Il partito
Il partito
nell’ordinamento democratico moderno
I partiti sono [...] lo
strumento che lo sviluppo storico ha creato per rendere possibile la sovranità
popolare, per trasformare in volontà statale, in volontà giuridicamente
rilevante, la volontà che si manifesta nella società civile, per trasfondere
nello Stato-apparato la volontà dello Stato-comunità: per dirla con parole del Mortati, sono
“mezzo necessario di azione della società che si fa Stato”.
È chiaro che il concetto,
che sta alla base di queste enunciazioni, e delle altre che si potrebbero
aggiungere, è che in un regime democratico la sede della formazione della
volontà statale non è più il Parlamento ma è direttamente il popolo, alle cui
scelte il Parlamento deve conformarsi.
Certo il Parlamento rimane l’organo chiamato a dire forma legale alla volontà
del popolo attraverso la procedura legislativa e, più in generale, attraverso
tutte le decisioni anche politiche che sono devolute alla sua competenza, ma
nella sostanza il regime democratico esige che il Parlamento si uniformi alla
volontà reale del popolo quale viene quotidianamente elaborata attraverso
quello strumento essenziale che sono i partiti politici.
E che questa trasformazione rappresenti un reale progresso democratico lo si
evince facilmente dal fatto che, senza i partiti, sarebbe pressoché impossibile
alle volontà singole e disorganizzate dei cittadini far sentire il proprio peso
sulla direzione della cosa pubblica, sicché
i cosiddetti “rappresentanti del popolo” sottratti per quattro o cinque anni ad
ogni forma di controllo, e dichiarati liberi da ogni vincolo di mandato,
finirebbero con il costituire un potere oligarchico sovrapposto alla reale
volontà popolare, mentre è attraverso i partiti che si organizza l’effettiva
rappresentanza popolare. “Dal
punto di vista teorico costituzionale, la differenza fondamentale fra il
moderno Stato democratico di partiti e la tradizionale democrazia parlamentare liberal-rappresentativa sta in questo, che il moderno Stato
di partiti per la sua essenza e per la sua forma non è altro che una forma
razionalizzata di democrazia plebiscitaria, o - se si vuole - un surrogato
della democrazia diretta nello Stato moderno”.
Un surrogato di democrazia
diretta, cioè quella che il Burdeau chiama una “democrazia governante”, o, in
altre parole, il popolo esercitante il potere effettivo nelle forme in cui è
possibile esercitarlo in un grande Stato moderno, tanto diverso dalla vecchia polis greca o dai tradizionali cantoni
svizzeri. In questa nuova forma di democrazia non vige più, abbiamo detto, il
concetto di “volontà generale” intesa come volontà unitaria della collettività,
ma si ridimensiona anche il principio maggioritario, che perde il suo valore di
dogma assoluto di ogni reggimento democratico per ridursi ad essere considerato
per quello che è in realtà e cioè la tecnica più semplice, ma ancora
rudimentale, per esplicitare in una formula unitaria una volontà collettiva,
quella del popolo-sovrano, che unitaria non è.
In realtà, come notava il Kelsen già parecchi anni fa, una vera democrazia
dovrebbe tendere in permanenza non semplicemente a legalizzare la volontà della
maggioranza ma a realizzare un compromesso fra maggioranza e minoranza, dato che anche la minoranza fa parte
del popolo, cioè partecipa anche essa dell’attributo della sovranità: anzi
piuttosto che ad un compromesso fra due sole tesi, quella della maggioranza e
quella della minoranza, noi diremmo oggi che deve tendere ad una sintesi fra le
molteplici opinioni che si esprimono attraverso i partiti, interpreti tutti,
sia pure in misura diversa, della complessa ed eterogenea volontà popolare.
Certo, sul piano formale, la Costituzione deve prevedere una procedura che
consenta di esprimere una volontà unitaria e, tecnicamente, è impossibile allo
stato attuale non ricorrere per questo al principio maggioritario: quello che
qui si vuole sottolineare è tuttavia un aspetto non procedurale ma sostanziale
del regime democratico.
E l’aspetto sostanziale è
appunto questa supremazia del popolo, e quindi dei partiti, sul Parlamento.
Giustamente è stato osservato da molti autori che anche la discussione
parlamentare non ha più oggi la funzione di un tempo, quella cioè di momento
terminale del processo decisionale, ma solo quella, più modesta, di fornire una
cassa di risonanza al dibattito fra i partiti per influenzare l’opinione
pubblica e contribuire per tale via a stimolare il processo di formazione della
volontà sovrana del popolo. “In queste condizioni - scrive il Virga - solo apparentemente i postulati della discussione e
della pubblicità sono rimasti in vita; la discussione pubblica all’assemblea è
una mera forma (useless ceremony);
essa non mira a convincere, ma ad annientare l’avversario; i Parlamenti non
fanno che registrare di volta in volta sui singoli argomenti quale è la volontà
dei vari gruppi parlamentari che votano compatti secondo le decisioni
preventivamente assunte”.
Quando si è detto
supremazia del popolo, e quindi dei partiti, sul Parlamento, quando si è
stabilito che la procedura maggioritaria è un espediente tecnico per risolvere
formalmente il problema della reductio ad
unum delle molteplici e contrastanti opinioni che in seno al popolo si agitano, ma che sul piano sostanziale non spoglia il
popolo - tutto il popolo e quindi anche le minoranze - dei suoi attributi
sovrani, si è posta una premessa gravida di conseguenze. Fra le quali è qui
opportuno mettere in rilievo quella che attribuisce carattere sovrano anche
alla funzione dell’opposizione, che è una funzione essenziale della democrazia.
Essa infatti è in primo luogo un momento necessario nel processo di
formazione della volontà popolare, che può formarsi solo attraverso un libero
dibattito permanente; un confronto continuo di idee, un dialogo ininterrotto
fra tutte le forze vive del paese, ed in secondo luogo è un momento necessario
della stessa direzione politica del paese in quanto è chiamata ad assolvere al
compito di controllo e di critica in assoluta indipendenza dal governo come
difficilmente può essere fatto da altri, organismi. In questo senso è chiaro
che non soltanto i partiti maggioritari, ma anche i partiti di opposizione sono
portatori di sovranità, e perlomeno interpreti di volontà e funzioni sovrane,
ed è per questo chiaro che il massimo di democrazia nella funzione di governo,
cioè il massimo rispetto della volontà popolare, si realizza non attraverso un
semplice voto di maggioranza, ma attraverso una decisione che tenga il massimo
conto possibile anche delle istanze della opposizione e rappresenti, ove sia
possibile, una sintesi delle volontà diverse che si sono manifestate in seno al
sovrano collettivo. [...]
Essendo stato a suo tempo
il presentatore della proposta dell’articolo che poi, con qualche modifica,
divenne l’art. 49, posso asserire che quella proposta, come del resto la
discussione che ne segui e l’approvazione che in definitiva le fu data,
nascevano tutte dalla piena consapevolezza della necessità di una nuova
strumentazione della vita pubblica, nascevano dalla coscienza della
transizione, già da tempo in atto in Europa, dallo Stato parlamentare allo Stato di partiti. Per quanto riguarda
l’intenzione del proponente, essa risulta chiara dal fatto che la proposta si
articolava in due articoli, nel secondo dei quali si prevedeva espressamente
che ai partiti politici dovessero essere riconosciute “attribuzioni di
carattere costituzionale”. E tale
fu anche l’opinione della prima sottocommissione che espressamente affermò,
approvando un ordine del giorno proposto dall’on. Dossetti, il principio
dell’attribuzione ai partiti di compiti costituzionali, e appunto perché questa
attribuzione incideva sull’ordinamento dello Stato, che non era di competenza
della Prima ma della seconda sottocommissione, si spossessò della decisione
rimandandola ad un esame comune con la seconda sottocommissione. Non sono in
grado di stabilire oggi perché questa riunione non ebbe luogo, se ciò accadde
per deliberata volontà di qualche organo o per altro motivo: fu così comunque
che venne evitata una pronuncia sul secondo articolo, senza che peraltro il
primo, successivamente approvato anche in assemblea, perdesse il suo
significato.
Era chiaro infatti fin da
allora che la sovranità popolare, affermata nel testo della Costituzione,
sarebbe stata nulla più che un’espressione verbale se non fosse stata creata
una strumentazione adeguata come dice giustamente Lavagna, “la più corretta
interpretazione dell’art. 1, ancorché preso da solo, dimostra che il concetto
di democrazia da esso accolto si impernia, fra l’altro, sulla continuità
democratica; vale a dire sulla circostanza che le istituzioni di governo siano
in permanenza espressione, diretta e indiretta, della sovranità e della volontà
popolare. La Costituzione, in altri termini, ha inteso escludere ogni forma di
democrazia apparente, con eventuali cristallizzazioni del potere in gruppi ed
in élites, ancorché selezionati attraverso
procedure democratiche; ed esige una continua, effettiva rispondenza dei
risultati di simili procedure alla reale volontà del popolo ed una effettiva
possibilità per tutte le forze politiche e sociali, in quanto legittime, di
alternarsi al potere”. Ora
l’esperienza aveva insegnato che il Parlamento, ancorché “selezionato
attraverso procedure democratiche” finisce con il diventare una élite cristallizzata che si sovrappone
al popolo che lo ha eletto, se non viene mantenuto quel rapporto e quel
controllo permanenti fra eletti ed elettori che è stato una delle ragioni
d’essere dei partiti alla loro origine e che rimane tuttora un compito a cui
soltanto i partiti possono assolvere. L’art. 49 è nato quindi in diretto
collegamento con l’art. 1, e il compito che esso riserva ai partiti, quello di
concorrere a determinare la politica nazionale, è il compito che spetta per
eccellenza al potere sovrano, e quindi al popolo nell’esercizio della sua
sovranità.
È errato quindi affermare
che il nostro ordinamento costituzionale è quello di uno Stato di tipo
parlamentare nel senso tradizionale della parola, perché anche l’art. 49 è
elemento costitutivo dell’ordinamento a cui dà un senso e un indirizzo diversi
da quello che si pretende dai critici dello Stato di partiti. E non si tratta
semplicemente di giustapposizione di elementi diversi. No, l’art. 49 ha voluto
rappresentare un elemento di cosciente superamento del sistema parlamentare
classico in quanto fra i due sistemi c’è opposizione e giustamente lo ha
rilevato con la sua consueta acutezza V. E. Orlando, scrivendo che la
Costituzione italiana “oscilla tra due forme di governo radicalmente fra loro
opposte, quale sarebbe una repubblica parlamentare […] ovvero una repubblica
caratterizzata (qualifica che sembra destinata a prevalere) da una
partitocrazia, tipo di governo affatto nuovo e moderno”. E tale opposizione era nota ai
costituenti, che vollero introdurre la norma costituzionale appunto per aprire
la strada allo sviluppo di quello Stato di partiti, già noto alla dottrina
germanica e all’esperienza di vari paesi europei,
che oggi in Italia si usa chiamare “partitocrazia” con termine
intenzionalmente spregiativo, o comunque tale da indicare un malcostume o una
degenerazione degli istituti parlamentari. Non possiamo quindi che condividere,
su questo punto la affermazione dell’Esposito: “la nostra Costituzione,
riconoscendo il diritto dei singoli di associarsi in partiti per concorrere a
determinare la politica nazionale, ha in modo implicito, ma chiaro,
riconosciuto la conformità a Costituzione degli interventi dei partiti per
determinare la politica nazionale. In corrispondenza quello che spesso è stato
considerato malcostume e degenerazione degli istituti costituzionali, deve oggi
considerarsi conforme alla legalità costituzionale”.
Se pure in modo non così
aperto ed esplicito, come era nelle intenzioni del proponente e come sarebbe
risultato dal secondo degli articoli da me proposti, deve tuttavia riconoscersi
che l’art. 49 ha dato un fondamento costituzionale al passaggio dal sistema
parlamentare classico al sistema di democrazia di partiti, passaggio che, come
quello che lo ha preceduto dal regime costituzionale tradizionale al regime
parlamentare, avviene in generale non per brusche rotture ma attraverso. una
gradualità di momenti che crea necessariamente situazioni ibride e apparentemente contraddittorie.
Sottolineiamo “apparentemente”, perché la contraddittorietà esiste solo se si
esaminano le situazioni costituzionali da un punto di vista dommatico,
considerandole statiche e immutabili: per chi le veda invece nel loro divenire,
nel loro processo di sviluppo, la contraddittorietà non esiste, perché lo
sviluppo ha una logica, la logica della transizione da una a un’altra fase, e
tende perciò a mettere in sempre più, chiara evidenza gli elementi della nuova
fase in via di progressiva organizzazione.
Solo se si parte da questo
concetto evolutivo e dinamico del significato dell’art. 49 si può intenderne la
reale portata. Come ha notato l’Esposito, questo articolo “apre la via a sempre
più intense forme di partecipazione dei partiti alla vita statale”.
LELIO BASSO
* Da Lelio Basso, Il partito nell’ordinamento
democratico moderno, in Isle, Indagine sul
partito politico. La regolazione legislatjva, tomo
I, Milano, Giuffré, 1966. Leader socialista fra i più autorevoli,
studiosi e teorico del marxismo, giurista,
Lelio Basso è stato uno dei più brillanti protagonisti dell’Assemblea costituente. L’art. 49 della Costituzione sulla
funzione dei partiti politici, venne da
lui proposto e sostenuto fino alla approvazione.
“Il
partito, lungi dal porsi come diaframma che interponendosi fra società e Stato impedisce l’immediatezza della comunicazione,
appare mezzo necessario di azione
della società che si fa Stato non occultando in una fittizia e presunta volontà comune il reale contrasto di interessi,
bensì organizzando tali interessi e mostrando
la loro suscettibilità di porsi a base di sintesi politiche. La sovranità nazionale
appare così non già una unità data,
precostituita, indivisibile, bensì una unità in via di formazione
attraverso un procedimento dialettico di contrasto fra parti contrapposte,
legalizzato nel “metodo democratico”“ (Mortati,
Note introduttive ad uno studio
sui partiti politici nell’ordinamento italiano, in Studi in memoria di V. E. Orlando, Padova, 1957, v. 2, pp. 138-139).
Fu la
dottrina costituzionalistica tedesca
all’epoca della Repubblica di Weimar che, abbandonando le tesi tradizionali
sull’autonomia dei deputati rispetto
al corpo elettorale che lì aveva espressi, sostenne la necessità che in un regime
democratico la volontà delle assemblee parlamentari corrispondesse permanentemente alla volontà politica del
corpo elettorale quale si manifesta attraverso i partiti. Questa esigenza di
una corrispondenza e consonanza permanente fra
eletti ed elettori, l’obbligo cioè per gli eletti di mantenersi fedeli alla volontà politica dei propri elettori (la quale, per
l’art. 49 della nostra Costituzione, si esprime attraverso i partiti), è
implicita anche nella nostra Costituzione. Un concetto analogo esprime anche
uno storico della Repubblica di Weimar: “Una democrazia può veramente
funzionare soltanto se il ritmo della vita parlamentare corrisponde a quello delle altre forze sociali” (Rosenberg, Storia della Repubblica
tedesca, Roma, 1945, p. 15).
“Certo
le decisioni degli organi statali di formazione della volontà politica sono
formalmente decisioni di questi organi [...] in realtà esse sono decisioni dei
partiti che dominano questi organi [...] Conseguenza ne è che gli organi
statali di formazione della volontà perdono il loro peculiare significato
istituzionale” (Hesse, Die verfassungreichliche Stellung der politischen Parteien in modernen Staat, in Die Verfassungsrecht des Verwaltungsverfahrens, Berlin, 1959, p. 24).
“Nelle
condizioni odierne senza l’azione e la mediazione dei partiti non è possibile
ricollegare le correnti politiche che si formano spontaneamente con gli organi
istituzionalizzati della formazione
della volontà politica. Le nuove condizioni strutturali sociali e politiche
hanno fatto sì che quegli impulsi provengano in minima misura ormai dalle
persone singole, ma siano piuttosto espressione dei gruppi sociali organizzati,
delle associazioni, dei partiti politici. Si è creato fra le strutture
direttive dello Stato e il popolo uno “spazio libero precedente la formazione
della volontà politica”, come si è espresso Ulrich Scheuer, in cui ancora non si formulano delle decisioni, ma
dove queste vengono preparate e rese possibili mediante la pubblica discussione
delle diverse correnti” (Leibholz, Der Strukturwandel der modernen Demokratie. Vortrag gehalten in der juristiscben Studelngesellschaft, in Strukturproblem der modernen Demokratie, Karlsruhe,
1958, p. 23).
“In
democrazia la volontà popolare non potrebbe costituirsi nella sfera politica e
rimarrebbe vuota e inefficace se non esistessero delle autorità
rappresentative, non importa come stabilite, mediante le quali la massa delle
diverse volontà individuali possa essere ridotta ad unità per formare una
concreta individualizzata volontà comune. [...l Tutti sappiamo che oggi il
Parlamento non è più in grado di assolvere alle sue funzioni
rappresentative. E non le può assolvere perché la democrazia del XX secolo ha
il carattere di democrazia di partiti” (ibidem, pp. 145-146).
Scrittori politici autorevoli e di parte democratica come il Tocqueville e, da
noi, il Nitti, hanno denunciato apertamente i pericoli di tirannia e di
dispotismo impliciti nel principio maggioritario negandone l’assoluta validità.
E che si tratti semplicemente di una tecnica, e di una tecnica assai
imperfetta, lo conferma il fatto che con il sistema delle maggioranze a catena
può essere profondamente alterato il risultato; il 51% della corrente
maggioritaria di un partito può imporre la propria volontà a tutta la corrente
e, attraverso di essa, a tutto il partito, dove in realtà quel 51% della
corrente è minoritario; se questo poi accade nel partito di maggioranza, può
verificarsi che una minoranza di esso riesca addirittura a trasformare la
propria volontà in volontà statale. Un altro caso in cui una tecnica
formalmente maggioritaria può riuscire ad un risultato opposto è quello di un
corpo elettorale unico diviso in collegi, dove un partito, che sarebbe
minoritario nell’insieme del corpo elettorale, può viceversa riuscire
vittorioso attraverso la somma degli eletti dei singoli collegi. Così è
accaduto negli Stati Uniti che siano stati eletti presidenti della
Confederazione candidati rimasti in minoranza nell’elezione di primo grado ma
che avevano ottenuto la maggioranza dei grandi elettori; così in Inghilterra è
accaduto che il partito conservatore, minoritario nel corpo elettorale rispetto
a quello laburista, abbia cionondimeno ottenuto la maggioranza dei seggi. In
questi casi non è la maggioranza che governa, tuttavia la tecnica ha egualmente
servito ad estrarre una volontà convenzionalmente legittima dal contrasto delle
opinioni.
“L’intera procedura parlamentare, con la sua tecnica dialettico-contraddittoria,
basata su discorsi e repliche, su argomenti e contrargomenti,
tende a venire ad un compromesso. Questo è il vero significato del principio di
maggioranza nella democrazia reale. Tale principio sarebbe comunque meglio
chiamato principio maggioritario-minoritario “.(Kelsen, Democrazia e cultura,
Milano, 1955, pp. 24 e
66). Oggi, con l’ulteriore sviluppo dei
partiti, questo compromesso che,
secondo Kelsen, deve sostituire il
principio maggioritario, è da ricercarsi
non più attraverso la discussione parlamentare
ma in una discussione fra partiti.
“Troppo spesso si disconosce che le decisioni
autenticamente, democratiche non
sono quelle fondate sulla volontà della sola maggioranza, ma sono un
compromesso fra maggioranza e
minoranza. Nelle organizzazioni molto vaste tale compromesso è più difficile da raggiungere; questo perciò non va ricercato a livello dello Stato e delle istituzioni statali,
bersi nello spazio prestatale. In questo spazio politico prestatale i principali protagonisti sono i partiti”.
Virga, Il partito politico nell’ordinamento giuridico, Milano, 1948, pp. 273-274 (Heydte u. Sacherl, Soziologie des deutschen Parteien, München 1955, p. 69).
Cfr. Basso, Natura e funzioni dell’opposizione nell’ordinamento costituzionale
italiano, in Studi sulla Costituzione, II, Milano,
195$, pp. 375-391.
Si veda
anche Esposito: “Insomma la Costituzione vuole che
anche il cittadino che non ha votato per i partiti di maggioranza, e che è legato a partiti e deputati in minoranza, possa concorrere
attraverso i suoi deputati di minoranza ed il suo partito alla determinazione dell’indirizzo politico del
paese e vuole che il governo, pur godendo
della fiducia particolare di determinati
gruppi e partiti, non sia il governo
di quei soli gruppi, o di quei soli partiti, ma fin dove è possibile di tutti i gruppi e partiti” (Intervento al
convegno dei giuristi cattolici in I
partiti politici nello Stato democratico, p. 70). Analogamente il leader della socialdemocrazia
tedesca Schumacher, “Lo Stato non consiste solo nel
governo e neppure solo
nell’opposizione; esso consiste nel
governo e nell’opposizione” (Turmwächter der Demokratie, 2, Berlin, 1953, p. 217).
Il testo dei due articoli da me proposti era il seguente: “1. Tutti i cittadini
hanno diritto di organizzarsi liberamente e democraticamente in partito
politico, allo scopo di concorrere alla determinazione
della politica del paese. 2. Ai partiti
politici, che nelle votazioni pubbliche abbiano raccolto non meno di 500.000
voti, sono riconosciute, sino a nuove votazioni, attribuzioni di carattere
costituzionale a norma di questa Costituzione, delle leggi elettorali e sulla stampa, e di altre leggi”.
12 Il sistema elettorale nella Costituzione italiana, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1952, IV, p. 856.
“La
relazione Stato-partito va colta nei suoi termini
originari. L’art. 49 esprime un principio
fondamentale non solo nel settore dei rapporti politici ma anche in ordine alla
stessa organizzazione dell’ordinamento. Riferire ai partiti politici il
potere di determinare la politica nazionale è disposizione che investe nei suoi fondamenti la tradizionale
distribuzione del potere politico nell’organizzazione dello Stato moderno. [...] I partiti sono assunti ed elevati a centri nevralgici e determinanti della direzione politica
dell’ordinamento. Vi è un procedimento di determinazione politica nell’ambito
della stessa comunità le cui fasi e i cui fini sono svolti dai partiti. L’organizzazione
politica dello Stato, che dalla comunità
deriva ed è formata, ne risulta necessariamente condizionata. Ed è questo il significato e il rilievo dell’art. 49:
questo non presuppone una organizzazione politica dello Stato già costituita e
valida, ma ne concerne e vincola la
stessa formazione” (Sica, Le associazioni
nella Costituzione italiana, Napoli, 1961,
pp. 104105).
Orlando, Sui partiti politici. Saggio di una sistemazione scientifica e metodica, in Scritti
di sociologia e politica in onore di Luigi Sturzo, II, Bologna 1953, p. 606.
“Ora, se
si considera l’ampiezza del campo che la nostra Costituzione apre ai partiti,
legittimandone l’azione, non si può non rilevare l’alterazione che il loro intervento -determina nel tradizionale
funzionamento degli organi dello Stato.
Anche a
questo proposito occorre tuttavia tener presente il rilievo da altri già fatto,
che la norma dell’art. 49 è stata emanata dai costituenti conoscendo i poteri di fatto conquistati dai partiti e l’influenza da
essi esercitata; quella norma ha così reso conforme a
Costituzione i loro interventi per determinare la politica nazionale” (Carraro, Organizzazione ed azione dei
partiti nell’ordinamento dello Stato, in I partiti politici e lo Stato democratico, Roma,
1959, p. 42).
Accanto alla dottrina germanica
del Parteienstaat si
veda per la Francia lo studio di Pascal Arrighi, Le statut des partis, Paris,
1948; che lo chiama Etat par
titaire, distinguendolo dall’Etat libéral
individualista e dall’Etat partisan totalitario.
Esposito, op. cit., p. 231.
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