I
PROLETARI IN COLLETTO BIANCO
“…Nessun dubbio quindi che Parigi ha
vissuto in questi giorni una vicenda rivoluzionaria, sia perché tutto il corpo
sociale era entrato in movimento, sia perché il cemento che univa tutte le
categorie in lotta era una contestazione del principio dell’autorità e del
potere...”
“Ci saranno necessari anni ed anni per comprendere
quello che è accaduto”, ha scritto Edgar Morin nel Monde del 6 giugno: questo vale ancora di
più per chi, come noi non ha avuto degli avvenimenti francesi neppure la
visione diretta, ma soltanto l’eco attraverso la stampa. E tuttavia è nostro
dovere di politici cercare di capire, scusandoci preventivamente con i lettori
per tutto quello che di erroneo o di approssimativo troveranno nella nostra
interpretazione.
Poiché il primo dato certo è che la iniziativa
della “rivoluzione di maggio” è partita dagli studenti, cerchiamo di capire in
quale misura il movimento studentesco possa essere considerato un movimento
rivoluzionario, e a questo fine cerchiamo di sbarazzarci degli schemi
tradizionali per vedere quel che ci può essere di nuovo nelle attuali
agitazioni studentesche rispetto a quelle del passato. In primo luogo, è
cambiato il ruolo dell’università nella società contemporanea. Certo, anche in
passato l’insegnamento universitario era finalizzato agli interessi della
classe dominante, ma il rapporto era più indiretto, meno visibile, e le
professioni liberali lasciavano almeno l’apparenza dell’indipendenza e della
libertà individuali. Ma a misura che si sviluppa la società industriale,
insegnamento e ricerca sono sempre più subordinati alle esigenze della
produzione; anzi, poiché la conoscenza scientifica è un fattore essenziale
dello sviluppo, si può dire che l’università rientri oggi nel novero delle
“forze di produzione”. “Se è vero che la conoscenza e il progresso tecnico sono
i motori della società nuova, come l’accumulazione del capitale fu quello della
società precedente, la università non occupa forse il posto che fu quello della
grande impresa capitalistica e il movimento studentesco non ha, in principio,
la stessa importanza del movimento operaio dell’epoca precedente?”, ha scritto Alain Touraine ancor prima della
“rivoluzione di maggio”.
Il mutamento del ruolo dell’università ha inciso
naturalmente anche sul destino futuro degli studenti. In passato gli studenti
universitari potevano esser considerati una minoranza privilegiata destinata a
diventare la élite dirigente del paese. Ma con il rapido aumento del numero si
ha anche un mutamento di qualità: non più una élite ma una massa, non più
destinata a funzioni dirigenti ma semplicemente al ruolo di quadri intermedi,
di ingranaggi in altre parole, della società industriale organizzata, ai cui
fini viene progressivamente subordinandosi l’università. La rivolta degli
studenti è essenzialmente la rivolta contro questo destino di “ingranaggi” che
li attende, contro la mortificazione della personalità, contro l’impossibilità
di seguire la propria vocazione, di esercitare un ruolo attivo di essere
compiutamente se stessi. “Proletario - diceva una grande scritta tracciata a
mano sulle mura della Sorbona - è colui che non
riesce a scegliere l’impiego della propria vita”.
La rivolta dei futuri proletari
Qui giuoca un ruolo anche
l’età giovanile, pure a proposito della quale dobbiamo saper cogliere quel che
c’è di nuovo nella rivolta della giovane generazione rispetto ai conflitti
tradizionali fra padri e figli che ci sono sempre stati. È naturale che una
nuova generazione guardi il mondo con occhi nuovi, ma se il mondo a cui si apre
è più o meno lo stesso di quello che ha visto la formazione dei genitori, lo
scarto fra le due generazioni non sarà grave e le incomprensioni saranno più
facili a superarsi. Ma la novità del nostro tempo è che oggi la tecnica
invecchia più rapidamente degli uomini, sicché nel giro di una generazione
tutto è destinato a cambiare, compresi i modi di pensare. È naturale quindi che
ad ogni nuova generazione il ritmo con cui si trasformano governi e istituzioni
appaia sempre troppo lento e le gerontocrazie che ne sono responsabili appaiono
ogni giorno più insopportabili. Ora l’università è un tipico esempio di queste
contraddizioni: mentre la scienza fa progressi enormi e rapidissimi, le
istituzioni universitarie (almeno in Francia e in Italia) sono sclerotiche e
rette il più spesso da una gerontocrazia inamovibile ancorata a schemi ultrasuperati nei suoi rapporti con la massa studentesca.
Sicché su ogni problema v’è motivo di scontro: dai rapporti fra i sessi nei
collegi universitari ai metodi d’insegnamento o d’esame, dall’autoritarismo dei
“grandi maestri” alla carenza di aule o di attrezzature scientifiche, dal
ritardo a introdurre nuove discipline all’arcaico ordinamento di alcune
professioni.
Ma in ognuno di questi problemi - che presi singolarmente
potrebbero apparire problemi corporativi - è insita la contraddizione
fondamentale di questa società e lo scontro su un qualsiasi aspetto della vita
universitaria può portare ad uno scontro sui fondamentali problemi
dell’organizzazione sociale. E ciò è tanto più facile perché si tratta ormai di
una massa studentesca numerosa, dove la discussione, il confronto delle
situazioni, e, quindi le prese di coscienza di carattere generale sono più
facili, e dove la presenza anche di piccoli gruppi politicizzati agisce da
stimolo per un processo di maturazione.
Possiamo quindi concludere che la rivolta
studentesca, in Francia come altrove, rientra perfettamente nel quadro della
ribellione delle forze produttive ai rapporti di produzione: è la ribellione di
futuri proletari, sia pure in colletto bianco, non tanto alla società del
consumo quanto alla società d’organizzazione e tutto ciò che è apparato,
burocrazia, macchina, autoritarismo o tutto ciò che spersonalizza l’uomo e lo
riduce appunto a ingranaggio. Questa rivolta ha fatto rapidi progressi nel
mondo anche in conseguenza della guerra del Vietnam: il fatto che un popolo di
contadini poveri abbia sconfitto sul terreno la più grande potenza militare del
mondo, che la volontà di difendere la propria libertà abbia avuto ragione delle
tecniche più moderne, delle armi più micidiali, dei calcolatori elettronici, ha
rovesciato tutta la logica della società industriale occidentale e ha scosso
dalle fondamenta la piramide gerarchica alla cui sommità stava l’imperialismo
americano. È in gran parte grazie alle vittorie del popolo vietnamita che i
dogmi e le autorità tradizionali sono entrati in crisi dappertutto: l’autorità
dell’uomo bianco sulla gente di colore, dei professori sugli studenti, dei
padroni sugli operai, dei genitori sui figli, della chiesa sui fedeli, persino
la autorità del dollaro che era il dio del capitalismo.
È in questo clima di generale crisi del principio
d’autorità che nasce la rivolta studentesca, come primo atto di una nuova
manifestazione del processo rivoluzionario nelle società capitalistiche
avanzate e organizzate, una manifestazione che mira al cuore delle società
capitalistiche e burocratizzate, perché vuol fare degli studenti (che son
destinati a diventare una percentuale sempre più alta della popolazione) dei
protagonisti prima della propria formazione culturale e poi del proprio ruolo
nella società, anziché dei semplici ingranaggi di una macchina che li comanda e
a cui bisogna soltanto ubbidire.
L’incontro studenti-operai
Ma poiché si tratta del primo atto di una nuova
manifestazione del processo rivoluzionario, è comprensibile ch’esso assuma
delle forme che in qualche modo ricordano le prime manifestazioni del movimento
operaio: uno spirito luddistico di distruzione, un
ribellismo un po’ anarchico, un certo grado di utopismo nelle sue prese di
posizione, una relativa confusione ideologica, ciò che rende più difficile i
suoi rapporti con le organizzazioni istituzionalizzate del movimento operaio.
Questa difficoltà è apparsa chiarissima in Francia, dove di fronte al dilagare
del movimento studentesco, la Federazione e la socialdemocrazia si sono
manifestate inesistenti, mentre PCF e CGT hanno assunto un atteggiamento
critico e hanno cercato di porre ostacoli all’incontro tra movimento studentesco
e movimento operaio. E tuttavia l’incontro c’è stato, in una forma spontanea,
che ha travolto le resistenze e le parole d’ordine delle organizzazioni
politiche e sindacali della sinistra tradizionale. È difficile analizzare oggi
con chiarezza le ragioni che hanno determinato questo incontro, che era temuto
tanto dal potere gollista quanto dall’opposizione, ma possiamo cercare di
individuare alcuni elementi. In primo luogo l’incontro è stato favorito dalle
giovani leve operaie, che hanno in larga misura gli stessi problemi delle
giovani generazioni studentesche e quindi anche reazioni analoghe. Anche per
gli operai non mancavano in Francia motivi particolari di scontento, dai salari
alla disoccupazione crescente, dalle assicurazioni sociali alla condizione
operaia nella fabbrica. Ma questi motivi particolari esistevano da tempo e
tuttavia non avevano dato luogo e probabilmente non avrebbero dato luogo ad un
movimento così vasto - più vasto ancora di quello del 1936 - se non ci fosse
stata l’audace rivolta studentesca contro il potere e contro la società.
È stato su questo terreno che il movimento operaio
si è saldato con quello studentesco; tutti i motivi di scontento sono
precipitati e si sono fusi in un motivo di lotta contro il potere e contro
l’organizzazione sociale autoritaria. Ne troviamo conferma nel fatto che le
prime fabbriche scese in lotta sono fabbriche a salari alti come la Sud-Aviation e la Renault, dove
meno gravi erano i problemi salariali e più acuti quelli del potere, che alla Sud-Aviation è stato sequestrato il direttore come simbolo
dell’autorità che veniva contestata, che la stessa rottura della legalità
borghese (occupazione della fabbrica e sequestro della direzione) non è un’arma
che s’impieghi per questioni sindacali ma proprio per contestare il principio
dell’autorità borghese fondata sulla proprietà privata, che le prime parole
d’ordine lanciate spontaneamente erano parole d’ordine relative a problemi di
gestione, di libertà, di potere (gli operai della fabbrica Berliet
di Lione hanno anagrammato il nome e scritto con le stesse lettere “liberté”), che il personale del Parisien
libéré ha impedito una mattina l’uscita del
giornale perché contestava il diritto della direzione di usare il giornale per
dare al pubblico false informazioni, e che il personale dell’ORTF si è messo in
sciopero per affermare il proprio diritto-dovere di dire la verità senza i
controlli e le falsificazioni governative.
Nessun dubbio quindi che Parigi ha vissuto in quei
giorni una vicenda rivoluzionaria, sia perché tutto il corpo sociale era
entrato in movimento (non solo cioè università e fabbriche, ma il teatro, la
TV, il giornalismo, il mondo dell’arte, e in parte anche le campagne), sia
perché il cemento che univa tutte le categorie sociali in lotta era una contestazione
del principio d’autorità e del potere, in nome di un diritto di tutti di
partecipare alle decisioni che ci riguardano, diritto che non può essere certo
soddisfatto dalla democrazia formale grazie alla quale, se le cose vanno bene,
possiamo tutt’al più non decidere noi ma scegliere coloro che decideranno per
noi, i quali peraltro sono spesso inseriti in organismi che li condizionano
perché sono alla lor volta condizionati dal sistema
(come sono gli stessi partiti d’opposizione e le stesse organizzazioni
sindacali che si muovono di necessità sul terreno della realtà esistente).
Gli schemi della sinistra
È impossibile dire oggi, soprattutto allo stato
della nostra informazione, se quel principio di rivoluzione avrebbe potuto, con
maggior audacia, sboccare in una vittoria se non contro il capitalismo, almeno
contro il potere gollista. Che l’ipotesi non sia campata in aria lo ha provato
in modo indiscutibile lo stesso atteggiamento di De Gaulle e di Pompidou nei giorni della crisi. In seno al PCF e alla CGT
vi sono state manifestazioni di aperto dissenso contro l’atteggiamento di
queste organizzazioni che si sono sforzate di frenare le possibilità
rivoluzionarie e di avviare la lotta sui binari della legalità. Se anche è
comprensibile che esse non volessero essere a rimorchio di un movimento che non
controllavano, e nel quale affioravano indubbiamente anche forme di ribellismo
anarchico è certo che cercando di separare la lotta degli operai da quella
degli studenti e dando ai primi delle parole d’ordine soltanto rivendicative,
sono venute obiettivamente a coincidere con gli analoghi tentativi del potere.
Comunque solo più tardi sarà possibile dare un giudizio più equanime su
avvenimenti la cui stessa novità esige una più meditata riflessione.
Credo tuttavia che alcune conclusioni provvisorie
si possano trarre. In primo luogo è smentita la teoria che nel mondo
capitalistico organizzato l’integrazione e la depoliticizzazione
rendano ormai impossibile ogni movimento rivoluzionario: le contraddizioni
capitalistiche sono più che mai operanti, in particolare quella fra forza
produttiva e rapporti di produzione, cioè la lotta delle forze produttive per
il potere. In secondo luogo anche la teoria delle campagne che devono assediare
la città riceve una smentita dal fatto che ancora una volta la spinta
rivoluzionaria viene da una grande città industriale. Infine è certo che i
partiti della sinistra tradizionale (non soltanto in Francia ma in tutto
l’occidente) sono ancora prigionieri di schemi che rendono ad essi difficile la
comprensione di quel che si muove nel mondo capitalistico moderno e hanno
perciò bisogno di aggiornarsi rapidamente per mettersi in grado di usare contro
il capitalismo le armi che lo stesso capitalismo prepara nel suo processo di
sviluppo.
Sulle prospettive future è difficile fare
previsioni: l’opinione generale è che De Gaulle sarà vincente alle prossime
elezioni. Ma io vedo pericoli al di là di queste elezioni perché in generale le
rivoluzioni minacciate e poi rientrate provocano ondate di ritorno reazionario
molto gravi. La vittoria del fronte popolare spagnolo del ‘34 ha provocato due
anni dopo la rivolta di Franco; il fronte popolare francese del ‘36 ha
provocato l’offensiva reazionaria sboccata nel regime di Vichy. In Italia la
mancata rivoluzione del primo dopoguerra ha favorito la vittoria fascista, e la
grande paura degli industriali dopo la caduta del fascismo ci ha dato il 18
aprile 1948 e vent’anni di regime democristiano. Oggi De Gaulle, forte di
queste esperienze, vuole appunto creare il “partito della paura”, una
coalizione di forze reazionarie che sogna la grande rivincita. La sinistra
francese, e non solo quella francese, devono restare vigilanti.
LELIO
BASSO