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Lelio Basso

Lelio Basso

Cecoslovacchia: Una sconfitta del movimento operaio

Da qualunque punto di vista si guardino gli avvenimenti cecoslovacchi recenti, non si può non considerarli una dura sconfitta per il movimento operaio.

Tali sarebbero certamente se si accettasse il punto di vista secondo cui nessun pericolo di involuzione minacciava il “nuovo corso” cecoslovacco cosicché l’invasione delle cinque potenze si risolverebbe in un puro atto d’ingiustificata prepotenza. Ma tali sono anche se si accetta il punto di vista sovietico secondo cui la Cecoslovacchia era in pericolo, o addirittura in procinto di abbandonare il socialismo e di passare al campo avversario: ciò vorrebbe dire che in un paese dove il partito comunista rappresentava già prima della presa del potere più di un terzo della popolazione e la maggioranza della classe operaia, dove la presa del potere era avvenuta grazie alla pressione dal basso di queste masse, unite alle forze socialiste di sinistra, dove quindi la rivoluzione era stata una vera rivoluzione popolare, in un paese cioè dove il socialismo non era stato un fenomeno d’importazione ma il frutto della maturazione cosciente delle masse popolari, vent’anni di regime comunista, gottwaldiano o novotniano, non solo non avevano consolidato il socialismo ma al contrario gli avevano suscitato tanti nemici fra il popolo, e in seno allo stesso partito della classe operaia, che la semplice soppressione della censura bastava a rovesciare la situazione e a strappare il potere al partito comunista. Se questo fosse vero, dovremmo dire che il socialismo non ha alcuna base seria non solo in Cecoslovacchia, ma neppure negli altri paesi di democrazia popolare, e dovremmo ancora concludere che il socialismo ha subito una pesante sconfitta.

E se anche non accettassimo nessuno dei due opposti punti di vista e tentassimo, come vorremmo, di formarci un’opinione nostra sulla base dei dati che possediamo, dovremmo egualmente dire che, comunque stiano le cose, il fatto che l’occupazione della Cecoslovacchia sia avvenuta, che un dissenso fra partiti e stati comunisti abbia dovuto essere regolato con un massiccio intervento armato, significa che gravi disfunzioni sono intervenute nel mondo comunista, e l’impossibilità di porvi rimedio altrimenti che con il ricorso alle armi costituisce sempre una dura sconfitta.

Per capire le origini di questa sconfitta, bisogna rifarsi a quelli che sono oggi i due problemi fondamentali dei paesi comunisti, dai quali dipende anche in una certa misura la possibilità di avanzata del socialismo nel mondo, la pianificazione economica e la democrazia. Sono problemi che i paesi comunisti sono ancora lontani dal risolvere in modo soddisfacente, e che in Cecoslovacchia erano diventati particolarmente acuti. Grave era la situazione economica in un paese che una volta era fra i paesi industrialmente più avanzati d’Europa e che una cattiva direzione e metodi di pianificazione assolutamente inadatti avevano non solo fatto arretrare dalle posizioni già occupate, ma avevano addirittura ridotto a vedere negli ultimi anni diminuito il prodotto nazionale. Al disagio economico corrispondeva necessariamente un crescente disagio politico: in un regime che non è capace di dare soddisfazione alle rivendicazioni elementari, il malcontento che ne deriva è necessariamente portato a cercare forme nuove di espressione critica, mentre il regime stesso è facilmente tentato di rispondere con metodi autoritari e repressivi. Ora in un momento in cui in tutto il mondo le giovani generazioni protestano e si ribellano ai metodi autoritari, questa situazione diventava sempre più difficile in Cecoslovacchia, non solo perché il paese ha una solida e vivace tradizione culturale, ma anche perché, nel periodo fra le due guerre, la generazione tuttora vivente aveva conosciuto e praticato la libertà del dissenso, a differenza delle altre democrazie popolari che allora erano soggette a regimi fascisti o semifascisti.

In forme più o meno acute i due problemi della riforma economica, cioè del mutamento dei metodi di pianificazione, e della democrazia, cioè della partecipazione delle masse alle responsabilità delle decisioni, sono presenti in tutti i paesi comunisti, URSS compresa. È difficile aprire le porte alla democrazia, senza aver risolto i problemi economici, perché in questo caso il malcontento che può nascere dalle non risolte difficoltà economiche, può scaricarsi in forme pericolose nei canali aperti dalla democrazia. E non è meno difficile risolvere i problemi economici senza un processo di democratizzazione che associ le masse alle necessarie responsabilità nella gestione della cosa pubblica, anche perché le riforme economiche che si impongono urgenti implicano quasi sempre ulteriori sacrifici del tenore di vita delle masse stesse. Né d’altra parte si possono rinviare le soluzioni alle calende greche, per timore di affrontare i pericoli inerenti a un disgelo della situazione, perché il mantenimento di una gestione economica inadeguata e di una direzione politica fondata su metodi amministrativi, rischia di far crescere il distacco che indubbiamente già esiste, per mancanza di mediazioni e articolazioni, fra il potere e la società, fra il partito (o meglio la burocrazia del partito) e le masse. E quanto più il partito è staccato ed isolato dalle masse, tanto più precaria è la situazione e tanto più incerto è il futuro, come ha già dimostrato l’esperienza di vari paesi e come potrebbero confermare in avvenire altre più dolorose esperienze.

Dobbiamo confessare che nessuna delle risposte in atto nei vari paesi comunisti ci è sembrata fino ad oggi soddisfacente. Non lo è, per le ragioni che abbiamo già detto, la tentazione economicistica, che oggi affiora in molti paesi, e che era certamente presente anche in Cecoslovacchia, la tentazione cioè di risolvere i problemi della costruzione del socialismo solo sul piano tecnico-economico, lasciando in ombra il problema della democrazia, perché ciò significherebbe soltanto uno spostamento di potere dalla burocrazia alla tecnocrazia senza affidare responsabilità alle masse lavoratrici. Ma non ci persuade neppure la risposta di tipo socialdemocratico. affiorata anch’essa nei mesi scorsi in Cecoslovacchia, che vuole reintrodotta la democrazia attraverso il pluripartitismo, mettendo così in discussione l’egemonia della direzione socialista dello sviluppo e conseguentemente mettendo in discussione lo stesso sviluppo socialista della società. Se abbiamo ben compreso l’esperienza ungherese in corso, ci pare che Kadar abbia pensato a un cammino progressivo, ma molto lento, senza scosse o improvvisi squilibri, cioè a una graduale riforma economica e a una graduale liberalizzazione. Tuttavia non è sempre possibile graduare a volontà questi processi, che possono essere turbati da qualche evento improvviso economico o politico, e d’altra parte la liberalizzazione del regime significa un allentamento delle costrizioni ma non significa ancora democratizzazione, cioè partecipazione delle masse alla gestione del potere. Invece il tema di fondo è proprio quello della democratizzazione, cioè di un superamento della frattura fra partito e masse, fra potere e società, e quindi dell’estensione progressiva del potere e delle responsabilità ad esso inerenti dalla burocrazia ai lavoratori. Finché questo problema non sarà risolto, non solo il regime non presenterà ancora quel volto umano che secondo noi deve avere il socialismo, ma non si potranno neppure considerare esclusi pericoli di involuzione.

Hic Rhodus, hic salta: a questo difficile passo prima o poi tutti i regimi comunisti dovranno arrivare, e tanto peggio sarà quanto più tardi vi arriveranno, non solo perché il ritardo di sua natura accumula e quindi accresce le tensioni, ma perché in progresso di tempo la società si fa più adulta e complessa e quindi più bisognosa di nuove articolazioni, di nuove possibilità di espressione, di nuove sovrastrutture. Con ciò non vogliamo naturalmente dire che si possano e si debbano introdurre nuovi metodi di direzione politica, che comportano certamente grossi rischi, senza le necessarie precauzioni, ma diciamo che il problema dev’essere affrontato senza ritardo nel suo duplice aspetto - economico e politico - se non si vuole che i rischi aumentino in avvenire.

Si tratta certamente di un processo difficile e noi non abbiamo la pretesa socialdemocratica di possedere formule onnivalenti (come appunto pluripartitismo, parlamentarismo o altri “ismi”) e di dettare le soluzioni a tavolino. C’è stata un’esperienza kruscioviana, quella aperta dall’alto al XX congresso, al quale noi plaudimmo allora, convinti come eravamo - e non abbiamo modificato il nostro convincimento - che nell’immediato post-stalinismo fosse impossibile immaginare in Unione Sovietica un processo di democratizzazione che non ricevesse la sua prima spinta dall’alto, dato che il regime staliniano si era appunto adoperato a spegnere ogni volontà autonoma che nascesse dal basso. Ma gli avvenimenti ci hanno insegnato che, proprio perché non alimentato da energie di base, quel processo si è rapidamente arenato: mi sembra difficile affermare che nel corso dei dodici anni trascorsi da quel congresso la struttura del potere si sia notevolmente allargata e che un nuovo rapporto si sia istituito in URSS fra partito e masse.

La caratteristica principale del “nuovo corso” cecoslovacco era al contrario che esso partiva dal basso, non tanto dagli intellettuali che ne furono i più appariscenti portatori, quanto dalle masse operaie; dalla base del partito, si potrebbe forse dire da tutta la popolazione. come le vicende di questi giorni hanno poi confermato. “La particolarità di tutto questo processo è consistita nel fatto che, nella sua maggior parte, esso è stato il prodotto della creativa e nello stesso tempo spontanea attività di larghe masse - i comunisti in prima fila - le quali [...] si sono mosse senza alcuna manovra o comando dall’alto”, aveva detto Dubcek nel suo rapporto al plenum del CC nell’aprile scorso. E una conseguenza di questo fenomeno era che, sotto questa pressione di base, il partito si era rivitalizzato: la tendenza alla sclerotizzazione che è una conseguenza di regimi a base burocratica, come era il regime novotniano, era stata infranta e una corrente vitale si era aperta fra il partito e il paese. “In questi giorni, ha detto Dubcek nello stesso rapporto, assistiamo al sorgere di nuove speranze in tutta la popolazione, di un vivace rifiorire di attività delle organizzazioni sociali e, prima di tutto, del partito, attività che ha trovato consensi ammirati anche all’estero (e che, in un certo senso, ha sorpreso anche noi stessi)”. Per la prima volta dai tempi di Lenire in un partito comunista al potere era cominciata una pubblica discussione.

Si è detto che questo comportava dei pericoli controrivoluzionari, che l’abolizione della censura aveva dato via libera a una forte propaganda anticomunista, che dietro il velame degli appelli alla democrazia e alla libertà si nascondevano forze che volevano riportare indietro la Cecoslovacchia verso la restaurazione capitalistica e le alleanze occidentali. Saremmo degli ingenui se lo negassimo, saremmo degli ingenui se prendessimo per oro socialista colato tutto quello che si è detto e scritto negli scorsi mesi in Cecoslovacchia, se credessimo sul serio che tutti coloro che s’eran mossi all’attacco del vecchio regime erano animati dal proposito di rafforzare il socialismo assidendolo su una base democratica. Ma non saremmo meno ingenui se rifiutassimo tutto il nuovo corso, se pensassimo che in questo erano impegnate soltanto forze antisocialiste, che tutto si riduceva a una lotta fra comunisti “sani” e anticomunisti, che la maggioranza del CC del PCC che aveva allontanato Novotny e si era impegnata sulla nuova strada era fatta tutta di traditori che volevano soltanto riportare la Cecoslovacchia in grembo al capitalismo.

Non abbiamo bisogno di documentarci per sapere la verità. In ogni grande rivolgimento, in ogni lotta per mutare la struttura del potere, sono sempre commiste forze eterogenee. All’origine della rivoluzione francese troviamo la stessa aristocrazia in lotta per difendere i suoi privilegi contro la monarchia assoluta; il primo governo provvisorio russo dopo l’abbattimento dello zar era presieduto dal principe Lvov. L’elemento decisivo in questi momenti critici è dato dal gruppo politico che esercita l’egemonia e che può anche servirsi di forze eterogenee per battere gli avversari. Ora nel momento in cui si apriva una lotta per strappare il potere dalle mani di un’oligarchia burocratica ristretta, era inevitabile che in quella lotta, prendessero posizione tutte le forze contrarie e quindi anche tutto l’antisocialismo che il paese poteva in quel momento contenere. Anche Dubcek nel rapporto che abbiamo già ricordato parlava di “spinte negative” e di “rivendicazioni dannose, che ricorrono sempre in processi di questo tipo”. E ancora: “Saremmo miopi se non vedessimo un altro fenomeno manifestatosi nel corso del processo apertosi a gennaio - il riaffiorare di certe posizioni non socialiste, perfino di appelli rabbiosi di rivincita”.[1]

Erano grandi queste forze? Non siamo in grado di controllarlo, ma siamo disposti a concedere che lo fossero. Certo vi erano in larga misura coloro che vent’anni fa avevano semplicemente subito il cambiamento di regime e che avrebbero visto con piacere un ritorno al passato, e fra questi certamente anche tecnici e intellettuali che si sentivano “il nerbo della nazione” e non amavano l’ascesa della classe operaia; potevano esserci anche nuove leve di tecnici e di intellettuali desiderosi di acquistare maggior potere e di ristabilire distanze, perlomeno salariali oltre che sociali, che il regime aveva grandemente ridotto[2]; c’era sicuramente gente scontenta dei sacrifici che il regime imponeva per finalità lontane e non da tutti sentite (aiuti al Vietnam, a Cuba, agli arabi, ecc.); non è escluso vi fossero anche giovani che avevano conosciuto il socialismo solo sotto l’aspetto novotniano e che, in opposizione a quel socialismo, eran diventati antisocialisti.

Tutto questo è possibile, ma proprio se questo fosse vero l’urgenza di un cambiamento ne risultava maggiormente necessaria, perché sarebbe provato che regimi di tipo novotniano fabbricano in serie gli antisocialisti. Un partito che in vent’anni di potere, e di potere assoluto, non era riuscito ad assicurarsi sufficiente prestigio, autorità, egemonia, per guidare il paese anche in regime di libera discussione, doveva rapidamente cambiare metodi di direzione. Dopo tutto, lo ripetiamo, la Cecoslovacchia era un paese industriale, con una forte classe operaia, con un partito comunista che non era una creazione artificiosa del dopoguerra ma aveva una grande tradizione e profonde radici nel paese. Ora il partito si era rivitalizzato e la classe operaia ritornava a farsi vivace: l’uno e l’altra han dimostrato la loro forza e la loro maturità proprio nel corso dell’occupazione. Si è visto in quei giorni anche quale grande prestigio avessero riacquistato i nuovi dirigenti del partito: lontani, e quasi prigionieri, hanno saputo mantenere la calma e farsi ubbidire da un paese esasperato dall’occupazione straniera. Come si può credere che questi dirigenti, questo partito, questa classe operaia non avrebbero saputo tener testa ai nemici del socialismo se questi avessero tentato l’assalto al potere? che il partito comunista avrebbe ceduto senza combattere la stia posizione di guida?[3] Se si voleva che l’opera di rinnovamento riuscisse all’interno delle strutture socialiste, se si voleva utilizzare a fini di democratizzazione questa straordinaria congiuntura di un nuovo vivo legame stabilito fra il partito e il paese e di un’egemonia nuovamente conquistata, bisognava facilitare il compito di questo gruppo dubcekiano.

Noi non neghiamo pertanto la legittimità delle preoccupazioni sovietiche circa i pericoli che potevano essere insiti nella situazione, e siamo facilmente disposti a concedere che il gruppo dirigente abbia commesso errori e abbia tollerato imprudenze. Ma siamo convinti che il rimedio scelto, l’occupazione militare e la “tutela” esterna, non sia un rimedio valido, perché lo consideriamo una misura conservatrice, cioè il rifiuto dei rischi che ogni mutamento comporta per tentare di riportare le cose nel vecchio alveo. E diciamo francamente che in una situazione come quella creata da Novotny in Cecoslovacchia (e potremmo aggiungere quella di altre democrazie popolari) abbiamo paura di quello che sta fermo assai più che di ciò che si muove, pur con i pericoli che il movimento può comportare. A giudizio nostro l’errore fondamentale della scelta sovietica fu di aver fin dal primo momento cercato di salvare i vecchi dirigenti conservatori, fu la diffidenza, la critica, la polemica contro il nuovo gruppo dirigente, fu insomma il mancato appoggio a chi soltanto avrebbe potuto portare a buon fine la difficile impresa della democratizzazione che il nuovo legame fra partito e popolo rendeva finalmente possibile. È sembrato che di fronte al nuovo corso cecoslovacco il riflesso istintivo degli altri partiti al potere fosse il classico “quieta non movere”: una posizione che può sembrare saggia perché evita i pericoli vicini del mutamento, ma che accumula maggiori pericoli per un futuro più o meno lontano e rende sempre più precaria la sorte dei regimi che non riescono a ritrovare questo legame vivo con le masse popolari e con le nuove generazioni.

La nostra critica dell’intervento militare non ha quindi nulla di comune con la posizione socialdemocratica. Anche a prescindere dall’ipocrisia di tutti coloro che si scalmano per la libertà della Cecoslovacchia e viceversa accettano senza batter ciglio le aggressioni statunitensi al Vietnam, a Santo Domingo, a Cuba e a tutti gli altri paesi su cui si esercita il dominio dell’imperialismo americano, è chiaro che quel che ci preoccupa nel caso della Cecoslovacchia non è tanto la violazione di questa o di quella libertà (perché sappiamo che la lotta per il socialismo può richiedere anche temporanei sacrifici di questa natura), quanto il rifiuto dell’esperienza nuova che il gruppo dirigente cecoslovacco voleva tentare, quella cioè di costruire la prima volta in Europa un socialismo con la partecipazione attiva e responsabile di tutte le masse popolari.

Del pari speriamo sia chiaro che la nostra critica non si richiama semplicemente al diritto astratto di ogni partito comunista di regolare per conto proprio gli affari del proprio paese: non siamo disposti ad accordare fiducia a priori ad ogni partito comunista e rivendichiamo per tutti i partiti, proprio in nome dell’internazionalismo, il diritto di occuparsi della lotta mondiale per il socialismo e quindi anche di fare critiche all’operato degli altri partiti. Non ci scandalizzerebbe nemmeno l’esistenza di un’organizzazione internazionale che avesse facoltà di fissare a maggioranza in determinati casi norme imperative per i singoli partiti, come accadeva persino ai vecchi tempi della Seconda Internazionale, a condizione che non si cada nell’errore di pretendere di fissare schemi uguali per tutti senza tener conto delle reali differenze di situazione. Riconosciamo perciò volentieri al partito sovietico come a quello polacco o tedesco-orientale o a qualunque altro il diritto di giudicare e criticare l’esperienza cecoslovacca, ma non gli riconosciamo l’autorità di scegliere per gli altri il modello di socialismo. In altre parole il nostro concetto delle “vie nazionali” non implica minimamente che ogni partito debba essere autonomo nel senso di farsi gli affari suoi come meglio gli piace, ma esige che ogni situazione sia affrontata con metodi di azione rispondenti alla realtà della situazione stessa e quindi, assai spesso, diversi da paese a paese.

Perciò abbiamo sempre considerato il monolitismo di staliniana memoria come uno dei più gravi pericoli del movimento comunista mondiale e in ultima analisi, sotto l’apparenza della forza, come una delle sue debolezze, perché il monolitismo manca dell’elasticità necessaria a superare appunto la diversità delle situazioni. Sotto questo rispetto il movimento comunista mondiale deve ancora andare a scuola dall’imperialismo che da parte sua consente, anzi favorisce, regimi diversi nei diversi paesi, senza temere di perderne il controllo. Il monolitismo invece non ha margini: in caso di divergenze di indirizzo (e le divergenze di indirizzo sono una conseguenza inevitabile della diversità delle situazioni), la scelta è solo fra l’intervento armato o la rottura. I guasti che un tale metodo ha già arrecato al movimento comunista mondiale dovrebbero ammonire a non ripetere errori dettati dalla stessa mentalità, che è la mentalità del conformismo, del rifiuto del dissenso, del timore di fronte a ogni esperienza nuova, la mentalità che vede un’eresia in ogni espressione autonoma di pensiero, e in ogni eresia un attentato al sistema.

Tanto più ci addolora la nuova conferma di questa tendenza, perché mentre sappiamo che l’imperialismo comporta necessariamente l’aggressione, diretta o indiretta, agli altri paesi e la volontà di sopraffazione, sappiamo altrettanto che il sistema socialista non ne ha bisogno e può anzi vincere la sua battaglia mondiale solo in quanto dia prova della sua superiorità, non tanto o non solo sul terreno economico, quanto proprio sul terreno dell’esaltazione della dignità dell’uomo e del libero dispiegamento della personalità. E siamo troppo amici dell’Unione Sovietica, troppo consci delle immense responsabilità che ad essa competono in questa prova storica mondiale, troppo convinti dell’importanza inestimabile degli aiuti ch’essa dà al Vietnam e ad altri popoli in lotta contro l’imperialismo per non dolerci ch’essa possa commettere errori che ritardano per tutto il mondo la vittoria del socialismo. Ma siamo altresì convinti che, per non ricadere più in simili errori, i sovietici debbono essi stessi liberarsi dai sistemi che li generano, cioè dai vecchi schemi e modelli, e rendersi conto che la società sovietica ha raggiunto ormai una maturità che le permette di affrontare le sue grandi responsabilità mondiali e la sua gara con l’occidente anche sul terreno dello sviluppo democratico. Forse su certe prese di posizione sovietiche, come quella di cui ci occupiamo, pesa ancora il complesso dell’accerchiamento e pesa quindi ancora la responsabilità dei paesi occidentali che a quel complesso han dato origine con la loro politica, ma c’è da sperare che tale complesso, che non ha più fondamento reale, possa essere definitivamente abbandonato.

Allo stato attuale però non possiamo non vedere le conseguenze negative del passo che è stato compiuto, mentre non ne vediamo di positive. La prima, ovvia, conseguenza negativa è che l’intervento sovietico, qualunque ne siano le motivazioni, assume nel quadro della politica internazionale, il significato di una riconferma della politica delle sfere d’influenza, contro cui noi abbiamo sempre combattuto. Ma chi dice sfere d’influenza dice, naturalmente, che esiste anche una sfera di influenza americana e che gli Stati Uniti hanno lo stesso diritto di intervento armato nei paesi che ne fanno parte. Non a caso gli Stati Uniti si sono mostrati pubblicamente così moderati nei confronti dell’intervento sovietico e si sono anzi premurati di moltiplicare assicurazioni di neutralità.[4]

Ma ci sembra che vi siano altre conseguenze negative all’interno del movimento operaio a cui pure vogliamo accennare. Abbiamo più volte in passato affermato che tra le responsabilità non minori del regime staliniano vi è stata quella di offrire come un modello anziché come una necessità storica un esempio di socialismo non certo fatto per attrarre le masse occidentali. e abbiamo rilevato che ciò aveva certamente contribuito a indebolire il militantismo socialista in occidente e a rafforzare la socialdemocrazia. Temiamo che l’intervento militare possa avere un analogo effetto, quello cioè di presentare un volto più cupo e meno accettabile di socialismo alle masse lavoratrici occidentali, un socialismo le cui regole possono essere imposte dall’esterno, con interventi militari, contro la palese unanime volontà di un popolo sul cui atteggiamento di riprovazione verso l’occupazione militare è difficile avere dei dubbi.

Temiamo altresì che proprio per reazione all’intervento di truppe straniere si sviluppino nella popolazione cecoslovacca tendenze nazionalistiche, che nessuna rivoluzione socialista fino ad oggi è riuscita a spegnere e che, se alimentate, possono diventare un ostacolo pericoloso ad un’intesa fra i popoli. Ma il modo migliore per non virulentare i germi di nazionalismo che sonnecchiano presso ogni popolo è quello di rispettare le sensibilità nazionali. le culture nazionali, le legittime aspirazioni di un popolo a manifestare la propria personalità. In quale misura gli “accordi” di Mosca hanno rispettato questa esigenza?

Ma il timore più grave è quello che abbiamo manifestato lungo tutto il nostro ragionamento, è quello cioè che il compromesso conservatore imposto dalle potenze del patto di Varsavia rimandi di troppo tempo la soluzione di problemi che erano già drammaticamente presenti nella società cecoslovacca prima della svolta di gennaio. Qui ci sembra essere il nodo di tutte le contraddizioni della politica che è stata scelta. Quanto maggiori si affermano essere stati i pericoli di controrivoluzione, tanto più grave dev’essere il giudizio sui risultati del regime novotniano e tanto più urgente, quindi, un nuovo corso. Ora non c’è dubbio che i carri armati, l’occupazione, gli arresti, le epura. zioni non sono i mezzi migliori per favorire qualsiasi nuovo corso, ma servono soltanto a far ritornare le cose come prima e forse in un certo senso, chiunque siano i governanti che rimangono a Praga, peggio di prima. È quindi il carattere conservatore della soluzione adottata che rappresenta per noi la massima preoccupazione, né c’illudiamo che il compromesso intervenuto possa rappresentare una soluzione.

E tuttavia non vogliamo disperare per l’avvenire. Abbiamo fiducia che la classe operaia cecoslovacca e i suoi dirigenti, che han dato prova di tanto senso di responsabilità e di tanto coraggio, possano superare l’attuale fase critica e riprendere il processo interrotto. Ma abbiamo anche fiducia che la stessa URSS, su cui gravano le maggiori responsabilità per l’avvenire del socialismo, saprà trovare delle soluzioni più adeguate. Se, come c’è sembrato di comprendere, le esitazioni, le incertezze e anche le contraddizioni manifestate dai sovietici dall’inizio della svolta di Praga, sono il segno che lo stesso gruppo dirigente ha lungamente dibattuto prima di scegliere questa soluzione, se cioè lo stesso gruppo dirigente si è mantenuto lungamente incerto sulle proprie scelte, ciò significa che altre soluzioni erano state affacciate, altre possibilità erano aperte. E poiché noi crediamo fermamente che l’evoluzione della società socialista sia in ultima analisi destinata a liberare sempre di più l’uomo e ad affermare sempre di più una visione nuova del socialismo, così continuiamo a sperare che queste altre possibilità e queste altre soluzioni, che sono state scartate questa volta, possano in avvenire apparire come le migliori anche agli occhi del gruppo dirigente e del popolo sovietico.

Per quel che ci riguarda noi crediamo di dover trarre le nostre conclusioni soprattutto sul terreno delle nostre dirette responsabilità, tanto nella situazione politica italiana quanto in rapporto al movimento operaio internazionale.

Sul primo punto il fatto importante, in Italia come in altri paesi d’Europa, è la presa di posizione del partito comunista. Anche se non ne condividiamo tutte le motivazioni, riteniamo che questa clamorosa e coraggiosa prova d’indipendenza di giudizio data dal PCI apra delle nuove possibilità alle prospettive unitarie del movimento operaio. Naturalmente noi rimaniamo fermi sulle nostre posizioni, e cioè che queste prospettive unitarie debbano essere in funzione antimperialistica, anticapitalistica e antisocialdemocratica e debbano basarsi su una strategia rivolu-zionaria, e non pensiamo che il cammino sia breve per un tale traguardo. Ma riteniamo che un’ipoteca che pesava in senso contrario sia stata tolta e non sottovalutiamo l’importanza di questo fatto, anche se non ignoriamo i timori da qualche parte avanzati che l’operazione possa avere, non tanto nelle intenzioni dei dirigenti quanto nella dinamica delle cose, degli sbocchi diversi da quelli che noi auspichiamo. Appunto per questo la nostra battaglia unitaria sulle posizioni che abbiamo indicato dev’essere impegnata senza ritardi perché per la prima volta la possibilità di un grande partito con i comunisti e con i cattolici del dissenso diventa concreta. Questo significa che bisogna subito approfondire il dibattito, risalire fino alla radice, operare insieme, come ha detto Longo al CC, il “ripensamento profondo di tutti i problemi internazionali e nazionali”, ma anche il ripensamento del marxismo per farlo uscire dai vecchi schemi e restituirlo alla sua inesauribile vitalità. L’unità si può fare solo su una strategia rivoluzionaria marxista che restituisca alle masse occidentali il loro ruolo, fuor dalla visione di un socialismo che cammina solo con l’estensione della sfera d’influenza sovietica e fuori, naturalmente, da ogni prospettiva socialdemocratica.

L’altro problema che c’interessa è l’internazionalismo. Anche sotto questo profilo crediamo che gli avvenimenti di Praga contengano degli insegnamenti per noi. Respinto il monolitismo, rifiutata la soluzione del “ciascuno per conto suo”, la sola prospettiva che ci è aperta è quella di un legame internazionale di tutte le forze rivoluzionarie antimperialistiche, sufficientemente coordinato per tener conto degli interessi generali del movimento e sufficientemente articolato per tener conto, se non delle inclinazioni soggettive dei singoli partiti, certo delle reali differenze di situazioni e della necessità di adeguare metodi e strutture a queste differenze.

Costruire un grande partito marxista rispondente alle necessità della situazione italiana è il primo passo di questa battaglia. Ed è stato ed è il nostro costante obiettivo.



[1] I passi sopra citati sono tratti dall’edizione italiana del rapporto: A. DUBCEK, Il nuovo corso in Cecoslovacchia, Roma, 1968, rispettivamente a pp. 14, 10, 11 e 34.

[2] Che il movimento avesse messo in luce forme di lotta di classe, che però esistono, palesi o latenti, in tutte le democrazie popolari, lo aveva ammesso senz’altro anche Dubcek: “Si è determinata una situazione effettivamente nuova. Al posto di un solo, apparentemente indifferenziato, interesse sociale, che rispondeva al concetto che alcuni compagni dirigenti avevano delle condizioni del Paese, abbiamo davanti a noi una enorme quantità di interessi e di posizioni differenziati ed incrociantisi fra di loro”. E ancora: “In questa attività è necessario tener conto che, così come l’intera società, anche la classe operaia è differenziata al suo interno, nei confronti del progresso politico e dello sviluppo sociale” (op, cit., pp. 23 e 20).

[3] Il problema del ruolo dirigente che il partito doveva conservare era certamente presente a Dubcek. Si veda sempre nel citato rapporto: “In questa repubblica deve essere chiaro ad ognuno, e tanto più ai membri del partito, che il problema non è quello di dar vita o sviluppare una qualsiasi democrazia, ma di dar vita e sviluppare una democrazia socialista; il problema non è quello di diminuire la funzione dirigente del partito, ma di realizzarla in nodo veramente leninista, con tutte le mediazioni necessarie, in modo rispondente alle nuove condizioni del Paese; il problema non è quello di indebolire le strutture dello Stato socialista, ma di assicurare una migliore espressione del principio del centralismo democratico”. E sul ruolo della classe operaia: “Principale portatrice dell’idea di un’ulteriore e completa realizzazione della rivoluzione socialista è la classe operaia, che rappresenta il fulcro del progresso sociale” (ibid., pp. 17-18 e 20).

[4] “Le Monde” del 22 agosto notava che “l’amministrazione americana ha fatto oggettivamente tutto ciò che era umanamente possibile per convincere i dirigenti del Cremlino che gli Stati Uniti non si sarebbero mossi in caso d’intervento militare in Cecoslovacchia. [...]. I dirigenti sovietici hanno lungamente esitato prima d’intervenire a Praga. Ma gli americani hanno moltiplicato i passi per convincerli che non avevano nulla da temere dagli Stati Uniti”. E la spiegazione di questo atteggiamento si ritrova qualche riga più in alto, dove si dice: “La tesi centrale dei partigiani della guerra del Vietnam, ripresa ancora martedì sera davanti ai democratici sia da Dean Rusk che dal senatore del Wyoming, Gale McGee, è quella della sfera d’influenza. Chi attraversa le linee di demarcazione tracciate dalla seconda guerra mondiale rimette in questione l’equilibrio delle forze, pietra angolare di ogni ravvicinamento fra i blocchi”. In altre parole l’intervento nella propria sfera d’influenza e il rispetto di quella altrui possono portare a una coesistenza pacifica fra i blocchi, ma non certo al superamento dei blocchi che noi consideriamo essenziale alla pace e al progresso.