Lelio Basso
Cecoslovacchia:
Una sconfitta del movimento operaio
Da qualunque punto di vista si guardino gli
avvenimenti cecoslovacchi recenti, non si può non considerarli una dura
sconfitta per il movimento operaio.
Tali
sarebbero certamente se si accettasse il punto di vista secondo cui nessun
pericolo di involuzione minacciava il “nuovo corso” cecoslovacco cosicché
l’invasione delle cinque potenze si risolverebbe in un puro atto
d’ingiustificata prepotenza. Ma tali sono anche se si accetta il punto di vista
sovietico secondo cui la Cecoslovacchia era in pericolo, o addirittura in
procinto di abbandonare il socialismo e di passare al campo avversario: ciò
vorrebbe dire che in un paese dove il partito comunista rappresentava già prima
della presa del potere più di un terzo della popolazione e la maggioranza della
classe operaia, dove la presa del potere era avvenuta grazie alla pressione dal
basso di queste masse, unite alle forze socialiste di sinistra, dove quindi la
rivoluzione era stata una vera rivoluzione popolare, in un paese cioè dove il
socialismo non era stato un fenomeno d’importazione ma il frutto della
maturazione cosciente delle masse popolari, vent’anni di regime comunista,
gottwaldiano o novotniano, non solo non avevano consolidato il socialismo ma al
contrario gli avevano suscitato tanti nemici fra il popolo, e in seno allo
stesso partito della classe operaia, che la semplice soppressione della censura
bastava a rovesciare la situazione e a strappare il potere al partito
comunista. Se questo fosse vero, dovremmo dire che il socialismo non ha alcuna
base seria non solo in Cecoslovacchia, ma neppure negli altri paesi di
democrazia popolare, e dovremmo ancora concludere che il socialismo ha subito
una pesante sconfitta.
E se anche non accettassimo nessuno dei due opposti
punti di vista e tentassimo, come vorremmo, di formarci un’opinione nostra
sulla base dei dati che possediamo, dovremmo egualmente dire che, comunque
stiano le cose, il fatto che l’occupazione della Cecoslovacchia sia avvenuta,
che un dissenso fra partiti e stati comunisti abbia dovuto essere regolato con
un massiccio intervento armato, significa che gravi disfunzioni sono
intervenute nel mondo comunista, e l’impossibilità di porvi rimedio altrimenti
che con il ricorso alle armi costituisce sempre una dura sconfitta.
Per capire le origini di questa sconfitta, bisogna
rifarsi a quelli che sono oggi i due problemi fondamentali dei paesi comunisti,
dai quali dipende anche in una certa misura la possibilità di avanzata del
socialismo nel mondo, la pianificazione economica e la democrazia. Sono
problemi che i paesi comunisti sono ancora lontani dal risolvere in modo
soddisfacente, e che in Cecoslovacchia erano diventati particolarmente acuti.
Grave era la situazione economica in un paese che una volta era fra i paesi
industrialmente più avanzati d’Europa e che una cattiva direzione e metodi di
pianificazione assolutamente inadatti avevano non solo fatto arretrare dalle
posizioni già occupate, ma avevano addirittura ridotto a vedere negli ultimi
anni diminuito il prodotto nazionale. Al disagio economico corrispondeva
necessariamente un crescente disagio politico: in un regime che non è capace di
dare soddisfazione alle rivendicazioni elementari, il malcontento che ne deriva
è necessariamente portato a cercare forme nuove di espressione critica, mentre
il regime stesso è facilmente tentato di rispondere con metodi autoritari e
repressivi. Ora in un momento in cui in tutto il mondo le giovani generazioni
protestano e si ribellano ai metodi autoritari, questa situazione diventava
sempre più difficile in Cecoslovacchia, non solo perché il paese ha una solida
e vivace tradizione culturale, ma anche perché, nel periodo fra le due guerre,
la generazione tuttora vivente aveva conosciuto e praticato la libertà del
dissenso, a differenza delle altre democrazie popolari che allora erano
soggette a regimi fascisti o semifascisti.
In forme più o meno acute i due problemi della
riforma economica, cioè del mutamento dei metodi di pianificazione, e della
democrazia, cioè della partecipazione delle masse alle responsabilità delle
decisioni, sono presenti in tutti i paesi comunisti, URSS compresa. È difficile
aprire le porte alla democrazia, senza aver risolto i problemi economici,
perché in questo caso il malcontento che può nascere dalle non risolte
difficoltà economiche, può scaricarsi in forme pericolose nei canali aperti
dalla democrazia. E non è meno difficile risolvere i problemi economici senza
un processo di democratizzazione che associ le masse alle necessarie
responsabilità nella gestione della cosa pubblica, anche perché le riforme
economiche che si impongono urgenti implicano quasi sempre ulteriori sacrifici
del tenore di vita delle masse stesse. Né d’altra parte si possono rinviare le
soluzioni alle calende greche, per timore di affrontare i pericoli inerenti a
un disgelo della situazione, perché il mantenimento di una gestione economica
inadeguata e di una direzione politica fondata su metodi amministrativi,
rischia di far crescere il distacco che indubbiamente già esiste, per mancanza
di mediazioni e articolazioni, fra il potere e la società, fra il partito (o
meglio la burocrazia del partito) e le masse. E quanto più il partito è
staccato ed isolato dalle masse, tanto più precaria è la situazione e tanto più
incerto è il futuro, come ha già dimostrato l’esperienza di vari paesi e come
potrebbero confermare in avvenire altre più dolorose esperienze.
Dobbiamo confessare che nessuna delle risposte in
atto nei vari paesi comunisti ci è sembrata fino ad oggi soddisfacente. Non lo
è, per le ragioni che abbiamo già detto, la tentazione economicistica, che oggi
affiora in molti paesi, e che era certamente presente anche in Cecoslovacchia,
la tentazione cioè di risolvere i problemi della costruzione del socialismo
solo sul piano tecnico-economico, lasciando in ombra il problema della
democrazia, perché ciò significherebbe soltanto uno spostamento di potere dalla
burocrazia alla tecnocrazia senza affidare responsabilità alle masse
lavoratrici. Ma non ci persuade neppure la risposta di tipo socialdemocratico.
affiorata anch’essa nei mesi scorsi in Cecoslovacchia, che vuole reintrodotta
la democrazia attraverso il pluripartitismo, mettendo così in discussione l’egemonia della direzione socialista
dello sviluppo e conseguentemente mettendo in discussione lo stesso sviluppo
socialista della società. Se abbiamo ben compreso l’esperienza ungherese in
corso, ci pare che Kadar abbia pensato a un cammino progressivo, ma molto
lento, senza scosse o improvvisi squilibri, cioè a una graduale riforma
economica e a una graduale liberalizzazione. Tuttavia non è sempre possibile
graduare a volontà questi processi, che possono essere turbati da qualche
evento improvviso economico o politico, e d’altra parte la liberalizzazione del
regime significa un allentamento delle costrizioni ma non significa ancora
democratizzazione, cioè partecipazione delle masse alla gestione del potere.
Invece il tema di fondo è proprio quello della democratizzazione, cioè di un
superamento della frattura fra partito e masse, fra potere e società, e quindi
dell’estensione progressiva del potere e delle responsabilità ad esso inerenti
dalla burocrazia ai lavoratori. Finché questo problema non sarà risolto, non
solo il regime non presenterà ancora quel volto umano che secondo noi deve
avere il socialismo, ma non si potranno neppure considerare esclusi pericoli di
involuzione.
Hic Rhodus, hic salta: a questo difficile passo
prima o poi tutti i regimi comunisti dovranno arrivare, e tanto peggio sarà
quanto più tardi vi arriveranno, non solo perché il ritardo di sua natura
accumula e quindi accresce le tensioni, ma perché in progresso di tempo la
società si fa più adulta e complessa e quindi più bisognosa di nuove
articolazioni, di nuove possibilità di espressione, di nuove sovrastrutture.
Con ciò non vogliamo naturalmente dire che si possano e si debbano introdurre
nuovi metodi di direzione politica, che comportano certamente grossi rischi,
senza le necessarie precauzioni, ma diciamo che il problema dev’essere affrontato
senza ritardo nel suo duplice aspetto - economico e politico - se non si vuole
che i rischi aumentino in avvenire.
Si tratta certamente di un processo difficile e noi
non abbiamo la pretesa socialdemocratica di possedere formule onnivalenti (come
appunto pluripartitismo, parlamentarismo o altri “ismi”) e di dettare le
soluzioni a tavolino. C’è stata un’esperienza kruscioviana, quella aperta
dall’alto al XX congresso, al quale noi plaudimmo allora, convinti come eravamo
- e non abbiamo modificato il nostro convincimento - che nell’immediato
post-stalinismo fosse impossibile immaginare in Unione Sovietica un processo di
democratizzazione che non ricevesse la sua prima spinta dall’alto, dato che il
regime staliniano si era appunto adoperato a spegnere ogni volontà autonoma che
nascesse dal basso. Ma gli avvenimenti ci hanno insegnato che, proprio perché
non alimentato da energie di base, quel processo si è rapidamente arenato: mi
sembra difficile affermare che nel corso dei dodici anni trascorsi da quel congresso
la struttura del potere si sia notevolmente allargata e che un nuovo rapporto
si sia istituito in URSS fra partito e masse.
La caratteristica principale del “nuovo corso”
cecoslovacco era al contrario che esso partiva dal basso, non tanto dagli intellettuali
che ne furono i più appariscenti portatori, quanto dalle masse operaie; dalla
base del partito, si potrebbe forse dire da tutta la popolazione. come le
vicende di questi giorni hanno poi confermato. “La particolarità di tutto
questo processo è consistita nel fatto che, nella sua maggior parte, esso è
stato il prodotto della creativa e nello stesso tempo spontanea attività di
larghe masse - i comunisti in prima fila - le quali [...] si sono mosse senza
alcuna manovra o comando dall’alto”, aveva detto Dubcek nel suo rapporto al plenum del CC nell’aprile scorso. E una
conseguenza di questo fenomeno era che, sotto questa pressione di base, il
partito si era rivitalizzato: la tendenza alla sclerotizzazione che è una
conseguenza di regimi a base burocratica, come era il regime novotniano, era
stata infranta e una corrente vitale si era aperta fra il partito e il paese.
“In questi giorni, ha detto Dubcek nello stesso rapporto, assistiamo al sorgere
di nuove speranze in tutta la popolazione, di un vivace rifiorire di attività
delle organizzazioni sociali e, prima di tutto, del partito, attività che ha
trovato consensi ammirati anche all’estero (e che, in un certo senso, ha
sorpreso anche noi stessi)”. Per la prima volta dai tempi di Lenire in un
partito comunista al potere era cominciata una pubblica discussione.
Si è detto che questo comportava dei pericoli
controrivoluzionari, che l’abolizione della censura aveva dato via libera a una
forte propaganda anticomunista, che dietro il velame degli appelli alla democrazia
e alla libertà si nascondevano forze che volevano riportare indietro la
Cecoslovacchia verso la restaurazione capitalistica e le alleanze occidentali.
Saremmo degli ingenui se lo negassimo, saremmo degli ingenui se prendessimo per
oro socialista colato tutto quello che si è detto e scritto negli scorsi mesi
in Cecoslovacchia, se credessimo sul serio che tutti coloro che s’eran mossi
all’attacco del vecchio regime erano animati dal proposito di rafforzare il
socialismo assidendolo su una base democratica. Ma non saremmo meno ingenui se
rifiutassimo tutto il nuovo corso, se pensassimo che in questo erano impegnate
soltanto forze antisocialiste, che tutto si riduceva a una lotta fra comunisti
“sani” e anticomunisti, che la maggioranza del CC del PCC che aveva allontanato
Novotny e si era impegnata sulla nuova strada era fatta tutta di traditori che
volevano soltanto riportare la Cecoslovacchia in grembo al capitalismo.
Non abbiamo bisogno di documentarci per sapere la
verità. In ogni grande rivolgimento, in ogni lotta per mutare la struttura del
potere, sono sempre commiste forze eterogenee. All’origine della rivoluzione
francese troviamo la stessa aristocrazia in lotta per difendere i suoi
privilegi contro la monarchia assoluta; il primo governo provvisorio russo dopo
l’abbattimento dello zar era presieduto dal principe Lvov. L’elemento decisivo
in questi momenti critici è dato dal gruppo politico che esercita l’egemonia e
che può anche servirsi di forze eterogenee per battere gli avversari. Ora nel momento
in cui si apriva una lotta per strappare il potere dalle mani di un’oligarchia
burocratica ristretta, era inevitabile che in quella lotta, prendessero
posizione tutte le forze contrarie e quindi anche tutto l’antisocialismo che il
paese poteva in quel momento contenere. Anche Dubcek nel rapporto che abbiamo
già ricordato parlava di “spinte negative” e di “rivendicazioni dannose, che
ricorrono sempre in processi di questo tipo”. E ancora: “Saremmo miopi se non
vedessimo un altro fenomeno manifestatosi nel corso del processo apertosi a
gennaio - il riaffiorare di certe posizioni non socialiste, perfino di appelli
rabbiosi di rivincita”.
Erano grandi queste forze? Non siamo in grado di
controllarlo, ma siamo disposti a concedere che lo fossero. Certo vi erano in
larga misura coloro che vent’anni fa avevano semplicemente subito il
cambiamento di regime e che avrebbero visto con piacere un ritorno al passato,
e fra questi certamente anche tecnici e intellettuali che si sentivano “il
nerbo della nazione” e non amavano l’ascesa della classe operaia; potevano
esserci anche nuove leve di tecnici e di intellettuali desiderosi di acquistare
maggior potere e di ristabilire distanze, perlomeno salariali oltre che
sociali, che il regime aveva grandemente ridotto;
c’era sicuramente gente scontenta dei sacrifici che il regime imponeva per
finalità lontane e non da tutti sentite (aiuti al Vietnam, a Cuba, agli arabi,
ecc.); non è escluso vi fossero anche giovani che avevano conosciuto il
socialismo solo sotto l’aspetto novotniano e che, in opposizione a quel socialismo, eran diventati
antisocialisti.
Tutto questo è possibile, ma proprio se questo
fosse vero l’urgenza di un cambiamento ne risultava maggiormente necessaria,
perché sarebbe provato che regimi di tipo novotniano fabbricano in serie gli
antisocialisti. Un partito che in vent’anni di potere, e di potere assoluto,
non era riuscito ad assicurarsi sufficiente prestigio, autorità, egemonia, per
guidare il paese anche in regime di libera discussione, doveva rapidamente
cambiare metodi di direzione. Dopo tutto, lo ripetiamo, la Cecoslovacchia era
un paese industriale, con una forte classe operaia, con un partito comunista
che non era una creazione artificiosa del dopoguerra ma aveva una grande
tradizione e profonde radici nel paese. Ora il partito si era rivitalizzato e
la classe operaia ritornava a farsi vivace: l’uno e l’altra han dimostrato la
loro forza e la loro maturità proprio nel corso dell’occupazione. Si è visto in
quei giorni anche quale grande prestigio avessero riacquistato i nuovi
dirigenti del partito: lontani, e quasi prigionieri, hanno saputo mantenere la
calma e farsi ubbidire da un paese esasperato dall’occupazione straniera. Come
si può credere che questi dirigenti, questo partito, questa classe operaia non
avrebbero saputo tener testa ai nemici del socialismo se questi avessero
tentato l’assalto al potere? che il partito comunista avrebbe ceduto senza
combattere la stia posizione di guida?
Se si voleva che l’opera di rinnovamento riuscisse all’interno delle
strutture socialiste, se si voleva utilizzare a fini di democratizzazione
questa straordinaria congiuntura di un nuovo vivo legame stabilito fra il
partito e il paese e di un’egemonia nuovamente conquistata, bisognava
facilitare il compito di questo gruppo dubcekiano.
Noi non neghiamo pertanto la legittimità delle
preoccupazioni sovietiche circa i pericoli che potevano essere insiti nella
situazione, e siamo facilmente disposti a concedere che il gruppo dirigente
abbia commesso errori e abbia tollerato imprudenze. Ma siamo convinti che il
rimedio scelto, l’occupazione militare e la “tutela” esterna, non sia un
rimedio valido, perché lo consideriamo una misura conservatrice, cioè il
rifiuto dei rischi che ogni mutamento comporta per tentare di riportare le cose
nel vecchio alveo. E diciamo francamente che in una situazione come quella
creata da Novotny in Cecoslovacchia (e potremmo aggiungere quella di altre
democrazie popolari) abbiamo paura di quello che sta fermo assai più che di ciò
che si muove, pur con i pericoli che il movimento può comportare. A giudizio
nostro l’errore fondamentale della scelta sovietica fu di aver fin dal primo
momento cercato di salvare i vecchi dirigenti conservatori, fu la diffidenza,
la critica, la polemica contro il nuovo gruppo dirigente, fu insomma il mancato
appoggio a chi soltanto avrebbe potuto portare a buon fine la difficile impresa
della democratizzazione che il nuovo legame fra partito e popolo rendeva
finalmente possibile. È sembrato che di fronte al nuovo corso cecoslovacco il
riflesso istintivo degli altri partiti al potere fosse il classico “quieta non
movere”: una posizione che può sembrare saggia perché evita i pericoli vicini
del mutamento, ma che accumula maggiori pericoli per un futuro più o meno
lontano e rende sempre più precaria la sorte dei regimi che non riescono a
ritrovare questo legame vivo con le masse popolari e con le nuove generazioni.
La nostra critica dell’intervento militare non ha
quindi nulla di comune con la posizione socialdemocratica. Anche a prescindere
dall’ipocrisia di tutti coloro che si scalmano per la libertà della
Cecoslovacchia e viceversa accettano senza batter ciglio le aggressioni
statunitensi al Vietnam, a Santo Domingo, a Cuba e a tutti gli altri paesi su
cui si esercita il dominio dell’imperialismo americano, è chiaro che quel che
ci preoccupa nel caso della Cecoslovacchia non è tanto la violazione di questa
o di quella libertà (perché sappiamo che la lotta per il socialismo può
richiedere anche temporanei sacrifici di questa natura), quanto il rifiuto
dell’esperienza nuova che il gruppo dirigente cecoslovacco voleva tentare,
quella cioè di costruire la prima volta in Europa un socialismo con la
partecipazione attiva e responsabile di tutte le masse popolari.
Del pari speriamo sia chiaro che la nostra critica
non si richiama semplicemente al diritto astratto di ogni partito comunista di
regolare per conto proprio gli affari del proprio paese: non siamo disposti ad
accordare fiducia a priori ad ogni partito comunista e rivendichiamo per tutti
i partiti, proprio in nome dell’internazionalismo, il diritto di occuparsi
della lotta mondiale per il socialismo e quindi anche di fare critiche
all’operato degli altri partiti. Non ci scandalizzerebbe nemmeno l’esistenza di
un’organizzazione internazionale che avesse facoltà di fissare a maggioranza in
determinati casi norme imperative per i singoli partiti, come accadeva persino
ai vecchi tempi della Seconda Internazionale, a condizione che non si cada
nell’errore di pretendere di fissare schemi uguali per tutti senza tener conto
delle reali differenze di situazione. Riconosciamo perciò volentieri al partito
sovietico come a quello polacco o tedesco-orientale o a qualunque altro il
diritto di giudicare e criticare l’esperienza cecoslovacca, ma non gli
riconosciamo l’autorità di scegliere per gli altri il modello di socialismo. In
altre parole il nostro concetto delle “vie nazionali” non implica minimamente
che ogni partito debba essere autonomo nel senso di farsi gli affari suoi come
meglio gli piace, ma esige che ogni situazione sia affrontata con metodi di
azione rispondenti alla realtà della situazione stessa e quindi, assai spesso,
diversi da paese a paese.
Perciò abbiamo sempre considerato il monolitismo di
staliniana memoria come uno dei più gravi pericoli del movimento comunista
mondiale e in ultima analisi, sotto l’apparenza della forza, come una delle sue
debolezze, perché il monolitismo manca dell’elasticità necessaria a superare
appunto la diversità delle situazioni. Sotto questo rispetto il movimento
comunista mondiale deve ancora andare a scuola dall’imperialismo che da parte
sua consente, anzi favorisce, regimi diversi nei diversi paesi, senza temere di
perderne il controllo. Il monolitismo invece non ha margini: in caso di divergenze
di indirizzo (e le divergenze di indirizzo sono una conseguenza inevitabile
della diversità delle situazioni), la scelta è solo fra l’intervento armato o
la rottura. I guasti che un tale metodo ha già arrecato al movimento comunista
mondiale dovrebbero ammonire a non ripetere errori dettati dalla stessa
mentalità, che è la mentalità del conformismo, del rifiuto del dissenso, del
timore di fronte a ogni esperienza nuova, la mentalità che vede un’eresia in
ogni espressione autonoma di pensiero, e in ogni eresia un attentato al
sistema.
Tanto più ci addolora la nuova conferma di questa
tendenza, perché mentre sappiamo che l’imperialismo comporta necessariamente l’aggressione, diretta o
indiretta, agli altri paesi e la volontà di sopraffazione, sappiamo altrettanto
che il sistema socialista non ne ha bisogno e può anzi vincere la sua battaglia
mondiale solo in quanto dia prova della sua superiorità, non tanto o non solo
sul terreno economico, quanto proprio sul terreno dell’esaltazione della
dignità dell’uomo e del libero dispiegamento della personalità. E siamo troppo
amici dell’Unione Sovietica, troppo consci delle immense responsabilità che ad
essa competono in questa prova storica mondiale, troppo convinti
dell’importanza inestimabile degli aiuti ch’essa dà al Vietnam e ad altri
popoli in lotta contro l’imperialismo per non dolerci ch’essa possa commettere
errori che ritardano per tutto il mondo la vittoria del socialismo. Ma siamo
altresì convinti che, per non ricadere più in simili errori, i sovietici debbono
essi stessi liberarsi dai sistemi che li generano, cioè dai vecchi schemi e
modelli, e rendersi conto che la società sovietica ha raggiunto ormai una
maturità che le permette di affrontare le sue grandi responsabilità mondiali e
la sua gara con l’occidente anche sul terreno dello sviluppo democratico. Forse
su certe prese di posizione sovietiche, come quella di cui ci occupiamo, pesa
ancora il complesso dell’accerchiamento e pesa quindi ancora la responsabilità
dei paesi occidentali che a quel complesso han dato origine con la loro
politica, ma c’è da sperare che tale complesso, che non ha più fondamento
reale, possa essere definitivamente abbandonato.
Allo stato attuale però non possiamo non vedere le
conseguenze negative del passo che è stato compiuto, mentre non ne vediamo di
positive. La prima, ovvia, conseguenza negativa è che l’intervento sovietico,
qualunque ne siano le motivazioni, assume nel quadro della politica
internazionale, il significato di una riconferma della politica delle sfere
d’influenza, contro cui noi abbiamo sempre combattuto. Ma chi dice sfere
d’influenza dice, naturalmente, che esiste anche una sfera di influenza
americana e che gli Stati Uniti hanno lo stesso diritto di intervento armato
nei paesi che ne fanno parte. Non a caso gli Stati Uniti si sono mostrati
pubblicamente così moderati nei confronti dell’intervento sovietico e si sono
anzi premurati di moltiplicare assicurazioni di neutralità.
Ma ci sembra che vi siano altre conseguenze
negative all’interno del movimento operaio a cui pure vogliamo accennare.
Abbiamo più volte in passato affermato che tra le responsabilità non minori del
regime staliniano vi è stata quella di offrire come un modello anziché come una
necessità storica un esempio di socialismo non certo fatto per attrarre le
masse occidentali. e abbiamo rilevato che ciò aveva certamente contribuito a
indebolire il militantismo socialista in occidente e a rafforzare la
socialdemocrazia. Temiamo che l’intervento militare possa avere un analogo
effetto, quello cioè di presentare un volto più cupo e meno accettabile di
socialismo alle masse lavoratrici occidentali, un socialismo le cui regole
possono essere imposte dall’esterno, con interventi militari, contro la palese
unanime volontà di un popolo sul cui atteggiamento di riprovazione verso
l’occupazione militare è difficile avere dei dubbi.
Temiamo altresì che proprio per reazione
all’intervento di truppe straniere si sviluppino nella popolazione cecoslovacca
tendenze nazionalistiche, che nessuna rivoluzione socialista fino ad oggi è
riuscita a spegnere e che, se alimentate, possono diventare un ostacolo
pericoloso ad un’intesa fra i popoli. Ma il modo migliore per non virulentare i
germi di nazionalismo che sonnecchiano presso ogni popolo è quello di
rispettare le sensibilità nazionali. le culture nazionali, le legittime
aspirazioni di un popolo a manifestare la propria personalità. In quale misura
gli “accordi” di Mosca hanno rispettato questa esigenza?
Ma il timore più grave è quello che abbiamo
manifestato lungo tutto il nostro ragionamento, è quello cioè che il
compromesso conservatore imposto dalle potenze del patto di Varsavia rimandi di
troppo tempo la soluzione di problemi che erano già drammaticamente presenti
nella società cecoslovacca prima della svolta di gennaio. Qui ci sembra essere
il nodo di tutte le contraddizioni della politica che è stata scelta. Quanto
maggiori si affermano essere stati i pericoli di controrivoluzione, tanto più
grave dev’essere il giudizio sui risultati del regime novotniano e tanto più
urgente, quindi, un nuovo corso. Ora non c’è dubbio che i carri armati,
l’occupazione, gli arresti, le epura. zioni non sono i mezzi migliori per
favorire qualsiasi nuovo corso, ma servono soltanto a far ritornare le cose
come prima e forse in un certo senso, chiunque siano i governanti che rimangono
a Praga, peggio di prima. È quindi il carattere conservatore della soluzione
adottata che rappresenta per noi la massima preoccupazione, né c’illudiamo che
il compromesso intervenuto possa rappresentare una soluzione.
E tuttavia non vogliamo disperare per l’avvenire.
Abbiamo fiducia che la classe operaia cecoslovacca e i suoi dirigenti, che han
dato prova di tanto senso di responsabilità e di tanto coraggio, possano
superare l’attuale fase critica e riprendere il processo interrotto. Ma abbiamo
anche fiducia che la stessa URSS, su cui gravano le maggiori responsabilità per
l’avvenire del socialismo, saprà trovare delle soluzioni più adeguate. Se, come
c’è sembrato di comprendere, le esitazioni, le incertezze e anche le
contraddizioni manifestate dai sovietici dall’inizio della svolta di Praga,
sono il segno che lo stesso gruppo dirigente ha lungamente dibattuto prima di
scegliere questa soluzione, se cioè lo stesso gruppo dirigente si è mantenuto
lungamente incerto sulle proprie scelte, ciò significa che altre soluzioni
erano state affacciate, altre possibilità erano aperte. E poiché noi crediamo
fermamente che l’evoluzione della società socialista sia in ultima analisi
destinata a liberare sempre di più l’uomo e ad affermare sempre di più una
visione nuova del socialismo, così continuiamo a sperare che queste altre
possibilità e queste altre soluzioni, che sono state scartate questa volta,
possano in avvenire apparire come le migliori anche agli occhi del gruppo
dirigente e del popolo sovietico.
Per quel che ci riguarda noi crediamo di dover
trarre le nostre conclusioni soprattutto sul terreno delle nostre dirette
responsabilità, tanto nella situazione politica italiana quanto in rapporto al
movimento operaio internazionale.
Sul primo punto il fatto importante, in Italia come
in altri paesi d’Europa, è la presa di posizione del partito comunista. Anche
se non ne condividiamo tutte le motivazioni, riteniamo che questa clamorosa e
coraggiosa prova d’indipendenza di giudizio data dal PCI apra delle nuove
possibilità alle prospettive unitarie del movimento operaio. Naturalmente noi
rimaniamo fermi sulle nostre posizioni, e cioè che queste prospettive unitarie
debbano essere in funzione antimperialistica, anticapitalistica e
antisocialdemocratica e debbano basarsi su una strategia rivolu-zionaria, e non
pensiamo che il cammino sia breve per un tale traguardo. Ma riteniamo che
un’ipoteca che pesava in senso contrario sia stata tolta e non sottovalutiamo
l’importanza di questo fatto, anche se non ignoriamo i timori da qualche parte
avanzati che l’operazione possa avere, non tanto nelle intenzioni dei dirigenti
quanto nella dinamica delle cose, degli sbocchi diversi da quelli che noi
auspichiamo. Appunto per questo la nostra battaglia unitaria sulle posizioni
che abbiamo indicato dev’essere impegnata senza ritardi perché per la prima
volta la possibilità di un grande partito con i comunisti e con i cattolici del
dissenso diventa concreta. Questo significa che bisogna subito approfondire il
dibattito, risalire fino alla radice, operare insieme, come ha detto Longo al
CC, il “ripensamento profondo di tutti i problemi internazionali e nazionali”,
ma anche il ripensamento del marxismo per farlo uscire dai vecchi schemi e
restituirlo alla sua inesauribile vitalità. L’unità si può fare solo su una
strategia rivoluzionaria marxista che restituisca alle masse occidentali il
loro ruolo, fuor dalla visione di un socialismo che cammina solo con
l’estensione della sfera d’influenza sovietica e fuori, naturalmente, da ogni
prospettiva socialdemocratica.
L’altro problema che c’interessa è
l’internazionalismo. Anche sotto questo profilo crediamo che gli avvenimenti di
Praga contengano degli insegnamenti per noi. Respinto il monolitismo, rifiutata
la soluzione del “ciascuno per conto suo”, la sola prospettiva che ci è aperta
è quella di un legame internazionale di tutte le forze rivoluzionarie
antimperialistiche, sufficientemente coordinato per tener conto degli interessi
generali del movimento e sufficientemente articolato per tener conto, se non
delle inclinazioni soggettive dei singoli partiti, certo delle reali differenze
di situazioni e della necessità di adeguare metodi e strutture a queste
differenze.
Costruire un grande partito marxista rispondente
alle necessità della situazione italiana è il primo passo di questa battaglia.
Ed è stato ed è il nostro costante obiettivo.