PROCESSO
ALLA BORGHESIA
Quando
una rivoluzione fallisce o abortisce, si sente sovente dalle schiere dei vinti
partire l’accusa di tradimento contro i capi. Già Marx ammoniva, nei suoi saggi
sulla rivoluzione germanica del 1848, contro questo semplicismo che tende a
spiegare gli eventi storici con fattori personali e dimostrava come
l’insuccesso di un moto rivoluzionario debba in ultima analisi ricondursi
all’immaturità o impreparazione della classe rivoluzionaria.
Del
pari quando un regime crolla e si sfascia, qualunque ne sia la cagione
immediata, l’evento deve storicamente ricondursi al fatto che la classe
dominante ha esaurito il suo ciclo, che non ha più quindi alcun diritto storico
all’esercizio del potere.
Se
noi impostiamo l’analisi della situazione italiana su altre basi, se noi
andiamo a ricercare le cause del nostro disfacimento in qualche motivo
immediato e contingente, nella guerra e nella sconfitta, o addirittura se noi
ci preoccupiamo di stabilire le cagioni della sconfitta, se noi indaghiamo chi
abbia tradito, se i gerarchi han tradito Mussolini o Mussolini ha tradito il
paese o il re ha tradito tutti quanti, noi entriamo veramente in un labirinto
senza uscita.
Non è quindi il processo al
fascismo o alla monarchia quello che ormai si è aperto e che deve chiudersi con
un’irrevocabile condanna: è il processo alla borghesia. A quella borghesia che
nell’altro dopoguerra aveva sperato di salvarsi col rinnegare i propri principi
liberali e democratici, servendosi del fascismo come di uno strumento, ma che
col fascismo ha in definitiva accettato di fondersi e confondersi, perché esso
era veramente il suo punto di arrivo, il suo sbocco fatale.
***
La fine ingloriosa della classe
dirigente italiana può stupire soltanto coloro che son usi a fermarsi alla
superficie dei fatti storici, ma a chi analizzi il nascimento e lo sviluppo
della nostra borghesia, specie in paragone alla borghesia di altri paesi, non
può non riuscire chiaro come essa avesse in definitiva mancato al suo compito
storico e come il fascismo rappresentasse appunto il risultato della sua
insufficienza economica e politica.
Quale è
stato infatti il compito storico della borghesia? Quasi un secolo fa Marx ha
scritto nel Manifesto l’apologia della classe borghese come artefice di storia.
Vale la pena di ricordare qualche brano:
“Così
dunque la stessa borghesia moderna è il prodotto di un lungo e continuo
sviluppo, di una serie di sconvolgimenti nei modi di produzione e di scambio.
Ognuno di questi stadi della borghesia si accompagnò ad un progresso politico.
Casta oppressa sotto il dominio dei baroni, associazione armata ed autonoma nei
Comuni, qui repubblica civica indipendente, là terzo stato tributario della
monarchia; poi, al tempo della manifattura, antagonista della nobiltà nelle
monarchie dinastiche o assolute, sempre fondamento cardinale delle vaste
monarchie, la borghesia, con lo stabilirsi della grande industria e del mercato
mondiale, si conquista finalmente l’esclusivo dominio politico nei moderni
Stati rappresentativi. Il potere dello Stato oggi è un comitato che amministra
gli affari sociali del ceto borghese.
La borghesia ebbe nella storia un
ufficio sommamente rivoluzionario. Dov’è giunta al potere, ha distrutto i
rapporti feudali, patriarcali, idillici… La borghesia ha strappato il velo di
tenero sentimentalismo che avvolgeva i rapporti di famiglia, e li ha ridotti a
un semplice rapporto di quattrini. La borghesia ci ha rivelato che la brutale manifestazione
di forza, per cui i reazionari ammirano il medioevo, aveva il suo naturale
complemento nella più sconcia poltroneria. Essa fu la prima a mostrare di che
sia capace l’attività umana. Essa ha compiuto ben altre meraviglie che non le
piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; ha fatto ben
altre spedizioni che gli esodi di popoli e le crociate.
La borghesia non può esistere
senza una perpetua rivoluzione negli strumenti di produzione; e perciò anche
nei rapporti di produzione e nei rapporti sociali tutt’insieme. Condizione di
esistenza delle classi industriali che la precedettero era invece l’immutabile
mantenimento dei vecchi metodi di produzione. L’epoca borghese si distingue da
tutte le precedenti pel continuo sconvolgersi della produzione, per
l’incessante scuotersi di ogni condizione sociale, per l’incertezza e il
movimento perpetuo. Le dure e rugginose relazioni, cui andavano unite maniere
di vedere e di pensare rese venerabili dall’età, vengono sciolte e le nuove
invecchiano prima ancora di ossificarsi. Il gerarchico e lo stabilito se ne
vanno, il sacro è sconsacrato, e gli uomini sono finalmente costretti a
guardare, spoglie d’ogni velo, le loro condizioni di esistenza e i loro
rapporti reciproci.
…Nel suo quasi secolare dominio di
classe, la borghesia ha creato forze di produzione più gigantesche e imponenti
che non abbian fatto tutte insieme le passate generazioni. Sottomissione delle
forze naturali, invenzioni meccaniche, applicazione della chimica all’industria
e all’agricoltura, navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici,
dissodamenti di intere parti del mondo, fiumi resi navigabili, intere
popolazioni sorte per incanto dal suolo: ecco ciò che essa ha fatto. Quale dei
secoli trascorsi presentì che tante forze di produzione stessero sopite in
grembo al lavoro sociale?”
Ora, per assolvere a questi
compiti giganteschi, è stato necessario che la borghesia disponesse
essenzialmente di due requisiti: anzitutto il capitale, e poi la capacità di
iniziativa. Il capitale, cioè i mezzi necessari a fondare imprese industriali;
la capacità di iniziativa, che vuol dire al tempo stesso il coraggio di
arrischiare quei capitali in imprese nuove e di incerto esito, e l’intelligenza
per dirigere le imprese stesse e guidarle al successo.
Non è il caso, in questa sommaria
esposizione, di indagare come i fondatori del moderno capitalismo fossero
giunti in possesso del capitale necessario alle imprese da essi fondate: è
questione del resto controversa fra gli storici, che segnalano varie cagioni di
questa primitiva accumulazione, dall’usura medievale al commercio, dall’appalto
di imposte e rendite al plusvalore degli immobili, ecc. Tutti questi mezzi
probabilmente concorsero in misura varia a formare gli antenati dell’odierna
classe borghese, come del resto era già accaduto in altre epoche della storia.
Ma quel che diede l’impulso
definitivo alla trasformazione capitalistica fu la grande rivoluzione economica
del XVI secolo, succeduta alla scoperta dell’America e alla conseguente larga
importazione di metalli preziosi che, cagionando un rinvilio della moneta,
determinò un generale rialzo dei prezzi e creò le condizioni più favorevoli
allo sviluppo della produzione industriale, mentre rovinò le classi
parassitarie dei redditieri e dei signori.
Condizioni storiche e geografiche
avevano, già in quel periodo, tagliata fuori l’Italia dal commercio mondiale,
sicché i benefici della nuova situazione non si estesero là dove non giungevano
le grandi correnti del traffico, ma rimasero sostanzialmente limitate
all’Inghilterra, alla Francia e ai Paesi Bassi.
È qui
infatti, e in Inghilterra soprattutto, che la borghesia ha potuto celebrare i
suoi massimi trionfi; è qui che, grazie alle enormi accumulazioni di ricchezza,
si è potuto fondare un impero mondiale, si son potute sviluppare saldamente le
due caratteristiche principali della civiltà borghese, l’individualismo e la
democrazia politica. Solo infatti una borghesia ben fornita di capitali, con
larghi margini di profitto, poteva creare, insieme con la propria fortuna,
delle condizioni di vita umane ai ceti medi e a vasti strati del proletariato;
solo una relativa indipendenza economica poteva a sua volta rappresentare una
solida base per una forte coscienza della propria individualità, che è quanto
dire per un’educazione liberale; solo un’educazione liberale e un certo
benessere economico potevano consentire lo sviluppo di una democrazia politica.
***
Quale
è stata invece la formazione della borghesia italiana? Tagliata fuori, come
abbiam visto, dalle grandi correnti di traffico e dalle fonti della nuova
ricchezza, nei secoli XVI e XVII, l’Italia non ha partecipato alla grande
rinascita economica, politica e spirituale che segna il nascere dell’epoca
moderna.
Lo scoppio della rivoluzione
francese la trova in condizioni di grave arretratezza e l’invasione napoleonica
la mette brutalmente in contatto col mondo nuovo, prima che si siano
sviluppate autonomamente le condizioni della produzione capitalistica.
La quale arriva quindi da noi più
come un prodotto d’importazione che come il frutto dei nostri sforzi o come il
coronamento di un nostro progresso; arriva soprattutto senza che si siano
formate le basi materiali della sua esistenza e del suo progresso, cioè appunto
quella accumulazione primitiva che sola permette le grandi moderne iniziative,
che sola può dare ad una classe capitalistica il senso della sua funzione
storica, il coraggio delle imprese audaci, la capacità di arrischiare e di
creare nuove ricchezze, la larghezza delle vedute, la coscienza della propria
dignità.
Magra e
stentata è stata al contrario, appunto per questo, la vita della nostra
borghesia. Incapace di libere iniziative, timida per mancanza di mezzi da
arrischiare, essa è vissuta all’ombra della protezione statale, che è stata
abile a sfruttare in ogni senso, sotto forma di concessioni, di dazi
protettori, di premi d’incoraggiamento o di esportazione, di sussidi palesi,
come quelli di armatori siderurgici o zuccherieri, o mascherati sotto forme di
forniture statali, appalti, ecc., di salvataggi come quelli famosi di molte
banche ed industrie. In tutti questi casi chi ha fatto le spese dei
finanziamenti è stata la massa dei consumatori e dei contribuenti, e cioè in
sostanza la grande maggioranza della popolazione italiana, fatta di operai, di
contadini, di lavoratori in genere, mentre chi ne ha tratto profitto è stata
sempre una piccola minoranza capitalistica.
La
quale, costretta a vivere di aiuti statali, ha finito col penetrare in tutti i
gangli della vita dello stato, principalmente nella burocrazia e nel
parlamento, per assicurarsi tutti quei vantaggi, senza i quali non avrebbe
saputo vivere e prosperare. La corruzione politica è stata appunto per questo
uno degli aspetti più caratteristici della nostra vita pubblica assai prima del
fascismo, come risultato della miseria dei nostri ceti burocratici e della
insufficienza dei nostri ceti capitalistici.
Contropartita
di questa situazione fu appunto la condizione miserabile dei nostri ceti medi,
a cui la languente vita economica del paese non era in grado di assicurare una
sufficiente indipendenza. Sicché, mentre una minoranza di questi ceti si
metteva al servizio del capitale e si prostituiva per un magro compenso, la
maggior parte finiva col gravitare attorno allo stato, formando una casta
burocratica mal pagata e, necessariamente, senza resistenza morale, senza
grandi capacità di reazione. Tutta la nostra vita economica svolgendosi così
attraverso lo stato, ne derivava come conseguenza il reciproco asservimento e
la reciproca compenetrazione degli organi dello stato e dei nostri ceti
borghesi, il che non contribuiva certo a formare una coscienza liberale, che
esige autonomia di sviluppo, decentramento di poteri o perlomeno di
responsabilità, indipendenza del cittadino, e non consentiva quindi neppure il
buon funzionamento degli organi democratici del paese, importati anch’essi
dall’estero, ma non creati né assimilati da noi, e che erano incompatibili con
le condizioni in cui si svolgeva la nostra vita economica.
D’altra
parte le classi lavoratrici, oppresse - sia per la povertà delle nostre
industrie che per la ristrettezza di idee dei loro dirigenti - da uno
sfruttamento economico particolarmente gravoso, e, di riflesso, sfornite di
cultura e di educazione, escluse dalla partecipazione alla vita pubblica e
prive della coscienza della propria autonomia spirituale e della propria
funzione storica, ben poco poterono contribuire, almeno per tutto il secolo
scorso, a promuovere una moderna lotta politica, selezionatrice di élites e
suscitatrice di energie rivoluzionarie.
***
Perché
questo quadro della borghesia italiana non appaia a taluno tendenzioso,
citeremo a convalidarlo alcuni brani di uno scrittore non sospetto certo di
simpatie socialiste, il Quilici (cfr. “La borghesia italiana”, Ispi,
Milano, 1942):
“Allorché sopravvenne l’Impero, la
formazione dei nuovi nuclei sociali era molto avanzata. Non si può dire che la
borghesia italiana avesse acquistato, come in Francia, piena coscienza di sé,
perché la conquista delle posizioni dominanti era stata, presso di noi, più
frettolosa e caotica, aveva subito brusche spinte dall’esterno, aveva sfruttato
precipitosamente le circostanze e non aveva ancora elevato il costume e la
cultura allo stesso alto livello delle raggiunte ricchezze. Il movimento di
progresso morale e politico, così poderosamente iniziato, per virtù autonoma,
dal Terzo Stato nel ‘700, favorito dai Principi saggi, accompagnato dalla
letteratura civile del rischiaramento, favorito da mezzo secolo di pacifici e
sereni rapporti interstatali, avrebbe avuto bisogno di un più largo sviluppo
spontaneo. Invece la Rivoluzione francese forzò il passo di un progresso
armonioso ispirato bensì ai lumi stranieri ma sostanzialmente originale, cioè
italiano, e accrebbe i plotoni d’assalto della neo-borghesia di elementi
eterogenei, impreparati, arricchiti per caso e gestori incauti della propria
conquista”.
(pagg. 134-5).
“Certo il movimento di riscossa
borghese non fu in Italia così vistoso come in Francia, dove basterebbe un
uomo, il Lafitte, a dimostrare quale apertura di orizzonti spalancassero, al
borghese intraprendente, la Rivoluzione e l’Impero. Il Terzo Stato in Italia
era nato non senza stenti nel cinquantennio precedente e aveva subito i
contraccolpi della situazione generale: solo in parte aveva potuto provocare
direttamente e consapevolmente il nuovo ordinamento della società. D’altra
parte l’angustia dei confini dei singoli Stati italiani e la ristrettezza dei
mezzi impedivano ai borghesi italiani di operare con l’audacia e l’efficacia
dei neo-borghesi in Francia, di cui il banchiere Laffitte, lupo cerviero della
finanza internazionale, prestatore accorto di denaro ai rivoluzionari, ai
Borboni, a Napoleone, agli Orléans, grande manovratore di capitali e precursore
dell’internazionalismo bancario dei giorni nostri, vero fondatore della
borghese Monarchia di Luglio, dava la prova”. (pagg. 145-6).
“In conclusione all’Italia mancava
completamente nell’800 la plebe cittadina. Prevalevano le costumanze e le
tradizioni secolari del contado. Se almeno le classi rurali, proprietari e
coltivatori, avessero fatto tesoro degli enormi progressi compiuti
dall’agricoltura in tutti i paesi moderni d’Europa durante i primi decenni del
secolo! Invece i sistemi di conduzione agricola ritornano gli stessi. Quasi la
metà del suolo coltivabile è consacrata alla produzione di cereali, mentre la
Francia ne ha assai meno di un terzo. Scarseggiano i prati e quindi il
bestiame. Per difetto di concime la stessa coltura dei cereali rende meno di
quel che dovrebbe” (pagg.
150-2).
L’Italia, abbiamo detto, era
rimasta indietro: avvertì solo in piccolissima parte il rinnovamento: e giunse
al traguardo della civiltà moderna, con poche avanguardie, in poche regioni. Il
ritardo economico influì su quello politico. Visse una grama e stentata vita
rurale e nell’assenza quasi assoluta di vita industriale” (pagg. 161-2).
L’Inghilterra,
con una superficie agraria di circa tre quarti inferiore a quella della Francia
e di una metà inferiore a quella dell’Italia, produceva appena due quinti in
meno della Francia, ma un buon terzo in più dell’Italia. Se la Francia avesse
prodotto con i perfezionati sistemi inglesi, avrebbe dovuto avere non già 5
miliardi di reddito, ma oltre 12 miliardi; e l’Italia, non già 2 miliardi e 350
milioni, ma 6 miliardi e 400 milioni. Con un reddito tanto meschino - senza
margine - come avrebbe potuto formarsi un’agguerrita borghesia rurale? Quando
si dice borghesia, riferendoci al secolo XIX, non si intende una classe di
mezzo che vivacchi alla meglio, ma un ceto di conquistatori, l’avanguardia
dell’animosa iniziativa capitalistica che ha fatto la fortuna finanziaria e
politica dei grandi paesi moderni d’Europa “(pag. 178).
“La necessità di produrre a
buon mercato per battere la concorrenza straniera induceva gli industriali a
tenere i salari bassissimi (30 centesimi al giorno, in media, fino al 1880); e
la deficienza di norme igieniche produceva effetti deleteri sugli operai.
Contro gli orari prolungati per 12-14 ore protestano scrittori seri e positivi
come il Frattini e il Sacchi: qualcuno parla perfino di “una tratta dei
bianchi” a proposito dell’impiego in massa, in certe manifatture lombarde
(Intra), di intieri ospizi, riformatori, orfanotrofi di fanciulli milanesi” (pagg.
303-4).
“Quale poteva essere il mezzo più
semplice per accelerare il ritmo dei commerci italiani all’interno e tentare
l’espansione dei nostri prodotti all’estero? Capitali e mezzi di trasporto. I
primi scarseggiano sempre: e allorché finalmente affluirono (dopo il 1881)
erano in gran parte tedeschi o comunque stranieri e tentarono di trasformare
l’Italia in una colonia germanica. Bisogna in ogni modo arrivare alla fine del
secolo per avere una Banca modernamente attrezzata per lo sviluppo industriale
della Penisola” (pag. 312).
A noi, giunti ormai alla fine di
questo rapido e, ahimè, sommario excursus storico sulle vicende dell’economia
agricola e industriale durante il secolo dell’unità - che avrebbe dovuto essere
quello della borghesia trionfante - una cosa pare certa: mancò allo slancio
borghese l’audacia e la tenacia sufficiente per vincere in pieno la grande
battaglia iniziata alla fine del ‘700 e protratta fino oltre il compimento
dell’Unità politica. La borghesia italiana fu impari al suo compito. Questo
spiega in gran parte l’insufficienza della sua missione civilizzatrice” (pag.
321).
“Dominava - protagonista vera - la
borghesia dei plutocrati, che creò infatti lo Stato accentratore, lo
Stato-cervello, di tutti e di nessuno, lo Stato-provvidenza” (pag. 362).
“Espressione
vera del tempo è il governo giolittiano, che non solo non ostacola, anzi
favorisce codesta moltiplicazione di genterella borghese, tendenzialmente
progressista, istintivamente democratica, amante del giusto mezzo, perché essa
costituisce una docile massa elettorale, non ha pretese, paga regolarmente le
imposte, sostiene con convinzione la causa della pace ad ogni costo. Sono i
famosi “ceti medi”, borghesi bensì, ma espressione perfetta della formazione
insufficiente, monca, ritardata della coscienza borghese in Italia: “popolo di
cinesi” - come furono definiti - ben educati e ben vestiti, ma cinesi: privi,
cioè, di una robusta costituzione morale, poveri di coraggio, poveri, in
sostanza, di un vero e proprio orgoglio di classe. Aiutata dall’emigrazione,
dal capitale straniero, dal risveglio ebraico, dalla cooperazione dei
cattolici, dallo stesso movimento socialista che ne sembra l’antagonista mentre
ne è l’alleato, dal ritorno del pareggio, dall’opportunismo dinastico, dalle
contingenze politiche e finanziarie dell’Europa (la Germania guglielmina la
garantisce in politica e l’aiuta nello sviluppo economico) - codesta borghesia
attraversa dieci anni di straordinaria floridezza. Ma cova nel suo seno il
germe stesso della disfatta. È nata alla vita politica, al dominio economico,
alla supremazia sociale, quasi senza battaglia, per virtù di circostanze
estranee, senza una profonda elaborazione spirituale e senza vera base
economica. L’agricoltura, su cui in massima parte si fonda, quantunque
sottoposta a uno sforzo produttivo più intenso, non cessa di essere per questo
un’agricoltura povera, scarsa di vere risorse naturali, senza tradizioni. E
quanto all’industria sappiamo ormai come sia frutto di circostanze incidentali,
in balia a esperimenti doganali, in gran parte, insomma, artificiosa, e
innaturale all’indole e ai mezzi dell’Italia del primo Novecento. Una qualsiasi
vicenda esteriore può portarla alle stelle o distruggerla. Quindi - o agricola
o industriale - la borghesia che viene espressa dall’una o dall’altra, è costretta
ad attaccarsi allo Stato, a essere la schiava piuttosto che l’arbitra dei
governi costituiti, a cercare compromessi d’ogni natura, a vivere di equivoci.
Essa deve tollerare una vera e propria dittatura, quella di Giolitti, che
maschera il suo prepotere con l’alibi del Parlamento, e, mentre la favorisce,
la disprezza e l’umilia. È appena nata, e si può dire che la sua insufficienza
già si dimostri così potente, la sua iniziativa così anemica, che occorrono
iniezioni di gente nuova per rinvigorirla” (pagg. 404-6).
“Coltivare
e difendere la proprietà nel bagnomaria dei protezionismi statali” (410):
ecco in sintesi l’ideale del borghese italiano.
***
Sarebbe vana e fatua fatica
indagare se, in circostanze storiche diverse, e cioè senza la guerra mondiale e
gli avvenimenti che l’hanno seguita, anche la nostra vita economica e politica
avrebbe potuto assurgere a un più moderno sviluppo europeo. Certo nei primi
anni di questo secolo, favorita dalla generale prosperità, anche la nostra
situazione economica si era sensibilmente e favorevolmente sviluppata. Ma
l’afflusso dei capitali necessari a questa ripresa era stato per la maggior
parte dovuto o a capitali stranieri importati in Italia, o a risparmi delle
stesse classi lavoratrici, soprattutto alle rimesse degli emigranti. La classe
dirigente, attraverso il giro delle Banche e delle Casse di Risparmio, si
assumeva di raccogliere e far fruttare questi piccoli peculi a proprio
beneficio, mentre le perdite si ripercuotevano quasi sempre a carico dei
risparmiatori.
La prima guerra europea, sorta dai
conflitti imperialistici della borghesia internazionale, trovò il nostro paese
in queste condizioni di sviluppo. Senza riserve di capitali, senza margini di
sicurezza, senza investimenti di capitali all’estero, senza imperi coloniali da
sfruttare, senza altre risorse insomma che la propria grama e stentata
compagine, la nostra economia non fu assolutamente in grado di reggere all’urto
della guerra: all’enorme distruzione di ricchezze, alla trasformazione di
industrie di pace in industrie belliche e viceversa, alla sottrazione prima e
al rapido ritorno poi di milioni di lavoratori, ai disordini provocati dalla
svalutazione monetaria, principalissimi fra i quali l’aumentato costo della
vita e la rottura dell’equilibrio salario-prezzi.
In questa situazione storica, il
fascismo non fu il fatto di una banda di avventurieri, o il frutto di un
tradimento della monarchia, bensì lo sbocco necessario della nostra evoluzione
precedente, il risultato dell’insufficienza economica e politica della nostra
borghesia. Esso fu sostanzialmente l’incontro di una classe media, educata
dalla miseria al servilismo verso lo Stato e verso il capitalismo, ma gelosa,
in ricambio, della propria “superiorità” sociale verso il proletariato
industriale, rovinata dalla guerra e dall’inflazione e ansiosa di rifarsi una
“posizione” senza tornare alla faticosa routine d’anteguerra, e una classe
capitalistica gonfiata dai facili guadagni delle forniture belliche, restia a
restituirli sotto forma di imposte o di adeguamenti salariali, e incapace di
superare il periodo di riflusso del dopoguerra per altra via che non fosse
quella della riduzione dei salari.
Ridotto alla più semplice e
brutale espressione, il problema dell’altro dopoguerra fu tutto in questa
alternativa: o espropriazione dei capitalisti per pagare le spese di guerra e
riportare l’economia sul piede di un pacifico sviluppo, o riduzione dei salari
per permettere alle nostre industrie di superare la crisi di assestamento e resistere
alla concorrenza straniera. Ma la riduzione forzata dei salari e la
compressione del tenore di vita delle classe lavoratrici significavano
abolizione forzata della lotta delle classi, scioglimento delle libere
organizzazioni di combattimento delle classi lavoratrici, imposizione dall’alto
di un nuovo equilibrio a vantaggio dei ceti capitalistici, in una parola
soppressione di ogni competizione democratica, e, di conseguenza, della stessa
struttura democratica del paese, in quanto appunto democrazia significa lotta
di partiti, di ceti, di classi, e lotta significa spreco di ricchezze che
un’economia senza margini come la nostra non poteva sopportare. Rivoluzione
proletaria o fascismo: fu dunque questo il dilemma dell’altro dopoguerra. E
poiché le classi lavoratrici, educate da lunghi anni di riformismo, non avevano
alcuna preparazione alla rivoluzione, furono facilmente sopraffatte dall’ondata
dei ceti medi, che, partiti per imporre la propria soluzione arbitrale di
compromesso (“giustizia sociale”), finirono in realtà col mettersi a rimorchio
delle classi capitalistiche, le quali, per mezzo di esse, andarono alla
conquista di quello Stato che, con Giolitti come con Crispi o Depretis,
attraverso una catena di interventi, di sussidi, di forniture, ecc., avevano
sempre considerato come uno strumento necessario del loro predominio economico.
Lo Stato fascista, come noi
l’abbiamo conosciuto per 21 anni, è lo Stato legittimo della borghesia
italiana, vuoi delle classi possidenti che dei medi ceti.
***
Che così sia, che non si tratti di
un fatto abnorme, mostruoso, eccezionale, ma di un fenomeno storico, cioè
razionalmente inquadrato nel corso degli eventi, lo dimostra ancor meglio la
storia di tutta l’Europa, dove la democrazia borghese è stata facilmente sopraffatta
in tutti gli stati poveri o impoveriti dalla guerra, nei quali essa era sorta e
si era sviluppata (almeno nella maggior parte dei casi) in conseguenza di uno
sviluppo economico provocato da afflusso di capitali stranieri, e dove gli
sconvolgimenti conseguenti alla guerra fecero inaridire questa fonte di
prosperità, mettendo i vari paesi di fronte alla necessità di vivere con le
proprie meschine risorse.
In altre parole, e pur senza voler
troppo schematizzare un processo storico estremamente complesso, si può
sostenere che la democrazia borghese, che ci fu gabellata come un fatto
universale, come un momento necessario dell’evoluzione umana (donde molte
critiche al bolscevismo perché aveva preteso di saltare in Russia questa fase
storica), e da alcuni addirittura come il trionfo della ragione e della
giustizia, è in realtà, almeno come prodotto spontaneo e non d’importazione, un
fatto storico assai limitato e condizionato: limitato quasi esclusivamente ai
paesi dell’Europa nord-occidentale e condizionato dallo sviluppo di una società
capitalistica a larghi margini e quindi da una notevole accumulazione di
ricchezza o dalla conquista di posizioni privilegiate nell’economia mondiale.
Là dove, come in Italia e in genere nei paesi poveri, questa accumulazione
primitiva era mancata, la democrazia borghese ha resistito quel tanto che ha
resistito la prosperità generale; ma, non appena si è chiuso il circolo del
commercio internazionale, l’afflusso di capitali stranieri e dei risparmi
dell’emigrazione; non appena soprattutto si è trattato di superare un periodo
burrascoso, di gravi distruzioni e di gravi difficoltà economiche, la lotta
delle classi si è trasformata subito in una lotta di vita e di morte, e, poiché
la vita non era concepibile se non a spese o con l’appoggio dello Stato, in una
lotta per il possesso definitivo dello Stato e per la dittatura. Questa è la
genesi del fascismo in Europa.
Solo nei suoi paesi di origine,
dove sussistevano le condizioni da cui era sorta, dove sussistevano dei margini
di sicurezza economica dovuti a ricchezze accumulate in investimenti
capitalistici, a sfruttamenti di colonie o di paesi stranieri, dove il tenore
di vita era più alto, e dove quindi il costo della guerra e della crisi poteva
da tutti i ceti esser sopportato grazie a quei margini, la democrazia borghese
ha potuto sopravvivere. Ma non è fuor di luogo dire che le forme democratiche,
di cui vanno fieri i paesi anglosassoni, hanno per presupposto lo sfruttamento
delle ricchezze di tutto il mondo, che è una prerogativa dei capitalisti di
quei paesi. Senza il sudore e il sangue di centinaia di milioni di indiani e di
cinesi, forse il fascismo regnerebbe oggi sovrano anche sulle rive del Tamigi.
***
Se queste premesse storiche sono
fondate, quali insegnamenti possiamo ricavarne per il momento che
attraversiamo? Evidentemente uno fondamentale, e cioè l’impossibilità di
restaurare in Italia e in Europa una democrazia borghese.
Si
è visto infatti che la funzione della borghesia, nei paesi ove essa ha avuto
origine e ove ha potuto veramente svilupparsi e durare, è stata essenzialmente
quella di creare le condizioni di una vita economica e politica moderna, grazie
al possesso di capitali accumulati e a un’intelligente iniziativa. E abbiamo
visto altresì che là dove queste condizioni sono mancate, la borghesia si è
trascinata stentatamente e non ha saputo creare adeguate condizioni di vita né
a sé, né ai ceti medi, né alle classi lavoratrici, ma ha dovuto al contrario
sfruttare parassitariamente lo stato (e quindi ancora la grande massa dei
cittadini, che appartengono alle classi lavoratrici), sino a sboccare nel
fascismo come sua meta fatale, non appena le condizioni di esistenza si son
fatte più dure e difficili.
Ora è
chiaro che nell’Italia di questo secondo dopoguerra, come negli altri paesi
depauperati e immiseriti, la borghesia non ha più alcun diritto storico ad
esercitare funzioni di classe dominante. Non è da essa certo che attingeremo i
capitali necessari alla ricostruzione economica del paese. Quei capitali che le
fecero difetto anche per il proprio sviluppo in tempi normali (non va
dimenticato che il governo fascista, durante gli anni della crisi, spese ben
sette miliardi attinti al pubblico erario, e cioè in definitiva pagati col
sudore dei lavoratori, per salvare imprese capitalistiche dissestate), essa non
potrebbe oggi procurarseli se non comprimendo un’altra volta i salari e
spremendo, attraverso le imposte, fino all’ultima goccia del nostro sudore, se
non insomma attraverso il sacrificio di tutti gli italiani. Anni duri ci
aspettano, durante i quali solo il nostro tenace lavoro, il nostro faticoso
risparmio, la sobrietà e la disciplina di tutti possono permetterci di rifare a
poco a poco le nostre città, le nostre navi, le nostre fabbriche, di
ricostruire il nostro patrimonio zootecnico, di mettere in efficienza la nostra
agricoltura, di dar vita ai nostri traffici, di creare nuovamente e soprattutto
di migliorare e razionalizzare quelle fonti di ricchezza, che la nostra classe
dirigente ha per tanti anni spremuto con cinico egoismo e poi con incosciente
leggerezza gettato nel baratro della seconda guerra mondiale.
Con quale diritto può oggi la
borghesia italiana pretendere da noi di sfruttare il nostro comune sacrificio,
per i suoi egoistici interessi, per la sua sete di dominio? Forse in virtù di
quella intelligente capacità di iniziativa che fu già vanto dei pionieri della
borghesia e a cui lo stesso Marx tributò l’elogio che abbiam più sopra
riportato?
La prova di immaturità, di
corruzione, di bassezza che essa ci ha dato col fascismo e prima del fascismo,
non lo farebbero certo pensare, ma noi non siam qui a dare un giudizio morale,
bensì a fare un processo storico. Ed è sul terreno storico che vogliamo
concludere.
La storia degli ultimi anni, la
storia dell’U.R.S.S. e quella delle stesse nazioni democratiche, ci ha
dimostrato che lo sforzo economico di un paese, quando voglia essere
razionalmente coordinato ad un fine - sia esso un fine di guerra o di pacifica
ricostruzione - dev’essere inquadrato in un piano e diretto dallo Stato. Lo
Stato di oggi non è più quello di quattro secoli fa, tutto impregnato di
concezioni medievali e feudali, incapace di larghe iniziative economiche,
sprovvisto dei mezzi atti a tentare le grandi imprese industriali. È anzi il
solo che possieda oggi questi mezzi: il solo che può conoscere e dominare le
varie fasi del processo produttivo, il solo che può disciplinare il commercio
con l’estero e regolare la produzione nell’interesse pubblico, il solo che
possa attingere e investire i capitali comuni in imprese di comune utilità
senza aspettarne un profitto immediato, il solo insomma che abbia possibilità e
autorità di predisporre ed attuare un piano di ricostruzione economica, di
avviare l’economia del paese verso nuovi più favorevoli orizzonti. E poiché è
chiaro che la nostra rinascita economica non può essere concepita se non nel
quadro della rinascita economica europea e non può risultare se non da un
armonico e coordinato sviluppo di tutte le nostre attività produttive, è ovvio
che essa non può più esser lasciata all’iniziativa di singoli capitalisti.
Se
dunque la ricostruzione economica dell’Italia e dell’Europa continentale in
genere non può basarsi che sul sacrificio comune e può esser diretta solo
dall’autorità centrale, se dunque la borghesia non ha più oggi nessuna delle
funzioni storiche che ne determinarono la grandezza, quale altra funzione può
esercitare ancora la proprietà borghese, se non quella di armare ancora una
volta gli opposti egoismi, e di preparare nuove guerre e nuovi fascismi?
E non ci
si parli di democrazia e di libertà, termini dimostratisi incompatibili ormai
col regime capitalistico in paesi poveri: le utopie dei ceti medi, di un
governo superiore alle classi pure in regime borghese, di una “giustizia
sociale”, che furon già lo strumento ideologico del fascismo, dovrebbero essere
sepolte per sempre.
Il dilemma
è oggi, più ancora che nel 1919, fascismo o rivoluzione proletaria; dittatura
di oligarchie privilegiate o governo dei lavoratori nell’interesse dei
lavoratori.
SPARTACO