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SPARTACO

PROCESSO ALLA BORGHESIA

Quando una rivoluzione fallisce o abortisce, si sente sovente dalle schiere dei vinti partire l’accusa di tradimento contro i capi. Già Marx ammoniva, nei suoi saggi sulla rivoluzione germanica del 1848, contro questo semplicismo che tende a spiegare gli eventi storici con fattori personali e dimostrava come l’insuccesso di un moto rivoluzionario debba in ultima analisi ricondursi all’immaturità o impreparazione della classe rivoluzionaria.

Del pari quando un regime crolla e si sfascia, qualunque ne sia la cagione immediata, l’evento deve storicamente ricondursi al fatto che la classe dominante ha esaurito il suo ciclo, che non ha più quindi alcun diritto storico all’esercizio del potere.

Se noi impostiamo l’analisi della situazione italiana su altre basi, se noi andiamo a ricercare le cause del nostro disfacimento in qualche motivo immediato e contingente, nella guerra e nella sconfitta, o addirittura se noi ci preoccupiamo di stabilire le cagioni della sconfitta, se noi indaghiamo chi abbia tradito, se i gerarchi han tradito Mussolini o Mussolini ha tradito il paese o il re ha tradito tutti quanti, noi entriamo veramente in un labirinto senza uscita.

Non è quindi il processo al fascismo o alla monarchia quello che ormai si è aperto e che deve chiudersi con un’irrevocabile condanna: è il processo alla borghesia. A quella borghesia che nell’altro dopoguerra aveva sperato di salvarsi col rinnegare i propri principi liberali e democratici, servendosi del fascismo come di uno strumento, ma che col fascismo ha in definitiva accettato di fondersi e confondersi, perché esso era veramente il suo punto di arrivo, il suo sbocco fatale.

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La fine ingloriosa della classe dirigente italiana può stupire soltanto coloro che son usi a fermarsi alla superficie dei fatti storici, ma a chi analizzi il nascimento e lo sviluppo della nostra borghesia, specie in paragone alla borghesia di altri paesi, non può non riuscire chiaro come essa avesse in definitiva mancato al suo compito storico e come il fascismo rappresentasse appunto il risultato della sua insufficienza economica e politica.

Quale è stato infatti il compito storico della borghesia? Quasi un secolo fa Marx ha scritto nel Manifesto l’apologia della classe borghese come artefice di storia. Vale la pena di ricordare qualche brano:

“Così dunque la stessa borghesia moderna è il prodotto di un lungo e continuo sviluppo, di una serie di sconvolgimenti nei modi di produzione e di scambio. Ognuno di questi stadi della borghesia si accompagnò ad un progresso politico. Casta oppressa sotto il dominio dei baroni, associazione armata ed autonoma nei Comuni, qui repubblica civica indipendente, là terzo stato tributario della monarchia; poi, al tempo della manifattura, antagonista della nobiltà nelle monarchie dinastiche o assolute, sempre fondamento cardinale delle vaste monarchie, la borghesia, con lo stabilirsi della grande industria e del mercato mondiale, si conquista finalmente l’esclusivo dominio politico nei moderni Stati rappresentativi. Il potere dello Stato oggi è un comitato che amministra gli affari sociali del ceto borghese.

La borghesia ebbe nella storia un ufficio sommamente rivoluzionario. Dov’è giunta al potere, ha distrutto i rapporti feudali, patriarcali, idillici… La borghesia ha strappato il velo di tenero sentimentalismo che avvolgeva i rapporti di famiglia, e li ha ridotti a un semplice rapporto di quattrini. La borghesia ci ha rivelato che la brutale manifestazione di forza, per cui i reazionari ammirano il medioevo, aveva il suo naturale complemento nella più sconcia poltroneria. Essa fu la prima a mostrare di che sia capace l’attività umana. Essa ha compiuto ben altre meraviglie che non le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; ha fatto ben altre spedizioni che gli esodi di popoli e le crociate.

La borghesia non può esistere senza una perpetua rivoluzione negli strumenti di produzione; e perciò anche nei rapporti di produzione e nei rapporti sociali tutt’insieme. Condizione di esistenza delle classi industriali che la precedettero era invece l’immutabile mantenimento dei vecchi metodi di produzione. L’epoca borghese si distingue da tutte le precedenti pel continuo sconvolgersi della produzione, per l’incessante scuotersi di ogni condizione sociale, per l’incertezza e il movimento perpetuo. Le dure e rugginose relazioni, cui andavano unite maniere di vedere e di pensare rese venerabili dall’età, vengono sciolte e le nuove invecchiano prima ancora di ossificarsi. Il gerarchico e lo stabilito se ne vanno, il sacro è sconsacrato, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare, spoglie d’ogni velo, le loro condizioni di esistenza e i loro rapporti reciproci.

…Nel suo quasi secolare dominio di classe, la borghesia ha creato forze di produzione più gigantesche e imponenti che non abbian fatto tutte insieme le passate generazioni. Sottomissione delle forze naturali, invenzioni meccaniche, applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, dissodamenti di intere parti del mondo, fiumi resi navigabili, intere popolazioni sorte per incanto dal suolo: ecco ciò che essa ha fatto. Quale dei secoli trascorsi presentì che tante forze di produzione stessero sopite in grembo al lavoro sociale?”

Ora, per assolvere a questi compiti giganteschi, è stato necessario che la borghesia disponesse essenzialmente di due requisiti: anzitutto il capitale, e poi la capacità di iniziativa. Il capitale, cioè i mezzi necessari a fondare imprese industriali; la capacità di iniziativa, che vuol dire al tempo stesso il coraggio di arrischiare quei capitali in imprese nuove e di incerto esito, e l’intelligenza per dirigere le imprese stesse e guidarle al successo.

Non è il caso, in questa sommaria esposizione, di indagare come i fondatori del moderno capitalismo fossero giunti in possesso del capitale necessario alle imprese da essi fondate: è questione del resto controversa fra gli storici, che segnalano varie cagioni di questa primitiva accumulazione, dall’usura medievale al commercio, dall’appalto di imposte e rendite al plusvalore degli immobili, ecc. Tutti questi mezzi probabilmente concorsero in misura varia a formare gli antenati dell’odierna classe borghese, come del resto era già accaduto in altre epoche della storia.

Ma quel che diede l’impulso definitivo alla trasformazione capitalistica fu la grande rivoluzione economica del XVI secolo, succeduta alla scoperta dell’America e alla conseguente larga importazione di metalli preziosi che, cagionando un rinvilio della moneta, determinò un generale rialzo dei prezzi e creò le condizioni più favorevoli allo sviluppo della produzione industriale, mentre rovinò le classi parassitarie dei redditieri e dei signori.

Condizioni storiche e geografiche avevano, già in quel periodo, tagliata fuori l’Italia dal commercio mondiale, sicché i benefici della nuova situazione non si estesero là dove non giungevano le grandi correnti del traffico, ma rimasero sostanzialmente limitate all’Inghilterra, alla Francia e ai Paesi Bassi.

È qui infatti, e in Inghilterra soprattutto, che la borghesia ha potuto celebrare i suoi massimi trionfi; è qui che, grazie alle enormi accumulazioni di ricchezza, si è potuto fondare un impero mondiale, si son potute sviluppare saldamente le due caratteristiche principali della civiltà borghese, l’individualismo e la democrazia politica. Solo infatti una borghesia ben fornita di capitali, con larghi margini di profitto, poteva creare, insieme con la propria fortuna, delle condizioni di vita umane ai ceti medi e a vasti strati del proletariato; solo una relativa indipendenza economica poteva a sua volta rappresentare una solida base per una forte coscienza della propria individualità, che è quanto dire per un’educazione liberale; solo un’educazione liberale e un certo benessere economico potevano consentire lo sviluppo di una democrazia politica.

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Quale è stata invece la formazione della borghesia italiana? Tagliata fuori, come abbiam visto, dalle grandi correnti di traffico e dalle fonti della nuova ricchezza, nei secoli XVI e XVII, l’Italia non ha partecipato alla grande rinascita economica, politica e spirituale che segna il nascere dell’epoca moderna.

Lo scoppio della rivoluzione francese la trova in condizioni di grave arretratezza e l’invasione napoleonica la mette brutalmente in contatto col mondo nuovo, prima che si siano sviluppate autonomamente le condizioni della produzione capitalistica.

La quale arriva quindi da noi più come un prodotto d’importazione che come il frutto dei nostri sforzi o come il coronamento di un nostro progresso; arriva soprattutto senza che si siano formate le basi materiali della sua esistenza e del suo progresso, cioè appunto quella accumulazione primitiva che sola permette le grandi moderne iniziative, che sola può dare ad una classe capitalistica il senso della sua funzione storica, il coraggio delle imprese audaci, la capacità di arrischiare e di creare nuove ricchezze, la larghezza delle vedute, la coscienza della propria dignità.

Magra e stentata è stata al contrario, appunto per questo, la vita della nostra borghesia. Incapace di libere iniziative, timida per mancanza di mezzi da arrischiare, essa è vissuta all’ombra della protezione statale, che è stata abile a sfruttare in ogni senso, sotto forma di concessioni, di dazi protettori, di premi d’incoraggiamento o di esportazione, di sussidi palesi, come quelli di armatori siderurgici o zuccherieri, o mascherati sotto forme di forniture statali, appalti, ecc., di salvataggi come quelli famosi di molte banche ed industrie. In tutti questi casi chi ha fatto le spese dei finanziamenti è stata la massa dei consumatori e dei contribuenti, e cioè in sostanza la grande maggioranza della popolazione italiana, fatta di operai, di contadini, di lavoratori in genere, mentre chi ne ha tratto profitto è stata sempre una piccola minoranza capitalistica.

La quale, costretta a vivere di aiuti statali, ha finito col penetrare in tutti i gangli della vita dello stato, principalmente nella burocrazia e nel parlamento, per assicurarsi tutti quei vantaggi, senza i quali non avrebbe saputo vivere e prosperare. La corruzione politica è stata appunto per questo uno degli aspetti più caratteristici della nostra vita pubblica assai prima del fascismo, come risultato della miseria dei nostri ceti burocratici e della insufficienza dei nostri ceti capitalistici.

Contropartita di questa situazione fu appunto la condizione miserabile dei nostri ceti medi, a cui la languente vita economica del paese non era in grado di assicurare una sufficiente indipendenza. Sicché, mentre una minoranza di questi ceti si metteva al servizio del capitale e si prostituiva per un magro compenso, la maggior parte finiva col gravitare attorno allo stato, formando una casta burocratica mal pagata e, necessariamente, senza resistenza morale, senza grandi capacità di reazione. Tutta la nostra vita economica svolgendosi così attraverso lo stato, ne derivava come conseguenza il reciproco asservimento e la reciproca compenetrazione degli organi dello stato e dei nostri ceti borghesi, il che non contribuiva certo a formare una coscienza liberale, che esige autonomia di sviluppo, decentramento di poteri o perlomeno di responsabilità, indipendenza del cittadino, e non consentiva quindi neppure il buon funzionamento degli organi democratici del paese, importati anch’essi dall’estero, ma non creati né assimilati da noi, e che erano incompatibili con le condizioni in cui si svolgeva la nostra vita economica.

D’altra parte le classi lavoratrici, oppresse - sia per la povertà delle nostre industrie che per la ristrettezza di idee dei loro dirigenti - da uno sfruttamento economico particolarmente gravoso, e, di riflesso, sfornite di cultura e di educazione, escluse dalla partecipazione alla vita pubblica e prive della coscienza della propria autonomia spirituale e della propria funzione storica, ben poco poterono contribuire, almeno per tutto il secolo scorso, a promuovere una moderna lotta politica, selezionatrice di élites e suscitatrice di energie rivoluzionarie.

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Perché questo quadro della borghesia italiana non appaia a taluno tendenzioso, citeremo a convalidarlo alcuni brani di uno scrittore non sospetto certo di simpatie socialiste, il Quilici (cfr. “La borghesia italiana”, Ispi, Milano, 1942):

“Allorché sopravvenne l’Impero, la formazione dei nuovi nuclei sociali era molto avanzata. Non si può dire che la borghesia italiana avesse acquistato, come in Francia, piena coscienza di sé, perché la conquista delle posizioni dominanti era stata, presso di noi, più frettolosa e caotica, aveva subito brusche spinte dall’esterno, aveva sfruttato precipitosamente le circostanze e non aveva ancora elevato il costume e la cultura allo stesso alto livello delle raggiunte ricchezze. Il movimento di progresso morale e politico, così poderosamente iniziato, per virtù autonoma, dal Terzo Stato nel ‘700, favorito dai Principi saggi, accompagnato dalla letteratura civile del rischiaramento, favorito da mezzo secolo di pacifici e sereni rapporti interstatali, avrebbe avuto bisogno di un più largo sviluppo spontaneo. Invece la Rivoluzione francese forzò il passo di un progresso armonioso ispirato bensì ai lumi stranieri ma sostanzialmente originale, cioè italiano, e accrebbe i plotoni d’assalto della neo-borghesia di elementi eterogenei, impreparati, arricchiti per caso e gestori incauti della propria conquista”. (pagg. 134-5).

“Certo il movimento di riscossa borghese non fu in Italia così vistoso come in Francia, dove basterebbe un uomo, il Lafitte, a dimostrare quale apertura di orizzonti spalancassero, al borghese intraprendente, la Rivoluzione e l’Impero. Il Terzo Stato in Italia era nato non senza stenti nel cinquantennio precedente e aveva subito i contraccolpi della situazione generale: solo in parte aveva potuto provocare direttamente e consapevolmente il nuovo ordinamento della società. D’altra parte l’angustia dei confini dei singoli Stati italiani e la ristrettezza dei mezzi impedivano ai borghesi italiani di operare con l’audacia e l’efficacia dei neo-borghesi in Francia, di cui il banchiere Laffitte, lupo cerviero della finanza internazionale, prestatore accorto di denaro ai rivoluzionari, ai Borboni, a Napoleone, agli Orléans, grande manovratore di capitali e precursore dell’internazionalismo bancario dei giorni nostri, vero fondatore della borghese Monarchia di Luglio, dava la prova”. (pagg. 145-6).

“In conclusione all’Italia mancava completamente nell’800 la plebe cittadina. Prevalevano le costumanze e le tradizioni secolari del contado. Se almeno le classi rurali, proprietari e coltivatori, avessero fatto tesoro degli enormi progressi compiuti dall’agricoltura in tutti i paesi moderni d’Europa durante i primi decenni del secolo! Invece i sistemi di conduzione agricola ritornano gli stessi. Quasi la metà del suolo coltivabile è consacrata alla produzione di cereali, mentre la Francia ne ha assai meno di un terzo. Scarseggiano i prati e quindi il bestiame. Per difetto di concime la stessa coltura dei cereali rende meno di quel che dovrebbe” (pagg. 150-2).

L’Italia, abbiamo detto, era rimasta indietro: avvertì solo in piccolissima parte il rinnovamento: e giunse al traguardo della civiltà moderna, con poche avanguardie, in poche regioni. Il ritardo economico influì su quello politico. Visse una grama e stentata vita rurale e nell’assenza quasi assoluta di vita industriale” (pagg. 161-2).

L’Inghilterra, con una superficie agraria di circa tre quarti inferiore a quella della Francia e di una metà inferiore a quella dell’Italia, produceva appena due quinti in meno della Francia, ma un buon terzo in più dell’Italia. Se la Francia avesse prodotto con i perfezionati sistemi inglesi, avrebbe dovuto avere non già 5 miliardi di reddito, ma oltre 12 miliardi; e l’Italia, non già 2 miliardi e 350 milioni, ma 6 miliardi e 400 milioni. Con un reddito tanto meschino - senza margine - come avrebbe potuto formarsi un’agguerrita borghesia rurale? Quando si dice borghesia, riferendoci al secolo XIX, non si intende una classe di mezzo che vivacchi alla meglio, ma un ceto di conquistatori, l’avanguardia dell’animosa iniziativa capitalistica che ha fatto la fortuna finanziaria e politica dei grandi paesi moderni d’Europa “(pag. 178).

La necessità di produrre a buon mercato per battere la concorrenza straniera induceva gli industriali a tenere i salari bassissimi (30 centesimi al giorno, in media, fino al 1880); e la deficienza di norme igieniche produceva effetti deleteri sugli operai. Contro gli orari prolungati per 12-14 ore protestano scrittori seri e positivi come il Frattini e il Sacchi: qualcuno parla perfino di “una tratta dei bianchi” a proposito dell’impiego in massa, in certe manifatture lombarde (Intra), di intieri ospizi, riformatori, orfanotrofi di fanciulli milanesi” (pagg. 303-4).

“Quale poteva essere il mezzo più semplice per accelerare il ritmo dei commerci italiani all’interno e tentare l’espansione dei nostri prodotti all’estero? Capitali e mezzi di trasporto. I primi scarseggiano sempre: e allorché finalmente affluirono (dopo il 1881) erano in gran parte tedeschi o comunque stranieri e tentarono di trasformare l’Italia in una colonia germanica. Bisogna in ogni modo arrivare alla fine del secolo per avere una Banca modernamente attrezzata per lo sviluppo industriale della Penisola” (pag. 312).

A noi, giunti ormai alla fine di questo rapido e, ahimè, sommario excursus storico sulle vicende dell’economia agricola e industriale durante il secolo dell’unità - che avrebbe dovuto essere quello della borghesia trionfante - una cosa pare certa: mancò allo slancio borghese l’audacia e la tenacia sufficiente per vincere in pieno la grande battaglia iniziata alla fine del ‘700 e protratta fino oltre il compimento dell’Unità politica. La borghesia italiana fu impari al suo compito. Questo spiega in gran parte l’insufficienza della sua missione civilizzatrice” (pag. 321).

“Dominava - protagonista vera - la borghesia dei plutocrati, che creò infatti lo Stato accentratore, lo Stato-cervello, di tutti e di nessuno, lo Stato-provvidenza” (pag. 362).

“Espressione vera del tempo è il governo giolittiano, che non solo non ostacola, anzi favorisce codesta moltiplicazione di genterella borghese, tendenzialmente progressista, istintivamente democratica, amante del giusto mezzo, perché essa costituisce una docile massa elettorale, non ha pretese, paga regolarmente le imposte, sostiene con convinzione la causa della pace ad ogni costo. Sono i famosi “ceti medi”, borghesi bensì, ma espressione perfetta della formazione insufficiente, monca, ritardata della coscienza borghese in Italia: “popolo di cinesi” - come furono definiti - ben educati e ben vestiti, ma cinesi: privi, cioè, di una robusta costituzione morale, poveri di coraggio, poveri, in sostanza, di un vero e proprio orgoglio di classe. Aiutata dall’emigrazione, dal capitale straniero, dal risveglio ebraico, dalla cooperazione dei cattolici, dallo stesso movimento socialista che ne sembra l’antagonista mentre ne è l’alleato, dal ritorno del pareggio, dall’opportunismo dinastico, dalle contingenze politiche e finanziarie dell’Europa (la Germania guglielmina la garantisce in politica e l’aiuta nello sviluppo economico) - codesta borghesia attraversa dieci anni di straordinaria floridezza. Ma cova nel suo seno il germe stesso della disfatta. È nata alla vita politica, al dominio economico, alla supremazia sociale, quasi senza battaglia, per virtù di circostanze estranee, senza una profonda elaborazione spirituale e senza vera base economica. L’agricoltura, su cui in massima parte si fonda, quantunque sottoposta a uno sforzo produttivo più intenso, non cessa di essere per questo un’agricoltura povera, scarsa di vere risorse naturali, senza tradizioni. E quanto all’industria sappiamo ormai come sia frutto di circostanze incidentali, in balia a esperimenti doganali, in gran parte, insomma, artificiosa, e innaturale all’indole e ai mezzi dell’Italia del primo Novecento. Una qualsiasi vicenda esteriore può portarla alle stelle o distruggerla. Quindi - o agricola o industriale - la borghesia che viene espressa dall’una o dall’altra, è costretta ad attaccarsi allo Stato, a essere la schiava piuttosto che l’arbitra dei governi costituiti, a cercare compromessi d’ogni natura, a vivere di equivoci. Essa deve tollerare una vera e propria dittatura, quella di Giolitti, che maschera il suo prepotere con l’alibi del Parlamento, e, mentre la favorisce, la disprezza e l’umilia. È appena nata, e si può dire che la sua insufficienza già si dimostri così potente, la sua iniziativa così anemica, che occorrono iniezioni di gente nuova per rinvigorirla(pagg. 404-6).

Coltivare e difendere la proprietà nel bagnomaria dei protezionismi statali” (410): ecco in sintesi l’ideale del borghese italiano.

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Sarebbe vana e fatua fatica indagare se, in circostanze storiche diverse, e cioè senza la guerra mondiale e gli avvenimenti che l’hanno seguita, anche la nostra vita economica e politica avrebbe potuto assurgere a un più moderno sviluppo europeo. Certo nei primi anni di questo secolo, favorita dalla generale prosperità, anche la nostra situazione economica si era sensibilmente e favorevolmente sviluppata. Ma l’afflusso dei capitali necessari a questa ripresa era stato per la maggior parte dovuto o a capitali stranieri importati in Italia, o a risparmi delle stesse classi lavoratrici, soprattutto alle rimesse degli emigranti. La classe dirigente, attraverso il giro delle Banche e delle Casse di Risparmio, si assumeva di raccogliere e far fruttare questi piccoli peculi a proprio beneficio, mentre le perdite si ripercuotevano quasi sempre a carico dei risparmiatori.

La prima guerra europea, sorta dai conflitti imperialistici della borghesia internazionale, trovò il nostro paese in queste condizioni di sviluppo. Senza riserve di capitali, senza margini di sicurezza, senza investimenti di capitali all’estero, senza imperi coloniali da sfruttare, senza altre risorse insomma che la propria grama e stentata compagine, la nostra economia non fu assolutamente in grado di reggere all’urto della guerra: all’enorme distruzione di ricchezze, alla trasformazione di industrie di pace in industrie belliche e viceversa, alla sottrazione prima e al rapido ritorno poi di milioni di lavoratori, ai disordini provocati dalla svalutazione monetaria, principalissimi fra i quali l’aumentato costo della vita e la rottura dell’equilibrio salario-prezzi.

In questa situazione storica, il fascismo non fu il fatto di una banda di avventurieri, o il frutto di un tradimento della monarchia, bensì lo sbocco necessario della nostra evoluzione precedente, il risultato dell’insufficienza economica e politica della nostra borghesia. Esso fu sostanzialmente l’incontro di una classe media, educata dalla miseria al servilismo verso lo Stato e verso il capitalismo, ma gelosa, in ricambio, della propria “superiorità” sociale verso il proletariato industriale, rovinata dalla guerra e dall’inflazione e ansiosa di rifarsi una “posizione” senza tornare alla faticosa routine d’anteguerra, e una classe capitalistica gonfiata dai facili guadagni delle forniture belliche, restia a restituirli sotto forma di imposte o di adeguamenti salariali, e incapace di superare il periodo di riflusso del dopoguerra per altra via che non fosse quella della riduzione dei salari.

Ridotto alla più semplice e brutale espressione, il problema dell’altro dopoguerra fu tutto in questa alternativa: o espropriazione dei capitalisti per pagare le spese di guerra e riportare l’economia sul piede di un pacifico sviluppo, o riduzione dei salari per permettere alle nostre industrie di superare la crisi di assestamento e resistere alla concorrenza straniera. Ma la riduzione forzata dei salari e la compressione del tenore di vita delle classe lavoratrici significavano abolizione forzata della lotta delle classi, scioglimento delle libere organizzazioni di combattimento delle classi lavoratrici, imposizione dall’alto di un nuovo equilibrio a vantaggio dei ceti capitalistici, in una parola soppressione di ogni competizione democratica, e, di conseguenza, della stessa struttura democratica del paese, in quanto appunto democrazia significa lotta di partiti, di ceti, di classi, e lotta significa spreco di ricchezze che un’economia senza margini come la nostra non poteva sopportare. Rivoluzione proletaria o fascismo: fu dunque questo il dilemma dell’altro dopoguerra. E poiché le classi lavoratrici, educate da lunghi anni di riformismo, non avevano alcuna preparazione alla rivoluzione, furono facilmente sopraffatte dall’ondata dei ceti medi, che, partiti per imporre la propria soluzione arbitrale di compromesso (“giustizia sociale”), finirono in realtà col mettersi a rimorchio delle classi capitalistiche, le quali, per mezzo di esse, andarono alla conquista di quello Stato che, con Giolitti come con Crispi o Depretis, attraverso una catena di interventi, di sussidi, di forniture, ecc., avevano sempre considerato come uno strumento necessario del loro predominio economico.

Lo Stato fascista, come noi l’abbiamo conosciuto per 21 anni, è lo Stato legittimo della borghesia italiana, vuoi delle classi possidenti che dei medi ceti.

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Che così sia, che non si tratti di un fatto abnorme, mostruoso, eccezionale, ma di un fenomeno storico, cioè razionalmente inquadrato nel corso degli eventi, lo dimostra ancor meglio la storia di tutta l’Europa, dove la democrazia borghese è stata facilmente sopraffatta in tutti gli stati poveri o impoveriti dalla guerra, nei quali essa era sorta e si era sviluppata (almeno nella maggior parte dei casi) in conseguenza di uno sviluppo economico provocato da afflusso di capitali stranieri, e dove gli sconvolgimenti conseguenti alla guerra fecero inaridire questa fonte di prosperità, mettendo i vari paesi di fronte alla necessità di vivere con le proprie meschine risorse.

In altre parole, e pur senza voler troppo schematizzare un processo storico estremamente complesso, si può sostenere che la democrazia borghese, che ci fu gabellata come un fatto universale, come un momento necessario dell’evoluzione umana (donde molte critiche al bolscevismo perché aveva preteso di saltare in Russia questa fase storica), e da alcuni addirittura come il trionfo della ragione e della giustizia, è in realtà, almeno come prodotto spontaneo e non d’importazione, un fatto storico assai limitato e condizionato: limitato quasi esclusivamente ai paesi dell’Europa nord-occidentale e condizionato dallo sviluppo di una società capitalistica a larghi margini e quindi da una notevole accumulazione di ricchezza o dalla conquista di posizioni privilegiate nell’economia mondiale. Là dove, come in Italia e in genere nei paesi poveri, questa accumulazione primitiva era mancata, la democrazia borghese ha resistito quel tanto che ha resistito la prosperità generale; ma, non appena si è chiuso il circolo del commercio internazionale, l’afflusso di capitali stranieri e dei risparmi dell’emigrazione; non appena soprattutto si è trattato di superare un periodo burrascoso, di gravi distruzioni e di gravi difficoltà economiche, la lotta delle classi si è trasformata subito in una lotta di vita e di morte, e, poiché la vita non era concepibile se non a spese o con l’appoggio dello Stato, in una lotta per il possesso definitivo dello Stato e per la dittatura. Questa è la genesi del fascismo in Europa.

Solo nei suoi paesi di origine, dove sussistevano le condizioni da cui era sorta, dove sussistevano dei margini di sicurezza economica dovuti a ricchezze accumulate in investimenti capitalistici, a sfruttamenti di colonie o di paesi stranieri, dove il tenore di vita era più alto, e dove quindi il costo della guerra e della crisi poteva da tutti i ceti esser sopportato grazie a quei margini, la democrazia borghese ha potuto sopravvivere. Ma non è fuor di luogo dire che le forme democratiche, di cui vanno fieri i paesi anglosassoni, hanno per presupposto lo sfruttamento delle ricchezze di tutto il mondo, che è una prerogativa dei capitalisti di quei paesi. Senza il sudore e il sangue di centinaia di milioni di indiani e di cinesi, forse il fascismo regnerebbe oggi sovrano anche sulle rive del Tamigi.

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Se queste premesse storiche sono fondate, quali insegnamenti possiamo ricavarne per il momento che attraversiamo? Evidentemente uno fondamentale, e cioè l’impossibilità di restaurare in Italia e in Europa una democrazia borghese.

Si è visto infatti che la funzione della borghesia, nei paesi ove essa ha avuto origine e ove ha potuto veramente svilupparsi e durare, è stata essenzialmente quella di creare le condizioni di una vita economica e politica moderna, grazie al possesso di capitali accumulati e a un’intelligente iniziativa. E abbiamo visto altresì che là dove queste condizioni sono mancate, la borghesia si è trascinata stentatamente e non ha saputo creare adeguate condizioni di vita né a sé, né ai ceti medi, né alle classi lavoratrici, ma ha dovuto al contrario sfruttare parassitariamente lo stato (e quindi ancora la grande massa dei cittadini, che appartengono alle classi lavoratrici), sino a sboccare nel fascismo come sua meta fatale, non appena le condizioni di esistenza si son fatte più dure e difficili.

Ora è chiaro che nell’Italia di questo secondo dopoguerra, come negli altri paesi depauperati e immiseriti, la borghesia non ha più alcun diritto storico ad esercitare funzioni di classe dominante. Non è da essa certo che attingeremo i capitali necessari alla ricostruzione economica del paese. Quei capitali che le fecero difetto anche per il proprio sviluppo in tempi normali (non va dimenticato che il governo fascista, durante gli anni della crisi, spese ben sette miliardi attinti al pubblico erario, e cioè in definitiva pagati col sudore dei lavoratori, per salvare imprese capitalistiche dissestate), essa non potrebbe oggi procurarseli se non comprimendo un’altra volta i salari e spremendo, attraverso le imposte, fino all’ultima goccia del nostro sudore, se non insomma attraverso il sacrificio di tutti gli italiani. Anni duri ci aspettano, durante i quali solo il nostro tenace lavoro, il nostro faticoso risparmio, la sobrietà e la disciplina di tutti possono permetterci di rifare a poco a poco le nostre città, le nostre navi, le nostre fabbriche, di ricostruire il nostro patrimonio zootecnico, di mettere in efficienza la nostra agricoltura, di dar vita ai nostri traffici, di creare nuovamente e soprattutto di migliorare e razionalizzare quelle fonti di ricchezza, che la nostra classe dirigente ha per tanti anni spremuto con cinico egoismo e poi con incosciente leggerezza gettato nel baratro della seconda guerra mondiale.

Con quale diritto può oggi la borghesia italiana pretendere da noi di sfruttare il nostro comune sacrificio, per i suoi egoistici interessi, per la sua sete di dominio? Forse in virtù di quella intelligente capacità di iniziativa che fu già vanto dei pionieri della borghesia e a cui lo stesso Marx tributò l’elogio che abbiam più sopra riportato?

La prova di immaturità, di corruzione, di bassezza che essa ci ha dato col fascismo e prima del fascismo, non lo farebbero certo pensare, ma noi non siam qui a dare un giudizio morale, bensì a fare un processo storico. Ed è sul terreno storico che vogliamo concludere.

La storia degli ultimi anni, la storia dell’U.R.S.S. e quella delle stesse nazioni democratiche, ci ha dimostrato che lo sforzo economico di un paese, quando voglia essere razionalmente coordinato ad un fine - sia esso un fine di guerra o di pacifica ricostruzione - dev’essere inquadrato in un piano e diretto dallo Stato. Lo Stato di oggi non è più quello di quattro secoli fa, tutto impregnato di concezioni medievali e feudali, incapace di larghe iniziative economiche, sprovvisto dei mezzi atti a tentare le grandi imprese industriali. È anzi il solo che possieda oggi questi mezzi: il solo che può conoscere e dominare le varie fasi del processo produttivo, il solo che può disciplinare il commercio con l’estero e regolare la produzione nell’interesse pubblico, il solo che possa attingere e investire i capitali comuni in imprese di comune utilità senza aspettarne un profitto immediato, il solo insomma che abbia possibilità e autorità di predisporre ed attuare un piano di ricostruzione economica, di avviare l’economia del paese verso nuovi più favorevoli orizzonti. E poiché è chiaro che la nostra rinascita economica non può essere concepita se non nel quadro della rinascita economica europea e non può risultare se non da un armonico e coordinato sviluppo di tutte le nostre attività produttive, è ovvio che essa non può più esser lasciata all’iniziativa di singoli capitalisti.

Se dunque la ricostruzione economica dell’Italia e dell’Europa continentale in genere non può basarsi che sul sacrificio comune e può esser diretta solo dall’autorità centrale, se dunque la borghesia non ha più oggi nessuna delle funzioni storiche che ne determinarono la grandezza, quale altra funzione può esercitare ancora la proprietà borghese, se non quella di armare ancora una volta gli opposti egoismi, e di preparare nuove guerre e nuovi fascismi?

E non ci si parli di democrazia e di libertà, termini dimostratisi incompatibili ormai col regime capitalistico in paesi poveri: le utopie dei ceti medi, di un governo superiore alle classi pure in regime borghese, di una “giustizia sociale”, che furon già lo strumento ideologico del fascismo, dovrebbero essere sepolte per sempre.

Il dilemma è oggi, più ancora che nel 1919, fascismo o rivoluzione proletaria; dittatura di oligarchie privilegiate o governo dei lavoratori nell’interesse dei lavoratori.

SPARTACO