LA POLITICA DEI CETI MEDI
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“AVANTI!”
La Politica dei Ceti Medi
Quando si parla di “ceti medi” e di “classi medie”,
è d’uopo premettere una chiarificazione, perché questa espressione estremamente
vaga si presta a molteplici confusioni ed è stata sempre usata con molti
significati diversi. Ma qualunque definizione si adotti, ne risulta poi sempre
un coacervo di categorie sociali così diverse, sia per le funzioni economiche
svolte che per gli interessi pratici, da potersi difficilmente ridurre ad
unità. Vediamo ad ogni modo fin dove questo è possibile.
Già storicamente l’espressione è stata usata in
sensi diversi e vorrei dire contraddittori: Proudhon, Leroux, lo stesso Marx
designano quali “ceti medi” sia la borghesia industriale in lotta contro
l’aristocrazia feudale per l’affermazione del proprio dominio capitalistico,
sia la piccola borghesia artigianale, che contro quel dominio capitalistico
reagiva e si difendeva. Ed è naturale che così fosse in un periodo di
trasformazioni sociali, in cui il ruolo di classe dominante passava
dall’aristocrazia feudale alla borghesia industriale col correlativo formarsi
di un vasto proletariato, per cui anche la qualifica di “classe media” veniva
necessariamente a spostarsi. Nel Manifesto dei comunisti, Marx così enumera le
categorie che compongono la classe media: “il piccolo industriale, il piccolo
negoziante, l’artigiano e il contadino piccolo possidente”: abbiamo qui solo
un’enumerazione di professioni, di cui il tratto comune è esclusivamente quello
di non rientrare né nella classe capitalistica, né in quella proletaria.
Ma quale elemento sceglieremo per giudicare in
genere di questa non appartenenza: la quantità o la natura del reddito, il
tenore di vita o altro?
Caratteristica fondamentale
Simiamd, che fu tra i più attenti studiosi delle
classi medie, così le definisce (Cours d’Economie Politique, vol. 1928-29, p. 1707): “una categoria stabile di persone
considerate con la loro famiglia, che hanno redditi e spesso anche un
patrimonio di livello medio, intermediario tra quello della classe sociale più
elevata e quello dei lavoratori e dei salariati. Essa si riferisce piuttosto a
categorie di popolazione urbana, e specialmente di piccole città. Essa
comprende l’alto artigianato, i piccoli, medi commercianti e industriali, una
parte delle professioni liberali, i funzionari medi”. Ma non è chi non veda
come sia imprecisa una siffatta definizione, basata su un elemento estremamente
fluttuante, quale è l’entità del reddito, esposto a continue oscillazioni, per cui
p. es. un modesto redditiero, che sicuramente appartiene ai ceti medi, per i
suoi interessi e la sua mentalità, dovrebbe invece ascriversi al proletariato,
se il suo reddito, specialmente in un momento di inflazione, scende al disotto
del salario di un operaio specializzato.
Tralasciando altre definizioni puramente
estrinseche, come quella di Halbwachs, che trova la caratteristica
differenziale nel fatto di lavorare anziché sulla materia inerte, come gli
operai, o sugli uomini considerati nella loro personalità come i borghesi
sull’umanità considerata nelle sue manifestazioni prevalentemente meccaniche
materiali (Caractéristiques des classes moyennes, in Inventaires -III -Classes moyennes, Alcan, Paris, 1939, pag. 28 e segg., 7), ci sembra assai
più aderente alla realtà sociale la definizione del Mondolfo (Il problema
delle classi medie, La Giustizia, Milano, 1925, pagg. 18-19): “Se per
classe capitalistica in genere s’intenda quella dei detentori dei mezzi di
produzione di scambio, che restano componenti della classe in quanto conservino
il possesso e il dominio di questi mezzi, per la cui messa in opera debbono
impiegare il lavoro dei salariati e di stipendiati; se per classe proletaria in
genere s’intenda quella costituita di quanti dispongano essenzialmente della
naturale forza di lavoro da vendere giornalmente o mensilmente per salario ai
detentori dei mezzi di produzione e di scambio; allora sarà classe media in
genere quella i cui componenti compiano (come il proletariato) direttamente il
lavoro proprio per le necessità della sussistenza, e insieme dispongano (come
la borghesia) oltre che nella naturale capacità o forza di lavoro, anche di un
certo corredo di capitale, necessario appunto per poter esercitare la propria
attività economica e funzione sociale. Questo capitale può essere rappresentato
- e qui comincia ad apparire il differenziamento fra i vari ceti medi - in
certi gruppi da mezzi di produzione o di scambio: nei piccoli proprietari
agricoli dal possesso della terra e di un capitale mobile; negli affittuari e
nei mezzadri dal possesso o semplice partecipazione alla proprietà del capitale
mobile di scorte vive o morte (bestiame, foraggi, attrezzi, ecc.) necessarie
alla conduzione dell’azienda agricola; negli esercenti e negli artigiani possesso
di tutto l’arredamento di generi o di attrezzi e di prodotti compiuti, che
costituisce la bottega o il negozio o l’officina. In altri gruppi invece quel
capitale è rappresentato da un caratteristico immagazzinamento personale di
mezzi di produzione, che è costituito dalla lunga e laboriosa preparazione
tecnica all’esercizio di professioni che richiedano un diuturno e costoso
corredo di studi”.
Infinita essendo la molteplicità degli aspetti
della vita sociale, è ovvio che nessuna definizione e neppur questa, racchiuda
tutti i casi possibili; ma essa ci sembra preferibile ad altre in quanto mette
veramente l’accento su quella che è la fondamentale caratteristica storica dei
ceti medi: l’indipendenza, o meglio l’aspirazione all’indipendenza, derivi essa
dal possesso di un pezzo di terra o di una modesta azienda, da qualche cartella
di rendita o da capacità professionali. E se noi esaminiamo storicamente la
politica dei ceti medi, noi troviamo che la difesa di questa indipendenza, e
più generalmente delle condizioni economiche e sociali, che tale indipendenza
garantiscono, è stata ed è tuttora la preoccupazione principale dei ceti medi.
Nel già citato volume “Classes moyennes” , così Robert Marjoljn definisce il
ruolo delle classi medie negli Stati Uniti: “In una parola, negli Stati Uniti,
e forse altrove, la classe media è un gruppo sociale che si definisce per lo
sforzo di mantenere un’indipendenza minacciata senza tregua. Intermediaria tra
un proletariato senza potenza né autonomia (fintanto almeno che il sindacalismo
non ne fa una forza che mira essa stessa al monopolio), e un grande capitalismo
che tende alla dominazione esclusiva, essa si definisce per il suo scopo:
resistere al secondo per non essere ridotta al rango del primo”.
Previsione marxista
Se questa è veramente la fondamentale
caratteristica dei ceti medi, poi possiamo apprezzare assai meglio la tanto
combattuta previsione marxista relativa alla sparizione dei ceti medi, così
spesso citata dagli avversari del marxismo per confutare tutta la costruzione
storica del Manifesto, fino alla lotta finale delle due classi antagoniste:
proletariato e borghesia. Se i ceti medi, lungi dallo sparire, sono anzi
cresciuti di numero, così si argomenta, è chiaro che anziché verso una
radicalizzazione della lotta di classe si va verso un’attenuazione di essa,
verso soluzioni intermedie, verso quella “terza via” che gli utopisti e i
sognatori della piccola borghesia hanno sempre cercato e che ancor oggi ci
viene presentata, vuoi sotto forma di fascismo o di socialismo liberale, vuoi
per bocca di Hitler o per bocca di Thomas Mann, come la formula magica
destinata a dirimere i contrasti sociali. In realtà, chi ben consideri la
storia dei ceti medi in quest’ultimo secolo, vedrà che se numericamente sono
aumentati coloro che la comune opinione ascrive ai ceti medi, ne è però
fondamentalmente mutata la struttura sociale. E precisamente, mentre quei ceti
medi, cui particolarmente si riferiva Carlo Marx, e cioè gli artigiani, i
piccoli commercianti, ecc., sono diminuiti di numero relativamente alla
composizione totale della popolazione, mentre altre categorie di ceti medi
indipendenti, come per es. i professionisti sono aumentati, a seconda dei
paesi; in proporzione non molto dissimile dall’incremento naturale della
popolazione, si è invece sensibilmente sviluppata la categoria dei funzionari
pubblici e soprattutto privati, degli impiegati cioè dell’industria e del
commercio, categoria che all’epoca del Manifesto era quasi inesistente, Ma è
evidente che se gli impiegati, per tradizione di famiglia, spesso per grado di
coltura, per abitudini di vita e anche per considerazione sociale, fanno parte
delle classi medie, essi, nella stragrande maggioranza, ne hanno perduto
appunto la caratteristica distintiva, che è precisamente l’indipendenza. La
quale, se può riconoscersi ancora a un direttore di impresa o di altri
impiegati di grado elevato, che, per le loro speciali capacità tecniche, siano
sicuri di poter sempre trovare un’occupazione, non può certo riconoscersi alla
grande massa degli impiegati, che si trovano oggi, rispetto al datore di lavoro
in una condizione di soggezione analoga a quella dell’operaio.
Non solo, ma anche in quegli altri componenti dei
ceti medi che, pur conservano la loro indipendenza, questa è sempre più minacciata
o addirittura ridotta ad una lustra: cosi per i medici, sopraffatti
dall’apparire e dall’estendersi delle mutue, così per gli avvocati che vedono
ogni giorno più, ridotto il campo della libera professione, cosi per molti
artigiani e professionisti in genere, che sovente lavorano per un solo cliente,
una grande impresa o sono alla mercé di un solo fornitore, un trust, e ne sono
quindi praticamente dipendenti.
Ma c’è dell’altro ancora. Quella poca indipendenza
che resta effettiva a certe categorie di ceti medi, in particolare a certi
piccoli imprenditori o commercianti o agricoltori, ha, comparativamente,
un’importanza sempre minore nel quadro complessivo dell’attività sociale, di
fronte all’enorme incremento e allo strapotere dei trust, dei cartelli, delle
grandi imprese più o meno monopolistiche.
In questo senso quindi si può parlare di una
progressiva eliminazione dei ceti medi, che dall’avanscena della storia vengono
spinti sempre più verso posizioni secondarie, dall’indipendenza economica e
spirituale verso l’uniformità e l’anonimato, dal geloso individualismo verso
l’adesione più o meno forzata a forme di produzione, di vita, di pensiero
collettivistiche e sociali.
È la loro funzione sociale insomma che perde
gradualmente importanza e passa sempre più in secondo piano, fino a sparire,
almeno parzialmente, come funzione sociale indipendente, ed essere assorbita
nel processo produttivo capitalistico, immettendoli così in definitiva e
costringendoli a prendere parte per la grande borghesia capitalistica o per il
proletariato. Fra i due grandi attori della moderna lotta delle classi, la
funzione autonoma e mediatrice dei ceti medi impallidisce sempre più e tende a
sparire. Intendere a tempo questo processo storico sarebbe per i ceti medi una
prova di maturità politica assai superiore all’anacronistica pretesa di far
risorgere modi di pensare e forme politiche irrimediabilmente sepolti dalla
storia.
Robespierre, grande alfiere
Forza motrice principale della Rivoluzione Francese
furono questi ceti medi, in un’epoca in cui il proletariato appena spuntava ed
il grande capitale avrebbe volentieri accettato un compromesso con le potenze
tradizionali; e il loro grande alfiere fu Robespierre, che sognò di instaurare
con la ghigliottina il regno dell’eguaglianza, della giustizia, della virtù e
della felicità comune. Fu contro questa democrazia di ceti medi che i
capitalisti, gli arricchiti delle forniture di guerra, i funzionari corrotti e
concussionari, tutti i profittatori insomma della Rivoluzione, ingaggiarono e vinsero
la battaglia del Termidoro.
Abbattuta con Robespierre, la democrazia dei ceti
medi combatté tuttavia ancora con Napoleone su tutti i campi di battaglia di
Europa in nome degli ideali della Rivoluzione, congiurò contro le forze della
Santa Alleanza, guidò il popolo sulle barricate di Parigi contro Luigi Filippo,
morì sugli spalti della Repubblica Romana, si entusiasmò per Garibaldi. Il suo
ideale supremo era l’eguaglianza, la sua rivendicazione pratica, il suffragio
universale, i suoi grandi apostoli Jefferson in America, Ledru-Rollin e Mazzini
in Europa. Nel 1848 essa diede la sua grande battaglia e fece scricchiolare
tutto l’edificio della Santa Alleanza, ma le forze della reazione ebbero il
sopravvento e i medi ceti francesi, che di quella democrazia rivoluzionaria
erano stati gli antesignani e i maestri, non seppero trovare altro rimedio alla
sconfitta che dare quasi sei milioni di liberi voti al terzo Napoleone,
inaugurando così quel fascismo avanti lettera che fu il bonapartismo.
In questo mezzo secolo di lotte i ceti medi
rappresentarono indubbiamente in Europa una forza progressista. Lottando contro
le monarchie assolute e contro le sopravvivenze feudali, agitando il mito
dell’eguaglianza, rivendicando il suffragio universale, che di quella eguaglianza
avrebbe dovuto essere lo strumento di realizzazione, essi furono più di una
volta all’avanguardia nel duro cammino della storia. E per un altro verso anche
svolsero una funzione utile e progressiva: aiutando il risveglio degli operai,
dei proletari, sia pure per farsene degli alleati a proprio profitto, ma
intanto contribuendo a creare e a sviluppare in essi coscienza di sé. Non per
nulla il Manifesto di Marx invitava i comunisti e i proletari a combattere a
fianco della democrazia francese di Ledru-Rollin contro le forze di
conservazione pur senza rinunziare al “diritto di serbare un contegno affatto
critico di fronte alle frasi e alle illusioni che in quel partito derivano
dalla tradizione rivoluzionaria”. Ma per la Germania e lo stesso Manifesto prevedeva
invece un’alleanza del proletariato con la borghesia rivoluzionaria contro i
piccoli borghesi, supposti alleati del feudalesimo. E nell’enunciazione delle
forme superate di socialismo, fatta dallo stesso Manifesto, il socialismo
piccolo-borghese veniva posto a fianco del socialismo feudale tra le forme di
socialismo reazionario, così come nel primo capitolo del Manifesto i ceti medi
sono considerati nel loro complesso come dei reazionari che “provano a far
girare indietro la ruota della storia”.
Gli è che quei ceti medi i quali, specie dove
avevano raggiunto una certa maturità politica e un certo grado di sicurezza,
rivendicavano appunto eguaglianza politica e suffragio universale e
combattevano contro il privilegio, erano però al tempo stesso i nemici della
grande impresa capitalistica che dappertutto andava sviluppandosi o anche
soltanto sorgendo e che ai medi ceti appariva non ingiustamente come una
pericolosa minaccia contro la loro indipendenza economica e spirituale, dove
addirittura non stava già di fatto schiacciandoli.
Di fronte a queste nuove forme di produzione,
diverso fu l’atteggiamento di Marx e Engels, e quello dei corifei dei ceti
medi. Mentre i primi difatti vedevano nel crescente sviluppo capitalistico e
nel conseguente incremento del proletariato le condizioni per la sua
emancipazione, e auspicavano un sempre maggior concentramento delle imprese e
un sempre più rapido progresso delle forme capitalistiche di produzione, tutti
gli utopisti e i profeti dei ceti medi, Mazzini in testa, denunciavano il
capitalismo come mostruoso e inumano, e auspicavano cooperative, piccole
imprese, associazioni di capitale e lavoro, quando addirittura non sognavano
nostalgici ritorni alle antiche corporazioni artigianali.
Sempre più deboli economicamente, sempre più
minacciati nella loro indipendenza, senza una intima coscienza e solidarietà di
classe, i ceti medi volevano però la loro rivincita sul terreno politico, sul
terreno del suffragio universale, dove solo contava il numero e non la
ricchezza e la potenza economica. E del suffragio universale, dove lo
ottenevano, e comunque della loro forza numerica e politica, essi si servivano
per sollecitare interventi e ottenere aiuti dallo Stato, alleandosi talvolta
alle forze del vecchio mondo e ai parassiti retrivi, incapaci com’erano di
provvedere da sé alla propria difesa contro il dilagare delle forze
capitalistiche.
Per questo, dopo la grande sconfitta del 1848, la
loro importanza come forza propulsiva e rivoluzionaria, declinò rapidamente. I
loro capi, da Ledru-Rollin a Louis Blanc, da Mazzini a Ruge, sopravvissero a se
stessi. In Italia il partito d’azione, che ne continuava la tradizione, finì
ingloriosamente. Nei paesi industrialmente più progrediti, dove le ricchezze
prodotte dallo sviluppo capitalistico si diffondevano anche in questi strati
della popolazione, al primo periodo di squilibri e di lotte veniva rapidamente
subentrando un nuovo equilibrio, un compromesso tra il grande capitalismo ormai
sicuro dominatore e la frazione più importante di questi ceti medi, compromesso
che salvaguardava quello che rimaneva della loro posizione sociale indipendente
e al tempo stesso li faceva indirettamente partecipi dei benefici della
gestione capitalistica, sotto forma di più alti redditi, di sicurezza, di stabilità.
Questo compromesso si chiamò democrazia liberale e si diffuse, prima della
guerra mondiale, in tutti i paesi capitalistici, favorito da un periodo di
generale prosperità.
Il socialismo della Seconda Internazionale
A parte qualche sprazzo di democrazia vecchio
stile, come da noi la democrazia cavallottiana, restava sempre agli oppositori
il partito socialista.
Il socialismo della Seconda Internazionale fu
appunto la palestra dei piccolo-borghesi insoddisfatti e desiderosi di
arrivare. L’elevazione del proletariato fu l’arma di cui si servirono, quasi
sempre in buona fede, questi medi ceti, che volevano combattere il predominio
capitalistico, avvocati, insegnanti, medici, farmacisti, impiegati, funzionari,
ecc., che, attraverso l’estensione del suffragio, conquistavano per sé nuovi
posti in Parlamento o nelle pubbliche amministrazioni e si illudevano di
infrenare per questa via la marcia del capitalismo. In Italia il loro ministro
si chiamò Giolitti anche se formalmente il Partito Socialista fu quasi sempre
all’opposizione contro di lui, quel Giolitti che diede appunto il suffragio
universale e introdusse il monopolio delle assicurazioni, quello stesso
Giolitti che dopo la guerra fece approvare la nominatività dei titoli, la
confisca dei sopraprofitti di guerra ed il controllo operaio delle industrie.
Ma Giolitti - tipica espressione di compromesso
burocratico - era anche, prima di tutto, il ministro della democrazia liberale,
il ministro che favoriva lo sviluppo del capitalismo e promuoveva l’espansione
dell’Italia (guerra di Libia). In realtà, da noi come nel resto d’Europa, il
socialismo - il socialismo della Seconda Internazionale, figlio spurio del
marxismo, di cui si era appropriato solo una vuota fraseologia, e della
democrazia dei ceti medi di cui aspirava ad essere l’erede - nonostante
l’apparente radicalismo kautskyano, era un oppositore addomesticato in
Parlamento, e un collaboratore nel vasto complesso della vita sociale.
Sicché la minoranza più vivace e ardimentosa dei
Ceti medi, quella che meno era disposta ad accettare il ruolo sempre più
modesto che le spettava sulla scena della storia e che soffriva della continua
minaccia alla propria indipendenza, quella che aveva letto Nietzsche con gli
occhi di un d’Annunzio o di un Barrès, e trovava nella retorica un rifugio
contro la meschina realtà, finì con l’abbandonare anche il socialismo, in cui
aveva dapprima creduto, e abbracciò entusiasticamente le nuove teorie
dell’azione e della violenza, il sindacalismo e il nazionalismo, alleandosi qui
con audaci minoranze rivoluzionarie, là, più spesso e più volentieri, con le
nuove forme del capitalismo monopolista ed imperialista, che prometteva nuove
conquiste, nuove espansioni, nuovi trionfi fu il terreno fecondo in cui
germogliò la prima guerra mondiale, in cui confluirono sindacalisti ed
imperialisti, pacifisti (!) e mazziniani, anarchici e democratici, tutta la
specie e sottospecie del variopinto mondo piccolo-borghese.
E quando il proletariato, maturatosi attraverso la
dura esperienza della guerra, pretese di essere giunto finalmente alla maggiore
età e volle emanciparsi dalla tutela piccolo-borghese, facendo finalmente del
socialismo un movimento rivoluzionario per la realizzazione delle proprie
finalità di classe, i ceti medi gli si rivoltarono definitivamente e
violentemente contro alleandosi col capitalismo. E si ebbe il fascismo.
Proletarizzazione dei ceti medi
Quest’ultimo passaggio merita tuttavia una più
attenta considerazione. La guerra e il dopo guerra hanno brutalmente accelerato
il processo di concentramento e razionalizzazione della produzione
capitalistica e il correlativo processo di indebolimento dei ceti medi, che
sono stati così facile preda della crisi sopravvenuta. La “proletarizzazione”
dei ceti medi non è stata mai un fenomeno così reale e così vasto come
nell’Europa dell’altro dopoguerra, e in modo particolare nei paesi vinti o nei
paesi poveri, in Germania soprattutto. Esso non è sfuggito a quanti hanno
studiato i medi ceti: nella più volte citata inchiesta “Les classes moyennes” , fatta a cura del Centre de Documentation
sociale de l’Ecole Normale Supérieure, quasi tutti i collaboratori lo hanno notato per i
rispettivi paesi.
Scrive Edmond Vermeil per la Germania: “Ora, in uno
stato fortemente industrializzato come la Germania del XX secolo, l’urto
sociale si produce fatalmente fra le potenti organizzazioni dell’oligarchia
padronale e i sindacati operai, che mobilitano le energie di un vasto
proletariato. Fra questi due avversari alle prese, le classi medie rischiano di
vedersi stritolate, divise come sono dalla molteplicità stessa dei loro
elementi, dei loro bisogni e delle loro rivendicazioni. Se esse si sfasciano
proletarizzandosi, due soluzioni appaiono come possibili. O il proletariato,
arricchito e rafforzato da tanti apporti nuovi, trionfa e impone al paese il
comunismo. Oppure, al contrario, le classi medie si riprendono, si organizzano,
si alleano con quella stessa oligarchia padronale che le ha minate e, sostenute
dal suo appoggio finanziario, distruggono le grandi formazioni operaie,
imponendo allora il fascismo alla nazione intera. È esattamente il fenomeno che
si è verificato in Germania (pagg. 53-54). Si può dire che le classi medie
siano attualmente scomparse oltre Reno. In particolare la piccola borghesia,
artigiani e commercianti, redditieri e pensionati, infine alcune professioni
liberali hanno definitivamente raggiunto il proletariato. Sono i “nuovi poveri”
(pag. 71).
E Paul Vaucher per l’Inghilterra: “Esse (le classi
medie) hanno subito l’effetto di asfissia prodotto dalla politica di
rivalutazione monetaria seguita dopo le guerre e, se esse non hanno sofferto
della svalutazione del 1931 come si sarebbe potuto temere, perché questa non è
stata seguita da un rialzo brutale dei prezzi, le nuove misure fiscali che
l’hanno accompagnata non hanno mancato di colpirle. In breve, in Inghilterra,
come altrove, l’accrescimento delle imposte, il rallentarsi del ritmo degli
affari, col mantenimento di basso tasso d’interesse dei titoli pubblici, ha
messo molta gente ‘media’ in una posizione difficile (pag. 118). …Nell’insieme
non è contestabile che le modificazioni sopravvenute nella struttura economica
dell’Inghilterra dalla guerra in poi siano state nocive all’indipendenza delle
classi medie. Qui, come nel mondo intiero, l’evoluzione del capitalismo tende a
soffocarle. Ma qui molto più che altrove, questa evoluzione urta contro
resistenze fatte sia di tradizionalismo che di liberalismo, che ne ritardano il
cammino e ne hanno diminuito gli effetti” (pagg. 122-3).
Non diversamente Henri Mougin per la Francia:
“Quanti economisti liberali, per celebrare prima della guerra le svariate virtù
e le felici chances di questa piccola borghesia, la cui esistenza è, ci si
dice, la negazione stessa della lotta di classe!. Quante chansons de gestes a proposito del piccolo borghese del dopoguerra,
eroe tragico del dramma che oppone il nuovo ricco e il nuovo povero! Ci si
racconta che alle scadenze i monti di pietà non ricevono più in deposito
l’‘orologio dell’operaio’, ma i ‘pizzi di famiglia’ e l’‘argenteria’ della
borghesia impoverita. Si scrive: ‘io soffro, dunque io sono: questa potrebbe
essere la divisa delle nostre classi medie’. Ci si impietosisce sui ‘piccoli’
delle classi medie, piccoli commercianti, piccoli artigiani, piccoli
imprenditori” (pagg. 287-8).
E infine il già citato Marjolin per gli Stati
Uniti: “Qualunque sia il gruppo sociale considerato e il movimento in cui
s’inserisce, noi vediamo che si tratta sempre per lui di proteggere la sua
indipendenza contro altri gruppi sociali a cui la loro posizione privilegiata
dà una supremazia attuale o potenziale sull’insieme della comunità. Il
contadino lotta per la riduzione dei debiti che minacciano la sua proprietà, il
piccolo imprenditore per il libero accesso al credito, in mancanza del quale
non gli rimane che accettare il dominio delle banche o delle grandi società
industriali. Gli intellettuali sentono che la loro indipendenza non sarà più
che una vana parola in una società controllata da pochi uomini e che essa ha
per condizione essenziale la dispersione della potenza politica ed economica
sul maggior numero possibile di teste. Infine, i funzionari, nella misura in
cui essi identificano la loro indipendenza con quella dello Stato, hanno
ugualmente fatto l’esperienza che questa indipendenza è incompatibile con
l’esistenza di forze sociali private troppo potenti” (p.136).
Analoga, se non forse peggiore, fu la situazione
delle classi medie in Italia nell’altro dopoguerra. Peggiore perché erano da
noi meno forti economicamente e politicamente già prima della guerra, sicché
minor resistenza potevano offrire ai duri colpi che si abbatterono su di esse.
Mentre il proletariato organizzato reagiva alla svalutazione della moneta, e
all’aumentato costo della vita conquistando salari adeguati e migliori
condizioni di lavoro, le classi medie, “indipendenti”, individualiste,
disorganizzate, massa politicamente amorfa, furono le più gravemente colpite.
“Le classi medie - scrive Mario Missiroli (Il fascismo e la crisi italiana,
Cappelli, Bologna 1921, pag, 17-18) sono state le più disgraziate. Hanno dato
alla guerra soldati e ufficiali, hanno contribuito più di tutte le altre alla
resistenza ed alla vittoria e sono state le peggio ricompensate. L’economia di
guerra ha favorito la grossa borghesia, gli operai e i contadini, ma ha
impoverito le classi medie, quelle classi, che, in Italia, formano l’opinione
pubblica. Tenute su, durante la guerra, dal caroviveri e dai prezzi politici,
all’indomani dell’armistizio sono state sorprese da una tremenda novità: hanno
dovuto constatare che altri ceti sociali erano saliti economicamente, oltre il
loro livello e si preparavano a far loro concorrenza sul terreno politico. Chi
non ha non è, ma chi più ha più vuol essere. Questo squilibrio fu il più
doloroso, il più drammatico del dopoguerra”.
Ridotte economicamente al livello del proletariato,
le classi medie non seppero naturalmente adattarvisi. Attaccate alle loro
abitudini, al loro tenore di vita, al loro “decoro” , esse erano letteralmente
scandalizzate di vedere che gli operai, i cui salari si erano in proporzione
accresciuti assai di più, spendevano più di loro: spesso solo apparentemente
spendevano di più, nel senso che distribuivano diversamente il loro reddito,
trascurando secondo l’antica abitudine di vita, certe spese di “rappresentanza”
e continuando a vivere nell’antica abitazione, in modo che un’aliquota maggiore
ne veniva destinata al vitto o a spese voluttuarie, che riuscivano invece
impossibili ai ceti medi depauperati.
Questo fu agli occhi degli intellettuali, dei
professionisti, dei burocrati, degli impiegati, dei ceti medi in genere
insomma, il grande imperdonabile delitto del proletariato. Lungi dal
riconoscere la logica del processo storico (in una società dominata dalla
produzione capitalistica, tanto si vale quanto si conta nel processo
produttivo), lungi anche dall’imputare certi aspetti della situazione alla
propria debolezza politica, alla propria dispersione, al proprio egocentrismo,
lungi dal rivoltarsi contro i ceti capitalistici, che di quella situazione
erano la ragione prima e gli autentici profittatori e i ceti medi difesero
gelosamente, disperatamente, la loro dignità di “caporali” dell’ordine sociale,
attaccando il proletariato. L’antica alleanza, fiorita all’ombra della Seconda
internazionale, fu rotta. Tosto che il proletariato pretendeva di camminare da
sé e mostrava di saper fare la sua strada meglio dei ceti medi, mostrava
soprattutto di possedere una maggior forza politica, questi gli divennero
inguaribilmente nemici. Essi trovarono nella loro posizione di mezzo, nel loro
tradizionale “individualismo” (che non derivava però da una salda educazione
liberale e da una forte coscienza di sé, ma solo dal meschino attaccamento alla
propria miserabile “indipendenza” , cioè praticamente al rifiuto delle forme
moderne di vita sociale), nella retorica della vecchia democrazia (giustizia
sociale, felicità comune, il “bonheur commun” della Dichiarazione dei Diritti)
e del nuovo nazionalismo (Patria, Nazione, stato etico, ecc.), nell’odio antico
verso il capitalismo che li veniva progressivamente stritolando e nell’odio
nuovo verso il proletariato che marciava da sé, gli ingredienti per una nuova
ideologia che avrebbe dovuto essere anticapitalistica e antimarxistica,
nazionale e democratica, strumento insomma di una politica di ceti” medi che
taglia le unghie alla plutocrazia e ai privilegiati, ma tiene a freno i
proletari, che elimina la lotta di classe ma assicura la felicità di tutti
nell’ordine e nella giustizia.
Rileggete il programma fascista del 1919 e vi
trovate tutta questa roba, in particolare la “giustizia sociale”, i
provvedimenti anticapitalistici: scioglimento delle società anonime,
industriali e finanziarie, soppressione di ogni specie di speculazione, delle
banche e delle borse; creazione di un organismo nazionale, con sezioni
regionali, per la distribuzione del credito (art. 9); censimento e
ridistribuzione della ricchezza nazionale, pagamento dei debiti del vecchio
Stato liberale a spese dei ricchi (art. 10); terra ai contadini, gestione delle
industrie, dei trasporti e dei servizi pubblici affidata ai sindacati di
tecnici e di lavoratori (art. 12); e poi la soppressione del Senato,
l’abolizione delle mense vescovili, ecc.
E non diverso suono dà il programma hitleriano in
25 punti del 1920: igiene collettiva, protezione dei vecchi, delle donne e dei
fanciulli (art. 21), lavoro garantito a tutti ma orientato unicamente ai fini
della potenza nazionale (art. 9, 10 e 24); misure anticapitalistiche (art. 11 e
14) e riforma agraria (art. 27). Non mancavano neppure provvedimenti speciali a
favore della classe media cittadina.
Anche nel 1848 le classi medie di Francia si erano
battute contro Luigi Filippo e contro l’oligarchia finanziaria in nome degli
stessi ideali. Nel 1847 Garnier-Pagès, uno dei leaders dell’opposizione,
affermava anche lui in un discorso che non esistevano affatto contrasti di
classe fra borghesi e operai. Per lui in Francia esistevano solo dei francesi.
Il contrasto di classe era una malvagia invenzione del presidente dei ministri
Guizot per dividere i francesi. Nel febbraio 1848 lo stesso Garnier-Pagès
diventava ministro del governo provvisorio, a fianco di Ledru-Rollin, Louis
Blanc e Lamartine, dopo che i proletari di Parigi avevano sulle barricate
strappato a viva forza il potere dalle mani di Luigi Filippo e dei banchieri.
Ma nel giugno del medesimo anno quello stesso governo si affrettava a cedere il
posto al generale Cavaignac, perché affogasse nel sangue i voti e le speranze
di quel proletariato che lo aveva innalzato al potere. Infine nel dicembre,
solo dieci mesi dopo la gloriosa rivoluzione di febbraio, i ceti medi di
Francia votavano compatti per Napoleone Bonaparte. Allo stesso modo nell’ultimo
dopoguerra le velleità di politica indipendente dei ceti medi, fasciste. o hitleriane,
sono finite in un cesarismo ancora peggiore. Gli è che l’esperienza che essi
tentavano con quei movimenti non aveva in sé nessuna speranza di successo, per
l’incapacità intrinseca dei ceti medi di esprimere, nella moderna società
capitalistica altamente sviluppata, una vitalità propria, una propria
ideologia, una propria politica, in contrasto con i ceti che più direttamente
partecipano al processo produttivo, capitalisti e proletari. I ceti medi
fascisti e hitleriani dovettero così necessariamente allearsi con l’uno o con
l’altro dei due grandi antagonisti ed il loro fresco odio antiproletario li
portò agevolmente a farsi strumenti dei ceti plutocratici .
Ecco il problema
Oggi, a distanza di 25 anni, siamo nuovamente di
fronte al problema: quale sarà l’atteggiamento politico delle classi medie? I
primi segni che se ne hanno, in questa fase clandestina di lotta politica, non
sono confortanti. Si ripetono gli errori del 1919. Si viene creando nuovamente
un partito di ceti medi, con una propria ideologia e una propria prassi
politica, che vuol farsi quasi mediatore tra capitalisti e proletari, per
instaurare con “audaci” riforme sociali, quasi tutte ripescate dal più frusto
ciarpame del collaborazionismo piccolo-borghese (socializzazione delle grandi
imprese, partecipazionismo operaio e simili baggianate) un’era nuova di
giustizia tra le classi, di libertà per gli individui.
Lo studio che noi abbiamo svolto tende a dimostrare
l’assurdità e impossibilità storica di questa vecchia utopia. Padrone un tempo
del campo economico e nerbo della vita sociale, le classi medie hanno dovuto
cedere progressivamente terreno, in numero e in potenza, di fronte all’avanzata
del grande capitalismo. Quelli che hanno rifiutato di farsi assorbire nel
moderno apparato produttivo del capitalismo, sono fuori ormai del processo
storico. Coloro che difendono ancora le libere professioni piccolo-borghesi,
medici e soprattutto avvocati attaccati all’ “indipendenza” ed alla “dignità”
della toga, sono dei conservatori indegni di rappresentare una parte nel dramma
della storia. Il loro individualismo, come abbiamo visto, non è affatto
coscienza liberale, ma un meschino egoismo antisociale, destinato ad essere
inesorabilmente stritolato dalle nuove forme di vita collettiva che vanno sorgendo.
Lo stesso può dirsi di tanti esercenti e piccoli commercianti, che rifiutano di
scomparire di fronte ai grandi magazzini a prezzo fisso o alle grandi
cooperative di consumo o peggio ancora di vasti strati di questi ceti medi
(reddititieri, ausiliari del commercio in genere, certe categorie di burocrati)
che sono socialmente improduttivi.
Tutti costoro appartengono a categorie che il
processo storico ha definitivamente superato. Il loro vantaggioso.attaccamento
alla libertà è in realtà attaccamento alla loro “posizione” minacciata da tutte
le parti, non certo attaccamento alle nuove forme sociali di cui solo la
libertà può oggi realizzarsi. In una società che solo può sperare salute
dall’aumento della produzione, e quindi dal crescente sviluppo delle grandi
imprese di produzione, in una società che, resti borghese o diventi socialista,
deve necessariamente proseguire sulla strada che il capitalismo ha iniziato,
accentuandone gli aspetti sociali e collettivi, tutti coloro che per un
malinteso egoismo, per un attaccamento a posizioni superate, tentano di
mettersi di traverso a questa evoluzione, sono dei reazionari, destinati ad
essere schiacciati. Ad essi non può spettare nessun compito dirigente nella
società di domani. In altre parole, tutta quella parte dei ceti medi che è
socialmente improduttiva e difende interessi e ideologie precapitalistiche, non
può costituire certo il nerbo di un partito vita e di avvenire.
Altro discorso va fatto per quelle più vaste
categorie (piccoli proprietari coltivatori, artigiani, buona parte degli
impiegati e della burocrazia e soprattutto intellettuali e tecnici), che
svolgono funzioni utili o addirittura indispensabili in ogni società. Vero è
che molti di essi rappresentano pur sempre uno stadio di evoluzione economica
precapitalistica per cui, pur non apparendo destinati a prossima sparizione
(piccoli proprietari, artigiani, ecc.) non possono però costituire una grande
forza economica in un periodo storico nettamente dominato dall’ascesa delle
forme capitalistiche della produzione, e in cui i grandi conflitti sociali si
combattono e si risolvono nell’ambito di esse.
Ad essi, come del resto agli impiegati (che quasi
sempre solo una mera parvenza, un fatto puramente esteriore distingue
dall’operaio, al quale li lega la stessa dipendenza dal capitalista e la stessa
insicurezza del domani) non resta che unirsi al grande esercito dei lavoratori,
al proletariato e riconoscersi proletari, abbandonando ideologie, che sono più
di retaggio di tradizioni superate e manifestazioni di una retorica da
strapazzo, che non la reale espressione di legittimi interessi spirituali.
Il fascismo è stata la prova ultima dell’incapacità
di questi ceti a dar vita a un proprio movimento politico. Né un nuovo
tentativo potrebbe avere migliore fortuna, dopo una nuova guerra che avrà
necessariamente accentuato il loro processo di proletarizzazione, ridotto
ancora il loro margine di indipendenza e di sicurezza, e per converso inasprite
le antitesi fra capitalisti e proletari, tra i difensori degli antichi rapporti
di produzione, forti della loro ricchezza economica, il possesso del capitale,
e dell’alleanza del capitalismo internazionale, e le nuove forze di produzione
che risolutamente avanzano sulla scena della storia, con la potenza del numero
e la compattezza che loro deriva da una antica e sempre più stretta solidarietà
nella lotta (coscienza di classe), avanguardia tradizionale di tutte le
rivoluzioni.
In questa lotta i ceti medi non possono aspirare a
un ruolo di primo piano, sforniti come sono di coesione, di coscienza politica,
(e ne hanno dato larga prova sotto il fascismo), di sicurezza economica. Essi
dovranno ancora una volta decidersi per il capitalismo o per il proletariato.
Nel primo caso potrebbero aprire nuovamente la strada a un altro fascismo, se
vittoriosi, o essere sterminati, se sconfitti. Nel secondo caso potrebbero
utilmente fecondare, con i valori culturali e spirituali, di cui sono
tradizionali portatori, i nuovi grandi ideali collettivi del proletariato,
potrebbero, liberati anche essi dalla servitù ad un padrone, conquistare
dignità di uomini in una società in cui, secondo l’espressione del Manifesto,
“il libero sviluppo di ciascuno sia condizione del libero sviluppo di tutti”.
Così soltanto noi intendiamo la funzione dei ceti
medi, di cui qualcuno è certo destinato a sparire in processo di tempo, ma
altri - tecnici e intellettuali soprattutto - non hanno, dall’avvento di una
società socialista, altro da perdere che un poco di inutile boria, ma hanno da
guadagnare in sicurezza, in quanto una economia collettiva e pianificata non
conosce gli alti e bassi dell’economia capitalistica, e in dignità, perché
cesseranno di servire a privati e spesso poco puliti interessi, per diventare
veri pilastri di una società retta soltanto dall’intelligenza e dalla tecnica.
Ma per questo essi devono appunto rinunciare alla
pretesa di costituire la spina dorsale della società borghese, rinunciare alla
funzione di mediatori fra capitalisti e lavoratori, che si risolve in
definitiva in una funzione di cani da guardia della società borghese, e
assumere invece il proprio posto nella lotta rivoluzionaria contro questa
società, accettando la guida politica del proletariato, che è la classe più
preparata a questo compito.
La lotta suprema
Mai come in questo momento è stata vera la
previsione di Marx che la lotta suprema va combattuta fra due classi soltanto,
proletariato e borghesia.
Non nel senso che tutti gli altri ceti siano
scomparsi e stiano ormai per scomparire, va intesa questa proposizione, sebbene
nel senso che tutte le altre forze devono polarizzarsi attorno a questi due
grandi protagonisti. Anche la Rivoluzione Francese fu un moto che riunì i ceti
più diversi (artigiani e contadini, professionisti e commercianti, operai e
imprenditori, e anche bassa nobiltà e basso clero, i più umili ed oscuri
lavoratori e gli intellettuali più illustri di Francia), ma essi non si
distinsero nella grande battaglia, ché anzi si riconobbero tutti nel Terzo
Stato che lottava contro il privilegio. Le distinzioni, le divisioni, le
discordie vennero dopo. Ed è certamente merito della borghesia aver saputo
raccogliere sotto le proprie insegne tanti ceti diversi ed anche antagonisti,
essersi cioè fatta campione di ideali universali come è merito degli altri ceti
aver saputo riconoscere la propria guida storica ed aver marciato con essa.
Oggi questa funzione è storicamente passata al
proletariato, la classe certamente più forte, la sola portatrice di nuovi
valori universali, fra quanti combattono l’odierno privilegio capitalistico.
Sta ad essa condurre la lotta.
Ha osservato acutamente Tocqueville che lo spirito
delle classi medie, mescolato a quello della classe inferiore oppure a quello
della classe superiore “può far meraviglie, ma da solo non produrrà mai altro
che un governo senza virtù e senza grandezza”.
Lo sapranno riconoscere i ceti medi? Sapranno
rinunciare a un particolarismo pericoloso e accettare il proprio posto nella
storia?
Sarà questa, lo ripetiamo, dopo il clamoroso
fallimento dell’esperienza fascista, la prova d’appello della loro maturità
storica.
SPARTACO