnato
profondamente la mia formazione giovanile. A Ventimiglia la guerra non aveva,
si può dire, turbato, almeno fino a quel momento, la vita di ogni giorno, tanto
più che in campagna i viveri non mancavano. Certo parecchi uomini di nostra
conoscenza erano stati chiamati alle armi, e un giovane nostro vicino era morto
nei primi combattimenti. Ma l’impressione che io ne avevo ricevuto non era
andata al di là di quella tragedia individuale, senza che la guerra mi
apparisse ancora come un immenso fatto collettivo che interessava tutto un
popolo.
A Milano la guerra
assumeva un’altra dimensione, e tanto più l’assumeva quanto più i mesi
succedevano ai mesi, le stragi alle stragi, le sofferenze alle sofferenze. A
Milano c’erano le fabbriche che producevano per la guerra e c’erano gli operai,
in gran parte socialisti; a Milano i problemi degli approvvigionamenti
alimentari erano complessi e difficili (i viveri erano razionati e non era
facile, come poteva esserlo in un piccolo paese circondato da campagne
piuttosto ricche, provvedersi altrimenti); a Milano gli uomini partiti per la
guerra non erano pochi individui ma una massa, e anche i problemi
dell’assistenza alle famiglie dei richiamati interessavano la collettività; e
poi a Milano c’era un’amministrazione socialista, presieduta dal sindaco Caldara, che stava dando prova proprio in quegli anni di
una grande capacità organizzativa e di una rara solerzia nell’affrontare tutte
le difficoltà create alla popolazione dalla guerra. E qui gli orizzonti di un
ragazzo curioso della cosa pubblica dovevano necessariamente allargarsi.
Certo l’ambiente familiare
rimaneva un ambiente borghese e patriottico, anche se il neutralismo di
Giolitti non era passato senza lasciar traccia, almeno sotto forma di una
venatura critica che si avvertiva nelle conversazioni con mio padre. Ma già
l’ambiente scolastico era assai più numeroso (a Ventimiglia la mia classe
ginnasiale comprendeva poco più che una decina di ragazzi) e quindi anche un
pochino più vario. In quel primo anno di vita milanese, frequentavo la quarta
classe ginnasiale al “Berchet”, e naturalmente, in
un’epoca in cui la scuola era ancor più fortemente classista di oggi, la
totalità, credo, dei miei compagni era di famiglia medio o piccolo-borghese, e
l’aria che comunemente vi si respirava non aveva nulla di eterodosso o di
contestatore. Tuttavia la fortuna volle che avessi come vicino di banco Mario
Damiani, figlio di un ingegnere socialista, che non solo era imbevuto delle
idee paterne ma aveva un carattere vivacemente polemico ed era continuamente al
centro delle discussioni che si facevano tra ragazzi sulla guerra. C’era anche,
fra i compagni di classe, la figlia del sindaco socialista, e così il
socialismo cessava di avere per me il volto nemico che ero stato abituato ad
attribuirgli in famiglia, per assumere un volto conosciuto e amichevole.
Un altro ambiente che mi metteva
in contatto con un mondo nuovo e mi apriva ogni giorno orizzonti nuovi erano le
“code” ai negozi per acquistare i generi alimentari che, pur essendo razionati,
arrivavano sovente in quantità insufficiente. Toccava spesso a noi ragazzi,
nelle ore libere, andar a far coda per il pane, la pasta, i salumi, il burro,
il formaggio, il latte, la carne, e se la gran timidezza che mi caratterizzava
in quel tempo mi vietava di prender parte alle conversazioni degli adulti, non
m’impediva però di ascoltare delle voci e delle opinioni che erano assai spesso
molto lontane da quelle che ero tradizionalmente abituato a sentire
nell’ambiente di casa. La scarsità dei viveri e le “code” sono state sempre
infatti, e furono anche allora, due potenti fattori di mobilitazione popolare.
Fu così che, a poco a
poco, cominciai a vedere il vero volto della guerra, le cui distruzioni e
carneficine (“l’inutile strage” di cui doveva parlare in quel torno di tempo
dal soglio pontificio un papa coraggioso, Benedetto XV) cancellavano
brutalmente tutto quello che mi era stato insegnato sui valori della civiltà e
del progresso. Certo io non aveva allora nessuna idea dei meccanismi
dell’imperialismo, ma cominciavo a vedere da vicino dolori patimenti e
ingiustizie, e cominciavo a intuire vagamente che dietro la vernice liberale
della società in cui vivevo potevano nascondersi le espressioni più smaccate
del privilegio e le supreme follie del nazionalismo, che imparavo in quel tempo
ad odiare anche nelle manifestazioni più ingenue dei miei compagni di scuola.
Poi, nel novembre 1917,
venne la rivoluzione sovietica. La rivoluzione, ha scritto Marx, è la
locomotiva della storia, perché accelera il corso della storia e accelera in
pari tempo anche la presa di coscienza delle masse: la rivoluzione russa ha
avuto quest’effetto non solo in Russia ma anche nel resto dell’Europa come pure
in vaste zone del mondo coloniale e semicoloniale. Io ero allora in un periodo
di grande travaglio spirituale: in quel periodo aveva già cominciato ad entrare
in crisi la fede religiosa, a cui ero stato educato (mio padre non era
credente, mentre mia madre lo era, di viva fede interiore, e non praticante) è
che io sentivo soprattutto come un’acuta tensione morale, senza alcun interesse
per la simbologia e per l’esteriorità del culto. E fu proprio il contrasto fra
la religione come io la sentivo e la chiesa come appariva ai miei occhi che
m’insinuò i primi dubbi e provocò fra i 13 e i 14 anni il mio totale distacco
dalle pratiche di culto, cui seguì ben presto - sotto l’influenza, in quel
tempo, di letture darwiniane - il totale distacco
anche da ogni credenza negli insegnamenti della chiesa cattolica. Ma la
tensione interna, che si era prima nutrita di sentimenti religiosi, non sparì e
si volse al mondo che mi stava attorno, si tradusse in sete di verità e di
giustizia.
Il coincidere di questa crisi
abbastanza comune di adolescente con quella provocata dalla guerra che,
distruggendo anch’essa la fiducia in vecchi valori, mi aveva posto di fronte a
problemi assai più grandi di me, offriva un terreno fertile alle suggestioni
che venivano dalla rivoluzione sovietica. Io non conoscevo allora nulla del
pensiero socialista, nulla di marxismo, nulla di menscevichi o bolscevichi, ma
mi attraeva - forse sarebbe più giusto dire che mi attraeva e mi sgomentava
insieme - il fascino del cambiamento radicale, del completamente nuovo che si
annunciava in Russia. Quando scoppia una rivoluzione, nessun certo può dire
dove andrà a sboccare, ma quello che emerge dall’istinto rivoluzionario delle
masse è in generale il desiderio di un modo nuovo di vita, il desiderio di
rompere con il passato in modo totale, la contestazione globale di una società
e dei suoi valori. Ed era questo l’aspetto che doveva maggiormente attrarre un
ragazzo, che proprio in quel periodo, sulle soglie dell’adolescenza, era alla
ricerca di nuovi valori in cui credere.
Se cerco di scavare nelle
reminiscenze che ancora emergono da quell’ormai lontano periodo, credo di poter
dire che l’aspetto che maggiormente mi colpi, nella rivoluzione sovietica, fu
il fatto che per la prima volta nella storia del mondo gli operai e i contadini
di un immenso paese avevano abbattuto non soltanto l’imperatore (ciò era
accaduto molte volte nella storia), ma tutte le gerarchie sociali esistenti, e
stavano cercando di prendere in mano da sè i loro destini, si cimentavano
direttamente con i problemi più ardui della vita dello stato e della società,
cercavano di fondare una nuova forma di convivenza umana, che si presentava
come l’espressione della più alta giustizia e della concreta solidarietà fra
gli uomini.
Anche per chi non
conosceva nulla della dottrina di Marx e degli scritti di Lenin, anche per chi
addirittura ignorava che cosa volesse dire esattamente “socialismo”, per la
massa dei lavoratori, degli oppressi, degli sfruttati, ma insieme anche per un
giovane che s’interrogava, senza riuscire a dare risposta, sui problemi
fondamentali della vita sociale, questo capovolgimento delle gerarchie, questo
inizio di una convivenza nuova appariva come il dato essenziale della
rivoluzione e apriva nuove infinite speranze per l’avvenire del mondo. Veniva
offerta la prova che non c’era un ordine naturale ed eterno della società che
non potesse essere messo in discussione, che la divisione in classi, in sfruttatori
e sfruttati, potenti ed oppressi, padroni e servi, ricchi e poveri, non era
qualche cosa d’immutabile che rispondesse ai “disegni della provvidenza”, ma
che al contrario anche i poveri, gli sfruttati, i servi potevano rivendicare la
piena dignità umana ed erano capaci di assumersi le maggiori responsabilità.
Con questo non voglio dire
che la rivoluzione d’ottobre mi avesse convertito al socialismo o al comunismo,
non solo perché rimanevano ancora in me le vecchie remore dell’educazione
ricevuta, ma anche perché le immagini che mi arrivavano della Russia, filtrate
prima attraverso i giornali che si leggevano in casa e poi passate al vaglio
delle mie poche idee incerte e confuse, non erano soltanto luci ma anche ombre
inquietanti. Soprattutto la forte carica libertaria, che era contenuta
nell’educazione “liberale” ricevuta, ripugnava alle costrizioni che la
rivoluzione necessariamente portava con sé. Certo è tuttavia che essa non solo
contribuì ad allargare l’orizzonte della mia problematica ma fu probabilmente
determinante nell’indirizzarla verso la ricerca e le soluzioni a cui sarei più
tardi arrivato.
Decisivo per la mia
formazione fu l’anno scolastico successivo, il primo corso liceale 1918-19,
soprattutto per l’ascendente di un mio professore e per il nuovo clima che si
veniva creando con la fine della guerra. Finché la guerra era durata, la
tensione anche psicologica ch’essa provocava, l’intensità della propaganda
patriottica, l’orgoglio nazionale umiliato dalla sconfitta di Caporetto, e infine le misure di sicurezza dell’apparato
governativo avevano creato qualche ostacolo al libero corso delle discussioni e
all’aperta espressione di opinioni dissenzienti anche fra noi studenti, e
avevano tenuto a freno la manifestazione dei nuovi sentimenti che venivano
maturando nell’animo popolare e a cui solo la fine della guerra doveva aprire
le porte. Fu come se una molla lungamente compressa fosse lasciata libera di
colpo. I sacrifici di ogni genere imposti dalla guerra, i lunghi anni di
trincea, le esperienze nuove che ne erano derivate, i contatti umani che erano
stati resi possibili e i nuovi orizzonti che si erano aperti a masse fin allora
in gran parte soffocate nel chiuso della vita rurale, le ingiustizie patite, le
abbondanti promesse della classe dirigente, tutto aveva contribuito ad
accumulare nell’ambito delle masse italiane un potenziale di rivendicazioni e
di rivolta che si trovava finalmente libero di esprimersi. E l’eco delle
passioni, dei sentimenti e dei risentimenti, delle aspirazioni, delle invettive,
delle lotte che cominciarono subito ad agitare il paese si ripercuoteva anche
nelle aule scolastiche, allentava il rigore della disciplina, apriva per la
prima volta, nella mia esperienza scolastica un autentico dialogo politico fra
studenti ed anche con qualche professore, obbligava anche noi a pensare prima
di formulare giudizi e a ripensare prima di controbattere gli argomenti
contrari.
Io non potevo non essere
colpito dalla vita che ritornava a pulsare nella grande città, così diversa
dalla vita di guerra ma anche così diversa e lontana da quella che potevo
ricordare del tempo di pace nella piccola e allora sonnolenta Ventimiglia. Non
potevano non colpirmi le voci nuove, i racconti dei reduci, le grida degli
operai manifestanti nelle strade, i comizi nelle piazze, le proteste, che ora
si facevano sentire più nette, delle donne nelle code davanti ai negozi.
Sembrava che un altro mondo nascesse, che non aveva quasi più nulla di comune
con il vecchio mondo dell’anteguerra, quale io l’avevo conosciuto. Vengo da un
tempo - non così lontano cronologicamente quanto lo è idealmente - in cui le
differenze sociali erano materializzate anche negli aspetti esteriori ed
irrigidite in una visione gerarchizzata e piramidale della società che si
rifletteva in ogni atto della vita e in ogni momento della giornata. Non era
pensabile allora che un operaio e un “signore” vestissero abiti della stessa
foggia e si coprissero con uguali copricapi (visto
che non si usava andare a capo scoperto) ognuno doveva mostrare nell’abito a
quale classe apparteneva. E ricordo come ci si indignava in certi ambienti
all’idea che le “sartine” di Torino osassero portare il cappello, che avrebbe
invece dovuto essere riservato alle “signore”, e quale scandalo ancor maggiore
si ebbe nel dopoguerra quando le operaie cominciarono a portare calze di seta,
magari artificiale, usurpando in questo modo una delle più gelose prerogative
delle “signore”.
Ma scandalo più grave di tutti, perché era un affronto diretto al principio
gerarchico, fu quello delle donne del popolo che cominciarono a rifiutare nelle
“code” dei negozi di lasciare il passo ad una “signora” con tanto di cappello,
che eccezionalmente veniva di persona a fare la spesa. Ho detto altra. volta,
parlando delle origini del fascismo, che questo sovvertimento delle
gerarchie ebbe sicuramente gran peso nell’alimentare i sentimenti antioperai e
antisocialisti della piccola borghesia urbana, cane da guardia di un ordine
sociale che le permetteva di considerarsi al di sopra della “massa”, che le
permetteva di sentirsi, come un qualunque caporale o sottufficiale, investito
di una parcella dell’autorità che discende dall’alto: il passaggio di questi
ceti al fascismo fu anche in funzione del desiderio di vedere nuovamente gli
operai costretti a rispettare una scala gerarchica che la crescita delle masse
andava sempre più sommergendo.
Attraverso quelle vicende
si svolgeva davanti ai miei occhi un’autentica rivoluzione. Non rivoluzione nel
senso che comunemente si dà a questa parola di cambiamento violento di regime
sociale o politico, ma una rivoluzione che si potrebbe dire “culturale”, un
radicale mutamento nella coscienza delle masse, un capovolgimento dei valori
tradizionali, una. maturazione improvvisa di volontà democratica, una presa di
coscienza della propria dignità e della propria responsabilità. Si sono scritte
tante cose sugli eccessi e gli errori del ‘19, sulle colpe del massimalismo, e
molto vi è di vero, ma nessuno, ch’io sappia, ha adeguatamente sottolineato
quel che il ‘19 rappresentò come, crescita democratica delle masse, che
rompevano una secolare sudditanza per entrare da protagonisti sulla scena della
storia, che abbattevano molte delle divisioni semi-castali
che ancora irrigidivano la società italiana, che davano dignità, coscienza
civile, sentimento di uguaglianza, a milioni di uomini e di donne fino ad
allora considerati esseri inferiori e tenuti ai margini della società, che
infine contestavano l’aura di sacralità di cui si era circondato nei secoli il
diritto di proprietà. Nessuna lotta precedente in Italia, e neppure
successivamente la Resistenza, sollevarono, a mio parere, una così vasta presa
di. coscienza collettiva, un rivolgimento così profondo dei valori stabiliti,
un’ondata così alta di entusiasmo e di volontà di rinnovamento nelle idee, nel
costume, nei rapporti sociali: mai l’iniziativa democratica delle masse toccò
un più alto livello, La Resistenza puntò soprattutto sul mutamento del regime
politico, anche se nel profondo si agitavano spinte e motivazioni sociali che
furono represse dagli stessi partiti di sinistra; nel 1919 il PSI controllava
assai meno le masse che esprimevano spontaneamente la volontà di un mutamento
radicale.
In quella rivolta
democratica, ch’era insieme politica e morale, io mi trovai d’istinto dalla
parte delle masse: fu questo l’aspetto che decise la mia scelta e orientò la
mia vita di militante. Nell’atteggiamento delle popolane che rifiutavano di
cedere il passo alle “signore”, nello scambio di battute che spesso
accompagnava queste scenette, io sentivo vibrare questa nota nuova, e ricordo
ancora la profonda impressione che, a torto o a ragione, mi fece un opuscoletto
diffuso, non saprei dire con esattezza in quale anno, ma comunque in quel
periodo, dalla Federazione lavoratori albergo e mensa per rivendicare
l’istituzione della percentuale di servizio in luogo della mancia, che basava
la sua argomentazione sul principio enunciato nel titolo che “la mancia
avvilisce chi la dà e chi la riceve”. E se questa era la scena che si svolgerà
sotto i miei occhi, nello sfondò lontano c’era ancora, più viva che mai, la
rivoluzione sovietica.
Certo vi erano anche
motivi economici che mettevano in moto i lavoratori, vi erano antiche
ingiustizie da riscattare e nuove difficoltà da superare, c’erano i problemi
della terra, dell’inflazione, del caro-vita, del reinserimento dei soldati
nella vita civile, e via discorrendo. E se tutto ciò era largamente sufficiente
a spiegare l’irrequietezza, l’instabilità, lo spirito di rivolta che percorreva
le masse, se tutto ciò era sufficiente a giustificare l’ondata di scioperi, la
profonda tensione sociale, l’agitazione continua delle masse, lo irrobustirsi
del sindacato e del Partito socialista, mi pare però fuori di dubbio che, al di
là di questi fenomeni, quel che dava alle masse una grande speranza, che dava
un contenuto politico anche alle lotte economiche, che faceva sentire l’unità
di tutte le battaglie in una prospettiva nuova, che dava il coraggio di
maggiori responsabilità storiche e forse pesò in modo determinante nel dare
alle Camere del lavoro un ruolo di primo piano in lotte non strettamente
sindacali, come l’agitazione contro il caro-vita del 1919 e l’anno dopo
nell’imprimere all’occupazione delle fabbriche un significato che andava ben al
di là del carattere puramente sindacale della controversia da cui aveva preso
origine, quel che insomma illuminò di una luce nuova tutto il movimento di
quegli anni e orientò in modo decisivo la coscienza delle masse, fu da un lato
questo senso nuovo di dignità e di democrazia, il bisogno di diventare
finalmente uomini a parte intiera, ciò che non è possibile in una società
divisa in classi, e dall’altro l’affermazione vittoriosa della rivoluzione
d’ottobre che dava a questo bisogno, maturato nel fango delle trincee e nella fatica
delle fabbriche, un supporto realistico.
Gli scrittori, i politici
e i giornalisti borghesi non avevano cessato di prevedere il rapido crollo del
regime bolscevico; i teorici della socialdemocrazia internazionale avevano
dimostrato “scientificamente” che il regime nato dalla rivoluzione d’ottobre
non poteva sopravvivere perché non ne esistevano le “condizioni storiche”. Ma a
dispetto delle profezie borghesi e della “scienza socialdemocratica”, gli
operai e i contadini sovietici continuavano a difendere le conquiste della
rivoluzione e in mezzo a tremende difficoltà il partito bolscevico continuava a
conservare il potere nonostante la guerra civile e l’aggressione esterna,
nonostante l’incredibile situazione economica e il dissolversi di larga parte
del tessuto sociale. Era una creazione continua, una risposta quotidiana del
potere sovietico ai problemi nuovi che insorgevano da ogni parte, era una
vittoria della volontà, del coraggio, dell’intelligenza e della giovinezza di
una classe nuova che dimostrava la sua inesauribile capacità di iniziativa
nelle condizioni più avverse. A misura che i pregiudizi cadevano, che le
profezie venivano smentite dai fatti, che la “scienza” veniva confutata dalla
realtà, anche le masse italiane sentivano che l’impossibile era diventato
possibile, che quella che era stata irrisa per decenni come un’utopia poteva
diventare realtà, che una nuova risposta poteva finalmente essere data alle
difficoltà, ai problemi, alle contraddizioni che avevano travagliato fino ad
allora la storia del loro paese.
Probabilmente, nel
rievocare questi ricordi, io li presento oggi in un quadro più razionale e
magari accosto immagini e sensazioni che provai in momenti diversi. Ma è certo
che fu sull’onda di questo vasto moto popolare, nel quadro della nuova
dimensione che la realtà del mondo veniva assumendo ai miei occhi, dopo che la
guerra aveva distrutto l’immagine precisa ed ordinata che me ne era stata data
nell’infanzia e dopo che il distacco dalla chiesa mi aveva privato di un metro
di misura in cui avevo per un momento confidato, fu sotto la spinta delle
motivazioni che ho enunciato, che io maturai definitivamente nel 1919 la mia
convinzione socialista. Ma un ruolo importante ebbe in questa mia personale
vicenda l’insegnamento e la guida del mio professore di storia Ugo Guido
Mondolfo, che io conobbi entrando in prima liceo nell’ottobre 1918, proprio
alla vigilia dell’armistizio, quando stava per scatenarsi l’ondata popolare di
cui ho parlato.
Era il primo socialista
adulto che io conoscevo direttamente, ed era così diverso dal tipo di
socialista che io ero stato abituato a sentir dipingere, parolaio, retorico,
arruffapopoli, facile al vino, alla demagogia, al disordine. Mondolfo non era
nulla di tutto questo, anzi era esattamente il contrario, sobrio nella parola,
concettoso, senza nessuna indulgenza per i difetti abituali della nostra classe
politica. Sicché il solo fatto che questo uomo, la cui superiorità e il cui
fascino avvertii fin dal primo momento, fosse socialista, e socialista militante,
sovvertiva la nozione dei socialisti e del socialismo che mi era stata
inculcata.
Nelle sue lezioni Mondolfo
non faceva alcuna propaganda per le sue idee, ma il suo modo di insegnare la
storia, così diverso da quello allora in uso nelle nostre scuole secondarie, la
sua concretezza marxista nella narrazione degli eventi, avevano una tale
vivezza da tradursi, nell’animo di un ascoltatore aperto e avido di apprendere,
quasi in pagine di storia contemporanea, dove il parteggiare diventava un
imperativo morale. Non più la storia soltanto di re e di papi, di generali e di
ministri, di guerre e di trattati, ma la storia di popoli, di masse di uomini
vivi, concreti, palpitanti, ricchi di bisogni e di aspirazioni, che lentamente,
attraverso una multiforme opera collettiva, tessevano la trama del loro
destino, ponevano le fondamenta di nuove civiltà e di nuove convivenze umane,
elaboravano nuovi orientamenti di pensiero e nuove visioni del mondo. Ed ecco,
come da quel lontano passato si vedeva a poco a poco nascere il presente, così
dal presente si sarebbe potuto veder nascere il futuro; ecco sovrapporsi nella
mia mente, alle masse di un tempo, ai loro bisogni e ai loro problemi, alle
loro aspirazioni e alle loro ideologie, le masse del mio tempo, gli operai e i
contadini russi, gli operai e i contadini del mio paese che, proprio durante
quell’anno scolastico 1918-19, si agitavano e tumultuavano in nome del
socialismo.
Non credo che la parola
“socialismo” sia mai uscita dalla bocca di Mondolfo in quell’anno di lezioni,
ma era l’esigenza di una superiore dignità dell’uomo, di una più vera libertà,
intesa al tempo stesso come liberazione da tutte le oppressioni e come una più
alta espressione di personalità, che appariva come il più sicuro criterio di
giudizio per misurare l’ascesa dell’umanità verso forme superiori di civiltà. E
nella coscienza collettiva dei mali sociali, nella solidarietà degli sforzi per
superarli, appariva l’arma decisiva per abbattere regimi oppressivi o
condannati dalla storia, per mettere in moto nuove spinte di progresso, per far
affiorare nuovi valori. Sicché finalmente, proprio grazie all’insegnamento di
Mondolfo, io potevo superare il dissidio fra il mio cuore, che già batteva
all’unisono con le masse che tutt’attorno si agitavano in quel tumultuoso e
difficile dopoguerra, e la mia mente, educata a respingere come utopistiche e
assurde le tesi socialiste: una visione più alta e matura del socialismo
cominciava a profilarmisi innanzi, un socialismo
fondato sulla libertà e ricco dei più alti valori morali, cui l’umanità sarebbe
pervenuta attraverso un difficile cammino di lotte, di sconfitte, di eroismi e
di errori.
Tutto ciò, naturalmente,
non rimaneva chiuso in un’elaborazione interiore, ma prendeva forma nelle
polemiche accese che facevamo tra compagni di classe, una classe in cui non
mancavano ingegni vivaci ed animi appassionati (Mondolfo mi disse molti anni
dopo che la ricordava come la miglior classe che avesse avuto), da Mario Damiani, che ho già ricordato, combattivo entusiasta e
generoso, a Vittorio Albasini, riflessivo e misurato,
entrambi trascinati poi innanzi al Tribunale Speciale, e il primo morto in
campo di concentramento tedesco, da Antonello Gerbi,
nipote di Claudio Treves, intelligenza pronta e
versatile, a Luigi Gedda, la cui intelligenza e il cui impegno politico non ho
bisogno di ricordare perché tutti conoscono il leader dei Comitati civici.
Credo proprio che questa
coincidenza fra l’insegnamento di Mondolfo e la svolta storica di quegli anni,
che segnavano l’inizio della grande avventura del dopoguerra, sia stata
decisiva per il mio sviluppo ulteriore. Perché è appunto nel corso di
quell’anno scolastico che io feci la scelta del socialismo, non soltanto come
idea da professare ma come milizia da seguire, scelta che mi doveva costare fin
dai primi momenti accesi dibattiti in famiglia e non poche preoccupazioni. Fu a
Mondolfo, naturalmente, che ricorsi, per consigli di prime letture, e da lui
ebbi dei suggerimenti, che mi furono preziosi: i saggi di Antonio Labriola e
gli scritti storici di Marx ed Engels sulle lotte di classe in Francia e in
Germania, oltre al classico Manifesto.
Queste letture, così come
l’insegnamento di Mondolfo, hanno influito nettamente sul mio pensiero: devo in
gran parte ad esse di aver sempre ricercato in Marx più lo stratega della lotta
di classe, il rivoluzionario impegnato a fare la storia, che il teorico
dell’economia, ma soprattutto il gusto per gli studi storici e per le analisi
dei problemi di classe come inseparabili da ogni valutazione e quindi da ogni
atteggiamento politico, cioè la coscienza della necessità di verificare, nel
vivo della concretezza storica, qualunque ideologia, qualunque teoria,
qualunque strategia politica.
Quella formazione ha
inciso su tutta la mia vita. Innanzi tutto sul piano del significato etico del
socialismo, che a me si presentò soprattutto sotto specie di un grande moto di
redenzione umana, e che perciò significò sempre per me liberazione dell’uomo da
ogni servitù economica, sociale, politica o ideologica, partecipazione di tutti
alla responsabilità collettiva, conquista di un’uguale dignità morale, fine di
ogni alienazione. Mi persuasi allora che il socialismo, proprio in quanto
esprimeva dei valori morali nuovi, era in radicale antitesi con il mondo
borghese, che solo la distruzione della società capitalistica poteva aprirgli
la strada, non solo sul piano economico ma anche sul piano morale. E’ probabile
che la mia mente giovanile abbia avuto tendenza ad accentuare e magari
esasperare i contrasti e che certe forme di intransigenza morale che mi furono
proprie peccassero di eccessività, che il “neo-protestantesimo” che
rappresentò, non sul piano religioso ma sul piano culturale, un momento
successivo della mia formazione, e si espresse in forme spesso ingenuamente
drammatiche, fosse soltanto un derivato della natura di quel mio primo
approccio. Ma sono comunque lieto che il mio socialismo sia uscito in quella
forma dalle temperie di quegli anni.
In secondo luogo sul piano
intellettuale, perché fu proprio quella mia giovanile formazione marxista che
impregnò la mia mente prima che potessero albergarvi altre Weltanschauungen, che mi diede il senso dialettico della storia e mi fece comprendere
che la rivoluzione socialista nasce dalle contraddizioni della società
capitalistica e quindi dalla multiforme realtà storica e sociale, senza seguire
ovunque lo stesso schema fisso: da ciò anche la convinzione che la lotta per il
socialismo fosse una lotta attuale, non nel senso che esso fosse già allora a
portata di mano, ma che certamente fosse già all’ordine del giorno della
storia, che non fosse più sogno utopistico, speranza da rimandare al futuro,
bensì un ordine nuovo le cui fondamenta erano gettate nella società
capitalistica e alla cui graduale edificazione doveva esser volta la lotta
quotidiana. Donde infine la conseguenza, che emerse abbastanza chiara già nei
miei anni giovanili, al termine del periodo formativo, che una forte tensione
ideale, una chiarezza d’impostazione politica, una cosciente previsione del
futuro e una dura volontà di vittoria dovevano animare di continuo il movimento
operaio.
In ultimo sul piano
personale. A misura che maturava la mia convinzione socialista, e con essa
cominciavano a nascere anche i primi impegni pratici, si accentuava la tensione
in famiglia e gli scontri verbali con mio padre diventavano sempre più
frequenti, o addirittura quotidiani, soprattutto ai pasti che avevano
rappresentato normalmente in casa nostra un momento di serena pace domestica e
addirittura avevano conservato un’aura quasi sacrale di raccoglimento
comunitario attorno all’autorità del paterfamilias. La ripresa dell’anno scolastico
nell’ottobre 1919, i nuovi incontri e le nuove discussioni con i compagni di
scuola avevano ravvivato il mio entusiasmo, il mio impegno, e di riflesso,
anche le battaglie domestiche e questo m’indusse ad assicurarmi un’autonomia
economica che mi garantisse la possibilità, se necessario, di una vita
indipendente sotto tutti i rapporti. Fu così che ai primi di novembre 1919, non
ancora sedicenne, cercai e trovai rapidamente un impiego come stenodattilografo
che due mesi dopo cambiai con un posto di corrispondente presso una azienda di
macchine per maglieria. Fu quello anche il mio primo contatto con il mondo del
lavoro, e fu questa per me una esperienza particolarmente interessante, tanto
che m’indussi presto a non recarmi a casa per il pasto di mezzogiorno, in modo
da aver tempo di discutere con qualche collega, e soprattutto con gli operai,
degli avvenimenti politici dell’Italia e del mondo.
Quella scelta di lavoro,
anche se fu per me particolarmente faticosa, credo sia stata almeno altrettanto
salutare, perché mi diede subito la misura della serietà dell’impegno che avevo
assunto e che avrei dovuto portare avanti nella vita in mezzo a non poche
difficoltà. Quei due anni che vanno dal novembre 1919 al novembre 1921 furono
piuttosto duri: lavoravo in ufficio otto ore al giorno e anche più; rientravo a
casa per l’ora di cena e dopo cena frequentavo quasi sempre riunioni pubbliche
(mi piaceva in particolare assistere ad assemblee di operai alla Camera del
Lavoro), conferenze e simili, perché avevo fretta di arricchire il mio bagaglio
di idee e di esperienze socialiste, infine, dopo essere rincasato, dovevo
sottrarre qualche ora al sonno per lo studio scolastico (non volevo perdere e
non persi difatti neppure un anno) e per le altre letture che m’interessavano.
Questo tipo di vita durò quasi sei anni, corrispondenti ai due ultimi anni di
liceo e ai quattro anni della facoltà di legge, cioè dal novembre 1919 fino alla
primavera 1925, e mi permise di laurearmi regolarmente al luglio del quarto
anno, con una tesi di laurea su “La concezione della libertà in Marx”.
I primi due anni furono,
tuttavia i più duri, sia perché non ero ancora abituato a un simile sovraccarico
di lavoro, sia forse anche perché ero ancora molto giovane, sia infine perché
gli. esami di liceo erano più impegnativi di quelli universitari e richiedevano
una preparazione più faticosa. Forse fu questo sovraccarico di lavoro, insieme
con la coscienza della mia immaturità, che mi trattenne in quegli anni dal
formalizzare con una regolare iscrizione la mia milizia socialista, ma fu
anche, almeno inizialmente, la difficoltà per me di orientarmi nelle lotte di
frazione che dilaniavano il Partito socialista e preparavano le future
scissioni. Lettore dell’Avanti! nella sua edizione milanese,
avevo scarse nozioni di quel che succedeva a Torino, poche occasioni di leggere
Gramsci e nessuna di leggere Bordiga, e mi
riconoscevo abbastanza nella posizione di Serrati.
Dibattei lungamente con me
stesso il problema della scissione di Livorno, e già
allora l’argomento principale che m’indusse a non seguire il Partito comunista
fu il problema che oggi si chiamerebbe delle “vie nazionali”: non mi
persuadevano affatto le 21 condizioni imposte uniformemente a tutti i partiti,
e di questa spiegazione del mio atteggiamento ho ritrovato traccia in un
articolo scritto pochi anni dopo.
Intanto, nel corso del
1921, il fascismo avanzava ormai da ogni parte e poneva una serie di problemi
pratici: la situazione esigeva da ogni militante un atteggiamento di lotta che
non poteva più soddisfarsi di un impegno solitario come era il mio. Fu
l’ingresso all’università di Pavia nel novembre 1921 che mi offerse:delle nuove
possibilità. Avevo ottenuto dalla cortesia del mio datore di lavoro un giorno
di vacanza settimanale per frequentare le lezioni, oltre a due-tre
settimane complessive pere gli esami delle due sessioni; non ero quindi più un
“privatista”, come ero stato nei due ultimi anni di liceo. Decisi perciò
subito, fin dai miei primi contatti con l’ambiente universitario, di prendere
aperta posizione nelle battaglie politiche del mondo studentesco e non ebbi
esitazione a scegliere l’iscrizione al gruppo studenti socialisti, di cui era allora
presidente Carlo Arnaudi, (scomparso recentemente
dopo essere stato senatore e ministro socialista), e al quale si iscrisse pure
con me Ezio Vanoni, mio compagno di corso.
Fu quella, cinquant’anni
fa, in un giorno tra la fine di novembre e i primi di dicembre 1921, la mia
prima tessera
Roma, 5 dicembre 1971