i testi
CAPITALISMO MONOPOLISTICO E STRATEGIA OPERAIA

CAPITALISMO MONOPOLISTICO E STRATEGIA OPERAIA[1]

Segni positivi del risveglio teorico di questi ultimi tempi possono essere considerati sia il dibattito promosso nel 1962 dall’Istituto Gramsci sulle tendenze nuove del capitalismo italiano[2] e le polemiche che vi si sono svolte e che l’hanno seguito, sia l’iniziativa torinese di “Quaderni Rossi”[3]: in entrambe queste manifestazioni mi è parso tuttavia che si potesse cogliere il pericolo che la reazione al contenuto socialdemocratico dell’attuale politica di centro-sinistra fosse un comprensibile ma errato rifiuto di ogni mediazione fra esigenze di fondo e lotta quotidiana[4], un rifugio - che rischia di essere più estetico che politico - nei contrasti assoluti[5], con il possibile risultato che partendo alla ricerca di una linea intransigentemente rivoluzionaria si finisca invece con l’approdare a un atteggiamento nient’affatto rivoluzionario perché privo d’incidenza sulla realtà. Non va dimenticato mai che il valore rivoluzionario di una strategia politica non si misura in base alla drasticità delle sue premesse teoriche ma alla sua capacità di trasformare effettivamente la realtà nel senso voluto, ed è a questa preoccupazione soprattutto che vuol essere ispirato il presente contributo, in cui cercherò di sintetizzare, con riferimento al dibattito in corso la linea politica che vado proponendo da anni, intorno alla quale si elaborò la piattaforma della corrente di “alternativa democratica” e per cui intendo continuare a battermi nella sinistra socialista.

La premessa fondamentale di questa linea, che mi sembra debba essere premessa comune a tutto il movimento di classe, è l’attualità non soltanto della lotta per il socialismo ma del processo rivoluzionario che deve segnare il passaggio al socialismo. Le premesse oggettive di questo passaggio al socialismo mi sembrano in larga misura mature nel mondo occidentale; meno mature mi sembrano le condizioni soggettive, cioè la coscienza delle masse e dei partiti che dirigono queste masse. Compito essenziale di una sinistra socialista mi sembra proprio quello di far maturare questa coscienza per applicare lo sforzo delle masse a far leva sulle contraddizioni immanenti della società, in primo luogo sulla sua contraddizione fondamentale, cioè quella fra il carattere sociale della produzione e l’ordinamento privatistico dei rapporti produttivi[6].

Se esaminiamo l’attuale fase capitalistica troviamo che la sua caratteristica decisiva è appunto l’esasperazione di questa contraddizione: da un lato il processo produttivo, subordina alle proprie esigenze tutta la vita sociale e dall’altro invece i rapporti produttivi sono sempre più ordinati a vantaggio di interessi particolari, di pochi ristretti gruppi che si appropriano del prodotto del lavoro collettivo e hanno potere per imporre ovunque le proprie decisioni. Stupisce che in queste condizioni possano affiorare di nuovo, come espressione di una sinistra socialista, delle tendenze operaistiche, delle tendenze che pongono il centro di gravità della lotta all’interno della fabbrica e sembrano quasi non accorgersi che la potenza del monopolio nella società di oggi non deriva da un suo accresciuto potere nei confronti dei suoi operai, nei rapporti interni di lavoro, ma proprio dal suo accresciuto potere fuori della fabbrica, prima sul mercato, poi, a poco a poco, in tutte le manifestazioni della vita politica e sociale.

Esula dai limiti di quest’articolo un’analisi della fase monopolistica della società capitalistica: tuttavia è necessario rammentarne alcune caratteristiche note, e, soprattutto, metterne in rilievo alcune tendenze di sviluppo come premessa su cui basare le linee generali di una strategia del movimento operaio in questa fase e di fronte a queste tendenze. La prima nota nettamente differenziatrice del capitalismo monopolistico o oligopolistico concentrato rispetto al vecchio capitalismo concorrenziale non riguarda i rapporti fra capitale e lavoro, ma i rapporti di mercato: essendo unici, o quasi, venditori di una determinata merce, il monopolio o l’oligopolio non sono più soggetti alle classiche leggi del mercato, ma sono anzi, fino a un certo punto, in grado di dominarle e di fissare il prezzo della merce che vendono, e per questa via di predeterminare il proprio profitto[7]. Da ciò la possibilità di accumulare profitti superiori alla media e di promuovere quell’intensificata accumulazione interna, nota sotto il nome di autofinanziamento, che rende il monopolio indipendente, almeno in larga misura, dal credito e dal mercato finanziario. Ma su questa base la disponibilità di mezzi da investire cresce più rapidamente di quanto non cresca la domanda solvibile di prodotti e quindi di quanto non crescano le occasioni di investimento redditizio[8] (perché a nulla servirebbe fare nuovi investimenti se il nuovo prodotto non trovasse sbocchi), e cioè su questa base si acuisce una delle contraddizioni più gravi del sistema, mentre la situazione di monopolio e la conseguente rigidità dei prezzi hanno distrutto le capacità autoregolatrici del mercato. Il capitalismo monopolistico perciò è costretto a servirsi dei poteri pubblici per una serie di interventi che correggano i successivi squilibri, in modo particolare creando quelle possibilità di sbocco che sono necessarie per mantenere in efficienza il meccanismo economico[9] (politica imperialistica per assicurare il controllo di mercati esteri, redistribuzione del reddito per incrementare la domanda interna, ma, soprattutto, dilatazione della spesa pubblica e creazione di mercati sussidiari, fra cui in prima linea quello offerto dal riarmo). L’interpenetrazione fra potere economico e potere politico è oggi, in queste condizioni, una necessità di vita per il capitalismo monopolistico, ed è grazie a questa interpenetrazione che i grandi gruppi monopolistici hanno potuto a poco a poco dominare tutti i settori della vita nazionale, e, in alcuni casi, di quella internazionale e hanno imposto ovunque rapporti capitalistici anche nei confronti dei settori la cui dinamica interna non è ancora capitalistica (come una larga parte del settore agricolo, della piccola produzione, del mondo coloniale, ecc.).

Ne deriva che oggi il settore monopolistico (usiamo questa espressione nel senso che essa ha oggi assunto nella polemica politica e non in senso rigorosamente tecnico-economico che suggerirebbe piuttosto l’espressione di ‘oligopolio concentrato’) non soltanto si appropria del plusvalore prodotto dai suoi operai, ma, grazie al suo forte potere di mercato che gli permette d’imporre i prezzi sia dei prodotti che vende che di quelli che compra, riesce ad appropriarsi almeno di una parte del plusvalore prodotto in tutti gli altri settori non monopolistici: sia in quello agricolo, sia in quello del piccolo produttore indipendente, sia anche in quello delle aziende capitalistiche non monopolistiche, dove il tasso di profitto è minore e spesso, di conseguenza, anche i salari degli operai sono più bassi proprio per il peso che il settore monopolistico esercita sul mercato. Ridurre quindi, nella presente situazione, la lotta di classe al rapporto interno di fabbrica, proprio mentre la caratteristica della fase attuale del capitalismo è la creazione di questi complessi meccanismi che permettono di esercitare lo sfruttamento in una sfera molto più vasta, anche senza il vincolo formale del rapporto di lavoro, è perlomeno curioso.

Ma c’è di più. Fra le incidenze principali del monopolio vi sono quelle nei confronti dell’occupazione operaia. Poiché nota essenziale del capitalismo è che l’operaio possa vendere la sua forza di lavoro, e cioè trovare un’occupazione, solo se ha di fronte a sé un capitalista che dall’acquisto della sua forza di lavoro può trarre un profitto, è evidente che se il monopolio diminuisce questa possibilità la disoccupazione che ne deriva dev’essergli imputata, e che pertanto i lavoratori che non riescono a vendere la propria forza di lavoro, cioè i disoccupati, sono le sue principali vittime. E tale è appunto oggi la situazione in generale[10].

Certo, a meno di non cadere in quell’obiettivismo economico che siamo tutti d’accordo nel condannare, è difficile ridurre oggi la lotta politica entro gli schemi di rapporti economici “puri” come il rapporto di lavoro. È difficile, da un lato, per la ragione che abbiamo accennato e cioè che il capitalismo monopolistico non va a ricercare le sue vittime fra i suoi dipendenti, ma più volentieri al di fuori, talché ognuno di noi, in qualche momento della nostra complessa esistenza sociale, è preso nella rete dei rapporti capitalistici ed è vittima del monopolio, mentre non è escluso che i dipendenti diretti possano essere, se mi è lecita l’espressione, “meno vittime”, magari qualche volta associati a certi benefici e addirittura possibili alleati (parlo qui, s’intende, in senso generale e senza nessuno speciale riferimento all’Italia, perché siamo ancora in sede di discussione teorica e non di indagine pratica)[11]. Ed è difficile anche per l’altra ragione che nessuno è soltanto “operaio” ma ognuno è uomo che vive una vita completa nella società e le sue scelte politiche non sono influenzate soltanto dal rapporto di lavoro ma appunto da tutta la sua vita sociale[12]. È perciò nella vita sociale in tutta la ricchezza delle sue manifestazioni, e non nella vita aziendale e di fabbrica soltanto, che dobbiamo spingere la nostra indagine, ed è la lotta più articolata quella che dobbiamo saper suscitare: la lotta della società contro il suo dominatore rappresentato dal sistema di potere che il monopolio ha instaurato. Certo in questa lotta la funzione dirigente spetta sempre alla classe operaia, ma non tanto perché essa sia direttamente impegnata nel rapporto di lavoro, quanto per il fatto che la sua esperienza storica e la sua posizione sociale ne fa la portatrice per eccellenza dei valori collettivi. In altre parole oggi più che mai, nella fase monopolistica, è fuori dalla fabbrica, fuori dal ristretto ambito aziendale, che bisogna studiare e analizzare sia le basi del potere capitalistico, sia l’estrinsecazione e le conseguenze dell’azione del grande capitale, più che mai oggi è fuori dalla fabbrica, nel tessuto sociale e nei centri decisionali che bisogna portare l’attacco al monopolio, più che mai oggi è in tutti gli strati sociali che bisogna ricercare i temi e sviluppare le alleanze in una lotta contro il capitalismo e per il socialismo.

1. Tendenze di sviluppo della società monopolistica.

Come si configura oggi il rapporto potere monopolistico-società? Già Lenin avvertiva nel suo saggio sull’imperialismo che il monopolio avrebbe provocato un immenso progresso nella socializzazione della produzione[13] e non occorre certo spendere parole per sottolineare a quale grado sia giunta la socializzazione del processo produttivo, al punto che si può dire che ormai tutta la vita sociale sia regolata dal ritmo del processo di produzione. Anche il consumo, l’altra faccia del processo produttivo, è ormai soggetto a questa esigenza di socializzazione, e l’uomo stesso è afferrato da questa macchina non solo, com’è naturale, in quanto lavoratore, nel momento dell’impiego della sua forza di lavoro nella fabbrica, ma anche prima dell’impiego, nei momenti della sua formazione, nella scuola che viene ormai organizzata secondo le esigenze della produzione monopolistica, e, si può dire, in ogni momento della sua vita spirituale. La politica interna, internazionale ed economica dei governi, la cultura orientata, i divertimenti di massa: tutto ormai è funzione della stessa esigenza sociale, il processo produttivo. Anche la vita privata viene rimodellata secondo i nuovi bisogni: i vecchi istituti e i vecchi gruppi, dalla famiglia alle piccole comunità locali, vengono a poco a poco schiacciati e sostituiti dal processo di urbanizzazione che crea un tessuto assai fitto di rapporti anonimi nei quali l’individuo rischia di perdere la propria personalità per diventare soltanto un elemento, anch’esso anonimo, della macchina sociale.

Non tutto, certo, è negativo in questo processo di socializzazione, che è anzi in gran parte inscindibile dallo sviluppo della tecnica moderna. Quel che è sicuramente negativo, quel che rappresenta appunto la contraddizione fondamentale è che, nella società attuale, il processo è subordinato a fini di interesse privato, che tutti i rapporti sociali sono ordinati allo scopo di meglio garantire l’appropriazione privata del prodotto sociale, e che la società viene spogliata del suo autonomo potere che si concentra in ristrettissime mani e la domina dall’alto: il potere monopolistico diventato potere politico. Perché è appunto in questo contrasto che sta la ragione della condanna dell’attuale sistema sociale, ed è nell’esasperazione a cui esso è stato portato dall’attuale fase monopolistica che sta la necessità attuale della lotta per il socialismo, la necessità di dare alla società nel suo complesso il dominio sul processo produttivo ormai completamente socializzato, e di restituire per questa via all’uomo la sua essenza sociale, cioè la sua natura umana.

Non credo sia necessario insistere molto su questi aspetti della fase attuale del capitalismo, che sono noti: mette conto piuttosto di cercare di estrapolare da questa situazione le linee principali delle, tendenze ulteriori di sviluppo. Una prima tendenza è certamente quella alla concentrazione crescente di potere economico: al limite questa tendenza punta all’assoggettamento di tutto il mercato capitalistico mondiale a una potenza monopolistica internazionale unitaria. Scrivendo questo, non ignoro i profondi contrasti d’interesse che dividono il mondo dei monopoli: monopoli di paesi diversi, o anche dello stesso paese e della stessa branca, o di branche affini o comunque concorrenti nell’assorbimento del plusvalore prodotto dalla società, oppure monopoli venditori e compratori, e via discorrendo. Ma non ignoro neppure che questi contrasti agiscono generalmente in una doppia direzione, il conflitto e la conciliazione: conciliazione che può risultare dalla vittoria definitiva di un gruppo con contemporaneo assorbimento, dell’altro, o può portare a una fusione o un’intesa cartellistica o di altro tipo, o alla creazione di nuove imprese comuni a partecipazione ripartita, alla formazione di trusts internazionali o addirittura di istituzioni di nuovo tipo che siano espressione di un interesse comune. In ultima analisi, pur attraverso aspre lotte, non c’è dubbio che il processo di concentrazione è andato sempre sviluppandosi anche a livello internazionale e che, essendo ormai sempre meno probabile il regolamento bellico dei contrasti imperialisti che fu la forma di regolamento preferita in passato, la tendenza verso la soluzione conciliativa e la creazione di intese e di legami sempre più stretti ne risulta rafforzata. Una quarantina d’anni fa Lenin avvertiva questa tendenza scrivendo nella sua Prefazione al libro di Bukharin su L’economia mondiale e l’imperialismo:

“Non c’è dubbio che lo sviluppo del capitalismo va nella direzione di un singolo trust mondiale che inghiottirà tutte le imprese e tutti gli Stati, senza eccezione alcuna. Ma lo sviluppo in questa direzione avviene sotto una pressione tale, con un ritmo tale, con tali contraddizioni, conflitti e convulsioni - non solo economiche, ma anche politiche, nazionali, ecc.- che, prima che si giunga a un singolo trust mondiale, prima che i capitali finanziari dei vari Paesi abbiano formato un’unione mondiale ‘ultra-imperialistica’, l’imperialismo dovrà inevitabilmente scoppiare, e il capitalismo si trasformerà nel suo opposto”.[14]

A questa diagnosi di Lenin mi sembra necessaria un’aggiunta, e cioè che l’imperialismo crollerà certamente, non per fatalità di eventi, ma solo se il movimento operaio saprà combattere la sua battaglia per farlo crollare. In altre parole credo che nella logica dell’imperialismo la tendenza all’unificazione sia più forte delle lacerazioni provocate dalle contraddizioni, se di queste contraddizioni non sa servirsi l’intervento cosciente del movimento operaio per provocare il crollo dell’imperialismo. Ma di questo intervento cosciente dirò più avanti.

Una seconda tendenza destinata ad accentuarsi sempre più in avvenire è quella relativa all’interpenetrazione di potere economico e potere politico, cioè, praticamente, all’orientamento di tutta la politica statale ai fini voluti dal potere monopolistico. Abbiamo già accennato al fatto, che non ha certo bisogno di dimostrazione, che il capitalismo monopolistico ha eliminato i meccanismi autoregolatori che si sviluppavano in regime concorrenziale, ma non ha viceversa eliminato le cause di squilibrio che rendevano necessari quei meccanismi: al contrario, abbandonato alla sua spontaneità, esso esaspererebbe la contraddizione fra la necessità di mantenere un alto saggio di accumulazione per assicurare piena efficienza al sistema e l’impossibilità di mantenerlo per il venir meno, a un certo punto, del profitto che è la molla del sistema, cioè sarebbe soggetto alla più grave instabilità[15]. Per evitarlo è necessario far ricorso ad un complesso di tecniche di previsioni e di tecniche di correzione capaci di ridurre continuamente l’ampiezza delle fluttuazioni e degli squilibri e di fornire quei rimedi anticiclici, che soli possono evitare la catastrofe. Ma queste tecniche richiedono una continua estensione dell’intervento pubblico nella vita economica, sia per facilitare e orientare gli investimenti (preparazione di infrastrutture, sussidi e incentivazioni, gestione di pubblici servizi, politica di sostegno dei prezzi, programmazione concertata), sia per sostenere la domanda (spesa pubblica, e soprattutto riarmo, redistribuzione di redditi per sostenere la domanda di beni di consumo, acquisto di prodotti eccedentari, ecc. ), senza parlare dei sistemi più tradizionali di intervento con la politica fiscale, creditizia, doganale, monetaria, e della politica internazionale che si può dire ormai interamente dominata da problemi di questa natura. E, come ho già accennato, poiché il processo di socializzazione della produzione investe ormai tutti gli aspetti della vita sociale, a cominciare dalla preparazione scolastica che dev’essere subordinata ai fini della produzione, ne deriva che gli interessi privati che reggono il processo produttivo hanno bisogno che lo Stato indirizzi la sua politica, anche fuori dall’ambito economico, sui binari che portano al soddisfacimento delle loro esigenze. Una volta che sia chiaro che il sistema capitalistico nella sua fase attuale non può vivere senza questo continuo intervento del potere pubblico in tutti i settori, ne deriva che il potere concentrato dei monopoli non può rinunciare a controllare il potere pubblico e che questo a sua volta è posto di fronte al dilemma di subordinarsi al sistema o di lottare per distruggerlo[16]. Anche qui pertanto, senza un intervento cosciente in senso contrario, la tendenza spontanea del sistema è verso il totale asservimento del potere politico agli interessi privati sempre più concentrati in mani ristrette, portando a un grado ancor più alto la contraddizione fondamentale fra il carattere sempre più sociale della produzione - talmente sociale da rendere necessario per il suo funzionamento un coordinamento di tutto il meccanismo della società - e l’appropriazione privata del prodotto sociale che arriva fino a confiscare tutto il potere statale per i suoi fini privati.

Ma sarebbe errato pensare che il potere politico serva al grande capitale solo per imporre coattivamente la propria volontà, come fu con i primi esperimenti nazi-fascisti: al contrario il sistema ha bisogno di raggiungere il massimo possibile di razionalità (beninteso di razionalità concepita secondo la logica del proprio funzionamento interno) e questa razionalità presuppone a sua volta il massimo di armonia fra i diversi momenti di cui si compone l’ingranaggio complesso del sistema: da ciò la necessità di smorzare e di velare le contraddizioni e anzi di creare, sul piano sovrastrutturale, tutta una serie di meccanismi di armonizzazione. Armonizzazione fra capitale e lavoro (ottenuta in parte con miglioramenti effettivi, ma in parte con elementi sovrastrutturali che vanno dalle human relations americane alla Mitbestimung tedesca o alle conferenze triangolari fra governo, padronato e sindacati operai in uso in parecchi paesi), armonizzazione, come si è già accennato, fra monopoli contrastanti, fra imperialisti e popoli colonizzati (politica degli aiuti, neocolonialismo), fra produttori e consumatori (public relations), fra monopolisti e personale politico, ecc.[17]. Queste esigenze di armonizzazione si esprimono in forma più generale nelle nuove ideologie neocapitalistiche, del capitalismo popolare e addirittura dell’imperialismo popolare, e della piena occupazione, ideologie che vengono inculcate attraverso i mezzi di comunicazione di massa[18]. Un aspetto ideologico particolarmente importante in questa direzione è rappresentato dal nuovo cattolicesimo sociale quale si è venuto profilando in questo dopoguerra e che costituisce nei paesi cattolici il più forte cemento di unità ideologica e tende praticamente ad esautorare la funzione anche della socialdemocrazia, in quanto si spinge ad occupare posizioni riformistiche più avanzate o perlomeno più moderne[19].

In sostanza questo processo di armonizzazione tende a creare un consenso generale attorno al sistema, consenso tuttavia ottenuto grazie alla totale subordinazione ideologica delle masse lavoratrici e dell’intera popolazione all’ideologia del sistema. Opera in questa direzione la tendenza all’isolamento degli individui e all’atomizzazione della società: ogni singolo è confinato negli aspetti tecnici, settoriali, corporativi, particolaristici, con la distruzione di ogni autonoma posizione ideologica e politica, è respinto sempre più nel chiuso della propria individualità, del proprio micro-mondo, gli interessi e i problemi generali essendo sempre più riservati al potere decisionale dei pochi ristretti gruppi che detengono totalitariamente il potere. Siamo cioè ancora in presenza di una tendenza allo Stato totalitario, che è indissolubilmente legata alla crescita del sistema monopolistico: anche se il totalitarismo statuale non è più teorizzato come ai tempi fascisti (ché anzi preferisce appoggiarsi sulla democrazia e sul consenso), esso è intrinsecamente nelle cose perché il sistema può funzionare solo se tutta la vita sociale è subordinata alle sue esigenze.

E d’altra parte se la forma preferita dai monopoli è questa specie di totalitarismo silenzioso e inconfessato, ciò non significa che, qualora non funzionino i meccanismi armonizzatori, non si possa o debba ancora fare ricorso ai meccanismi di coazione: anzi in un certo senso si può dire che i primi possono essere messi in funzione solo dopo che i secondi hanno aperto il cammino, almeno silenziosamente. E sono poi comunque pronti per ogni eventualità. In ultima analisi la tendenza immanente al mondo capitalistico di oggi è la tendenza verso la concentrazione universale del potere economico e politico in pochissime mani, verso una forma di fascismo universale, un fascismo liberato per quanto è possibile dalle sue forme più rozze e brutali e fatto padrone di un’umanità finalmente addomesticata a servire[20].

2. Attualità del socialismo.

È chiaro peraltro - e lo ripeto per non lasciar luogo a dubbi - che se queste sono le tendenze spontanee del sistema, è altrettanto vero che il sistema stesso, a causa delle sue contraddizioni interne, genera delle forze capaci di contro-operare efficacemente fino a distruggerlo e aprire la via al socialismo. Tuttavia, ed è questo un punto che va sottolineato con estrema energia, queste forze non operano automaticamente. Non c’è nessuna fatalità nel passaggio dal capitalismo al socialismo, e se si può parlare di una “necessità storica” lo si può solo nel senso che si tratta di un momento dialettico inerente al processo storico che deve esprimersi peraltro in una volontà cosciente di lotte e di superamento. La responsabilità del movimento operaio, e in particolare dei suoi dirigenti, è quindi massima: se essi non avvertono le tendenze in atto, se si lasciano cloroformizzare dall’imperialismo popolare e dalle sue ideologie, se si accodano in posizione subalterna credendo di servire l’interesse delle masse entro il sistema, essi si rendono responsabili di lasciare via libera alle forze intrinseche al sistema che operano in direzione totalitaria. Se al contrario essi promuovono e aiutano la formazione di una coscienza autonoma di classe, e ne indirizzano gli sforzi verso la lotta aperta contro il sistema, possono trovare oggi le condizioni più favorevoli perché questa lotta sia vittoriosa.

Queste condizioni favorevoli sono offerte appunto dalle contraddizioni del sistema cui ho in parte già accennato e che voglio qui sommariamente ricapitolare. La più profonda di queste contraddizioni, quella che è alla radice del ciclo e quindi delle crisi e che tuttora determina la continua instabilità, è quella che deriva direttamente dalla natura stessa del sistema mosso esclusivamente dal profitto privato, cioè lo squilibrio fra il ritmo di incremento della capacità produttiva e il ritmo di incremento della domanda solvibile, o, in altre parole, fra la tendenza ad accumulare una massa sempre più ingente di mezzi da investire, e la crescente difficoltà di trovare possibilità di investimento che rispondano all’esigenza del profitto, per l’insufficiente dilatazione della capacità di acquisto dei beni prodotti. Per ripetere un’espressione efficace di Sweezy, il capitalismo preme sul freno per quanto riguarda il consumo e sull’acceleratore per quanto riguarda la produzione[21], e questo squilibrio è paurosamente accresciuto nella fase monopolistica proprio per il ritmo più intenso che questa fase imprime all’accumulazione di profitti da reinvestire da parte dei monopoli. Nonostante l’intervento dei fattori esterni cui si è accennato, soprattutto della spesa pubblica in funzione anticiclica, una condizione di cose di questa natura provoca inevitabilmente una serie continua di fluttuazioni, che se non sono ancora arrivate in questo dopoguerra ad una crisi di vaste proporzioni, sono tuttavia cagione di recessioni, di bruschi sbalzi o di stagnazioni che hanno riflessi inevitabili sul livello di occupazione e di salario. Più ancora che nelle fasi capitalistiche precedenti, la fase monopolistica tende a produrre disuguaglianze nei redditi, e, nonostante le apparenze, tende ad abbassare i salari ad una quota sempre minore del reddito nazionale[22], tendenza che solo una dura lotta sindacale può in tutto o in parte annullare. E per quanto riguarda il livello dell’occupazione, ho già accennato alla tendenza depressiva insita nel sistema[23], che si manifesta del resto apertamente nelle forme strutturali assunte dalla disoccupazione negli Stati Uniti. A queste manifestazioni tipiche dell’attuale fase capitalistica che sono in radicale contrasto con l’aspirazione generalizzata dei lavoratori alla stabilità e alla sicurezza, si aggiunge lo squilibrio continuamente provocato dallo sviluppo ineguale del capitalismo, squilibrio fra industria e agricoltura, fra paesi industrializzati e paesi coloniali e semi-coloniali, fra diversi rami d’industria (soprattutto fra quelli monopolistici e quelli concorrenziali) o fra diverse regioni di uno stesso paese: anche questo tipo di squilibri, connaturato al capitalismo, è oggi aggravato dalla presenza e dall’influenza che è esercitata dal meccanismo di sviluppo dei settori monopolistici: la contemporanea presenza di meccanismi di sviluppo diversi è fonte continua di attriti, di squilibri, di tensioni.

Ma uno degli aspetti più negativi del capitalismo monopolistico è rappresentato proprio dai meccanismi con cui si cerca di correggere le fluttuazioni e gli squilibri e di evitare le crisi, meccanismi che tendono a produrre in altra forma gli stessi effetti delle crisi, cioè a distruggere ricchezza accumulata o potenziale mediante quella che è stata definita “l’istituzionalizzazione dello spreco”, di cui il riarmo è la manifestazione più vistosa[24]. Ma il riarmo non è solo spreco, non è solo un fatto economico, ma è un fatto politico che comporta conseguenze gravissime: per poter essere sostenuto ha bisogno di essere coltivato in un’atmosfera di guerra fredda e può essere a sua volta causa ad ogni momento di guerra calda. Non solo, ma spesa per riarmo significa in generale minore spesa per i servizi sociali, per i bisogni collettivi: “tutte le pressioni generate dalla società capitalistica tendono a fissare il livello delle spese militari al di sopra del bisogno, e il livello della spesa sociale molto al di sotto del bisogno”.[25] Riarmo e insufficiente soddisfazione dei bisogni sociali sono due aspetti profondamente radicati nella presente società.

Infine, per concludere questo rapidissimo excursus, è necessario aggiungere che proprio in conseguenza della mancanza di meccanismi autoregolatori e della conseguente necessità di stimoli esterni, lo sviluppo economico oscilla continuamente fra il boom inflazionistico e la recessione deflazionistica, fra il sostegno dato dalla spesa pubblica e dal credito alla domanda effettiva e le restrizioni creditizie e il blocco dei salari.

Se un’astratta razionalità presiedesse alle azioni umane, sarebbe difficilmente pensabile che un sistema economico di questa natura potesse durare, ma in realtà, come si è visto, esso ha saputo non solo attenuare le manifestazioni più vistose della sua cronica instabilità ma ne ha mascherato anche le ragioni profonde. Non solo infatti si tratta, nella maggior parte dei casi, di contraddizioni e squilibri che agiscono nel lungo periodo, e quindi sono più difficili da avvertire da parte delle masse, ma il sistema è riuscito a mettere in opera tutta una serie di meccanismi sovrastrutturali che riescono a mistificare la coscienza e a mascherare la realtà. Tuttavia se l’azione di questi meccanismi può essere efficace all’interno e frenare le tendenze autodistruttrici che la natura intrinseca del sistema, con le sue contraddizioni, comporta, essa è sicuramente molto meno efficace nei confronti di una “sfida” che provenga dall’esterno del mondo capitalistico. In altre parole, il compito degli apologeti del capitalismo, che da circa due secoli si sono sforzati di dimostrare la razionalità del sistema, diventa molto più difficile da quando esiste nel mondo un altro sistema che può costituire un utile termine di raffronto. Infatti, se è vero quel che la critica marxista ha sempre sostenuto, che l’ordinamento capitalistico dei rapporti di produzione contraddice alle esigenze di sviluppo delle forze produttive, se ne deve dedurre che un ordinamento diverso dei rapporti di produzione, ispirato non più alle esigenze del profitto ma al benessere della collettività, può e deve realizzare dei ritmi più intensi di espansione produttiva e un benessere sociale più diffuso.

Il capitalismo ha avuto la sua giustificazione storica - giustificazione storica anche degli orrori delle miserie e delle sofferenze infinite che ha imposto all’umanità - proprio per la capacità che ha dimostrato, in confronto di qualsiasi regime precedente, di suscitare delle immense forze produttive e di imprimere allo sviluppo economico della società un ritmo assolutamente senza paragone con il passato. Ma per la stessa ragione esso perde ogni titolo di validità storica se si dimostra che un altro sistema sociale è oggi in grado di superarlo, di ottenere una maggiore espansione delle forze produttive e un più alto grado di benessere. Sotto questo profilo le vicende dei paesi socialisti diventano un fatto interno anche del mondo capitalistico, un termine costante di paragone, uno strumento vivente di critica, un metro permanentemente rinnovato di giudizio sulla “razionalità”, sulla “validità storica” del regime capitalistico.

Ora credo che non ci sia dubbio che il sistema socialista ha esercitato nei confronti del capitalismo questa funzione di metro di paragone, di sfida e di pungolo, fin dai tempi della grande depressione degli anni ‘30 (quando l’Urss fu immune dalle piaghe della crisi e della disoccupazione che affliggevano il mondo capitalista) giù giù fino alla sfida kruscioviana e alle imprese spaziali che sono alla base del notevole sforzo tentato da Kennedy e dai suoi collaboratori per imprimere un nuovo ritmo all’economia americana e occidentale in genere, per tentare nuove forme organizzative, per cercare di colmare il grave handicap in fatto di investimenti sociali e di lotta alla miseria. È ora estremamente importante che i paesi socialisti sappiano alla loro volta superare le loro difficoltà e imprimere un nuovo slancio all’edificazione del sistema, mettendo in valore tutta la ricca potenzialità contenuta nei rapporti socialisti di produzione in fatto di razionalità interna, stabilità, equilibrio, effettiva piena occupazione, ritmi di sviluppo, uguaglianza distributiva, capacità di far fronte a tutti i servizi pubblici e in particolare a tutti quelli che attengono al fattore umano (salute fisica, cultura, specializzazione tecnica, ecc.), e, infine, di libero sviluppo della personalità ed effettiva gestione democratica della società, ma le circostanze specifiche in cui si è venuto edificando il nuovo sistema ne hanno reso difficile la maturazione, rallentando di conseguenza il processo di superamento, del sistema capitalistico, che è già condannato dalla storia e che è destinato a scomparire quando i nuovi rapporti di produzione avranno potuto finalmente spiegare tutta la loro ricchezza.

3. La lotta per il potere.

Il fatto che il sistema capitalistico possa ormai considerarsi storicamente superato non significa ancora che esso stia per essere di fatto superato. La rivoluzione socialista non è né lo sbocco meccanico di un processo cumulativo di tensioni (quale sarebbe p. es. la “miseria crescente” secondo una teoria falsamente attribuita a Marx e purtroppo ancora in voga in alcuni settori del movimento operaio) né il passaggio silenzioso, graduale e quasi insensibile dal capitalismo avanzato al socialismo, secondo una concezione cara ai riformisti. Tutti i tentativi di scoprire il meccanismo oggettivo dell’autodistruzione capitalistica o la legge fatale del superamento mi sembrano condannati a una perpetua smentita. La rivoluzione socialista non può essere che il frutto di un intervento cosciente delle forze produttive nel processo storico allo scopo di trasformare in senso socialista l’ordinamento dei rapporti produttivi. Nasce quindi dalla contraddizione di fondo della società capitalistica, ma in quanto questa contraddizione si traduca in coscienza di classe e si esprima in un’azione rivoluzionaria. Senza questo intervento cosciente, la società capitalistica può vivere lungamente perché è una società capace di continue trasformazioni, capace di superare le proprie contraddizioni con altre contraddizioni, capace di trovare nuovi meccanismi di autoconservazione che, se non risolvono mai i problemi fondamentali, consentono tuttavia di superare di volta in volta le difficoltà. In quale direzione l’attuale società tenda ad evolversi ho cercato di mettere in evidenza. Quali sono, nelle condizioni attuali, le possibilità di rovesciare questa tendenza con un’azione rivoluzionaria? E, innanzi tutto, esistono le premesse obiettive di questa azione rivoluzionaria?

La risposta non può che essere positiva. Sono le esigenze nascenti dal carattere sociale del processo produttivo che spingono la stessa società capitalistica verso soluzioni che in un certo senso si possono considerare premesse obiettive del socialismo. Certo sono soluzioni che la società capitalistica ricerca nel proprio interesse ma che le sono dettate da necessità di fatto; non sono quindi soluzioni arbitrarie ma soluzioni legate precisamente al carattere sociale della produzione. L’intervento pubblico nell’economia, le nazionalizzazioni, la contabilità nazionale, la pianificazione anche soltanto concertata, i tentativi progressivi di razionalizzazione del sistema, il superamento delle barriere nazionali e l’integrazione economica sono tutte misure bivalenti e che devono essere viste in una prospettiva dialettica[26], e cioè come misure utili anzi necessarie al capitalismo, ma al tempo stesso contenenti un passo obiettivo verso il socialismo. Non è del resto tutta la storia del capitalismo una serie di passi obiettivi verso il socialismo?

La natura bivalente di queste misure e di queste soluzioni, se da un lato favorisce il movimento operaio perché porta ad una fase sempre più avanzata la preparazione delle premesse oggettive del socialismo rendendo indubbiamente più facile il futuro passaggio, dall’altro lato tuttavia gioca, nel presente, a vantaggio di chi detiene il potere, cioè dei monopoli. “Il personale, i metodi e lo spirito con cui una misura o una serie di misure sono realizzate sono molto più importanti del contenuto della misura stessa” ha scritto Schumpeter[27], e non c’è dubbio che finché il potere è nelle mani dei capitalisti, personale, metodi e spirito giocano prevalentemente a loro favore. E tuttavia, proprio perché si tratta di misure in una certa direzione (nazionalizzazione, pianificazioni, ecc.) e proprio perché hanno un contenuto bivalente, esse si prestano ad essere scambiate già oggi per misure di carattere socialista: il loro contenuto potenziale può apparire come un contenuto attuale. E in questo senso rischiano di disarmare il movimento operaio, che si illude di aver ottenuto delle vittorie definitive, proprio nel momento in cui si consolida il capitalismo.

Ecco perché è più che mai necessario che, in concomitanza con questi sviluppi obiettivi della società capitalistica, avanzi la coscienza soggettiva delle masse: la coscienza delle contraddizioni profonde e ineliminabili del capitalismo, la coscienza della condanna storica del sistema e della necessità storica del socialismo, la coscienza che, solo impadronendosi del potere, le masse lavoratrici possono far funzionare a proprio vantaggio il meccanismo della società e realizzare il socialismo. In altre parole è necessario sciogliere definitivamente la contraddizione fondamentale fra il carattere sociale della produzione e l’ordinamento privatistico dei rapporti di produzione, sviluppando ulteriormente il primo e trasformando il secondo in senso socialista, in un senso che sia armonico con la socializzazione del processo produttivo. Quanto più cioè, la dinamica capitalistica avanza lungo la via che abbiamo descritto e crea gli strumenti atti a dirigere, sotto il suo dominio e nel suo interesse, un processo produttivo che impegna tutta la società, tanto più urgente diventa per le masse lavoratrici, per la società nel suo complesso strapparle di mano questi strumenti e assumere nelle proprie mani la direzione della cosa pubblica. Lungi dall’avvicinare le posizioni e dall’attenuare i contrasti, l’evoluzione neocapitalistica, sotto le sue apparenze riformistiche, rende drammaticamente urgente la lotta per il potere e quindi acuisce i contrasti.

Ma la lotta per il potere non è una lotta che si svolga in un atto unico, non è il fatto istantaneo di un moto rivoluzionario, di uno sciopero generale prolungato fino alla capitolazione della borghesia, né una qualunque altra soluzione di tipo analogo. La lotta per il potere è una lotta lunga e complessa, è un processo graduale che si svolge in tutte le sedi, che può assumere metodi e forme varie secondo le circostanze e che può avere successo solo se è organizzata e diretta secondo un piano d’azione e di lotta sistematico e coerente. Obiettivo finale è la trasformazione dello Stato: chiarire la natura dello Stato è pertanto indispensabile ai fini del presente discorso.

Mi limito comunque a riassumere cose di cui mi sono occupato molte volte sulla rivista “Problemi del Socialismo”[28]. Da un lato mi sembra necessario smascherare l’illusione parlamentaristica, l’illusione che il parlamento rappresenti. l’organo supremo del potere e la perfetta espressione della sovranità popolare. In realtà né l’una né l’altra cosa sono vere: la prima, perché l’esperienza politica c’insegna che, nella maggior parte, dei casi il parlamento si limita a sanzionare le decisioni prese in altra sede (di governo, di partiti di maggioranza, di burocrazia, di interessi economici, ecc. ), e prese, naturalmente, in armonia con le forze politiche e sociali che dominano la vita del paese; la seconda, perché è lo stesso sistema parlamentare che falsa la volontà popolare in quanto riduce la complessa realtà sociale a un comune denominatore politico, con il risultato di riassorbire e praticamente annullare le spinte eversive offrendo ad esse l’illusione del potere. In altre parole il sistema parlamentare opera nel senso che le tensioni, le lotte, i contrasti anche i più acuti della vita sociale tendono a trasferirsi sul terreno parlamentare, abbandonando altri strumenti di lotta e affidandosi alla mediazione degli operatori specializzati della vita parlamentare che sono i partiti, ma questi, proprio per poter assumere il ruolo di operatori specializzati della vita parlamentare, devono in generale adeguarsi alla logica del sistema che comporta la rinuncia alle posizioni di rottura, il trasferimento su un piano di vertici delle pressioni di massa, e la subordinazione a scelte e a decisioni che in realtà stanno al di fuori dell’effettivo potere del parlamento. La logica del sistema è tale che finisce con il condizionare completamente non solo i partiti ma lo stesso corpo elettorale e ridurre quella che dovrebbe essere una rigogliosa vita democratica a una piatta routine, e quindi praticamente a un meccanismo di conservazione. In realtà le fonti del potere effettivo sono fuori delle istituzioni costituzionali e la classe dominante dispone di tali e tanti strumenti per far sentire il peso della sua volontà, che è relativamente indifferente alle istituzioni in cui questa volontà è destinata a incarnarsi e può adattarsi sia al sistema parlamentare che a quello del potere personale; se spesso preferisce il primo è proprio perché il parlamentarismo ammortizza le spinte eversive mentre il potere personale le soffoca ma può anche esasperarle.

Questo non significa naturalmente che il parlamento non conti nulla: esso è pur sempre se non il depositario di tutto il potere, un momento del potere, e un partito che voglia e sappia utilizzarlo seriamente può indubbiamente ricavarne assai utili risultati. Ma soprattutto questo significa che al di fuori e al di là del parlamento vi sono infiniti altri strumenti di potere, altri strumenti cioè attraverso cui è possibile far pesare, nel gioco complesso della vita politica, la propria volontà. Ho detto che la classe dominante dispone in larga misura di questi strumenti, ma anche i lavoratori ne dispongono e più ne disporrebbero se, pur non rinunciando alle lotte parlamentari, si liberassero tuttavia dall’illusione parlamentaristica, e utilizzassero le proprie forze in tutti i gangli della vita sociale. Sono organi di potere infatti tutti quegli strumenti attraverso cui è possibile esercitare delle pressioni e influire sulle decisioni: tali sono quindi non solo gli organi istituzionali (parlamento, comuni, province, ecc.) ma anche i partiti, i sindacati, le cooperative, le commissioni interne, la stampa, tutti gli strumenti formativi dell’opinione e via discorrendo.

Ora, infatti, quel che si chiama il potere non pub, mai esser ridotto a una volontà semplice, unitaria e coerente, espressione diretta di una classe o di un gruppo omogenei che manovrano gli strumenti del potere in conformità dei propri interessi, ma è, in ultima analisi, la risultante di uno scontro permanente di volontà contrastanti, di un gioco infinito di azioni e di reazioni, di pressioni e di contropressioni, che si esercitano precisamente attraverso gli organi più vari sopra menzionati. Nella misura in cui la classe lavoratrice ha una sua volontà da far pesare (non semplicemente delle rivendicazioni settoriali ma una volontà politica, cioè di orientamento generale della società), e nella misura in cui è capace di dar corpo a questa volontà attraverso un’azione coordinata costante ed organica di tutti gli strumenti di cui dispone, essa può esser partecipe del potere, cioè inserire la sua volontà come una delle componenti da cui risulteranno in ultima analisi le decisioni del “potere”. Certo la classe dominante dispone di una forza maggiore e il suo peso sulla decisione definitiva sarà quindi maggiore, ma è anche vero che la classe lavoratrice non ha saputo in questo dopoguerra esprimere una sua organica volontà politica che si ponesse come una volontà globale e alternativa a quella della classe dominante, e soprattutto non ha fatto che uno scarso ricorso all’uso dei “contropoteri” di cui essa dispone e di cui potrebbe in misura maggiore disporre se svolgesse una coerente politica di alternativa.

Naturalmente è difficile pensare che la classe lavoratrice possa in questo modo trasformare radicalmente la situazione e spingere il governo a decisioni che siano in assoluto contrasto con le esigenze di vita del sistema capitalistico. Questo sarà possibile soltanto se la classe lavoratrice riuscirà ad impadronirsi del potere, ma la lotta per impadronirsi del potere presuppone precisamente la partecipazione piena e quotidiana alla lotta politica in tutte le sedi e in tutte le forme. La presuppone per tre ordini di motivi: in primo luogo perché attraverso questa lotta quotidiana è possibile modificare gradualmente i rapporti di forza, trasformare o creare istituti nuovi e strumenti nuovi di azione, incidere parzialmente sulla struttura della società, preparare spinte successive e soprattutto prepararsi per battaglie sempre più impegnative: in secondo luogo perché è attraverso queste lotte, attraverso il perseguimento di determinati obiettivi, attorno a un programma di trasformazione delle strutture, che è possibile trovare punti di incontro con altri ceti e con altre forze e stringere quelle alleanze senza le quali la vittoria finale della classe operaia sarebbe sempre più problematica; in terzo luogo, per usare le parole di Rosa Luxemburg, perché “nella lotta per la democrazia, nell’esercizio dei suoi diritti, il proletariato può arrivare alla coscienza dei suoi interessi di classe e dei suoi compiti storici”.

4. Coscienza di classe e programma di transizione.

Il problema della formazione della coscienza di classe, della coscienza rivoluzionaria, appare di nuovo come il problema centrale. Questa coscienza non è il risultato meccanico delle contraddizioni interne della società e non è neanche una semplice acquisizione intellettualistica che possa esser frutto di un’opera di propaganda e di illuminazione. La coscienza si acquista nell’esperienza, nell’azione, nella lotta: solo cimentandosi nella battaglia quotidiana per modificare la società, il proletariato si fa cosciente della reale natura delle forze in contrasto, della profondità delle contraddizioni e della via per superarle; solo cozzando ogni giorno contro gli angusti limiti di lasse dell’ordine sociale, il proletariato è spinto a cercare le soluzioni al di là di questi limiti; solo riaffermando ogni giorno l’esigenza di tradurre il carattere sociale della produzione in rapporti produttivi ispirati alle stesse esigenze sociali il proletariato mette in risalto la contraddizione fondamentale della società capitalistica; solo verificando ogni giorno la reale democraticità del sistema attraverso la rivendicazione e l’esercizio dei suoi diritti il proletariato scopre la fallacia della democrazia borghese e si apre all’esigenza di una democrazia sostanziale cioè socialista. È su questo terreno che “l’alternativa democratica” diventa “alternativa socialista”.

In altre parole, proprio perché la società capitalistica di oggi riesce, meglio che per il passato, a velare le sue contraddizioni e a mistificare la coscienza, diventa più che mai necessario utilizzare tutte le possibilità, tutte le occasioni, tutte le frizioni per impegnare battaglia e, attraverso l’esperienza, risalire dal particolare al generale, dall’urto occasionale alle contraddizioni di fondo. Marx aspettava lo scoppio della rivoluzione da una crisi, cioè dalla manifestazione brutale e violenta della contraddizione capitalistica, una contraddizione suscettibile di far presa immediata sull’animo delle masse; ora che gli effetti delle crisi sono piuttosto diluiti nel tempo, attraverso lo spreco istituzionalizzato, è soprattutto un’azione politica intelligente che può condurre il proletariato a rendersi cosciente delle contraddizioni meno visibili e a trarne la stessa spinta rivoluzionaria. Più che mai in questo momento, e salvo naturalmente l’ipotesi di grosse catastrofi politiche che per ora sono al di fuori delle nostre previsioni, è necessario pensare alla rivoluzione non come alla frattura verticale e allo scontro decisivo ma come a un lungo periodo di lotte, come a una conquista progressiva del potere che naturalmente dovrà culminare in una fase decisiva di rovesciamento dei rapporti di potere ma che arriverà al culmine solo dopo una lunga scalata.

Questa scalata, come la scalata di una parete rocciosa, deve utilizzare tutti i punti di appoggio, tutti gli appigli, tutte le discontinuità che offre, il terreno avversario. Se è vero che la società capitalistica riesce a trovare nuove soluzioni alle sue difficoltà, nuove risposte ai suoi problemi, è vero che ciò avviene attraverso urti, sbalzi, squilibri, trasformazioni che implicano ogni volta costi sociali gravi a carico delle masse: sono appunto gli squilibri, le disuguaglianze, i costi sociali che mettono in particolare risalto la contraddizione fondamentale del capitalismo e che offrono quindi altrettanti punti d’appoggio non per una battaglia occasionale ma per un’azione in profondità che miri al cuore della società capitalistica, alla contraddizione fondamentale, inserendosi in un disegno organico di trasformazione dei rapporti sociali e di potere.

Ritorno così a battere sullo stesso chiodo: un disegno organico di trasformazione dei rapporti sociali e di potere è nient’altro che il programma di transizione di cui si è molte volte discorso, il programma del passaggio graduale al socialismo, del passaggio cioè dalle infinite contraddizioni di oggi, che sono peraltro tutte altrettante facce della stessa contraddizione fondamentale, alla soluzione organica di domani[29]. Dire soluzione organica significa rifiutare le soluzioni facili, puramente demagogiche e elettoralistiche, che implicano talvolta la difesa di posizioni superate, l’incoraggiamento al semplice malcontento, e rischiano di essere in ultima analisi posizioni conservatrici, proficue magari come apportatrici di voti ma infeconde, più della stessa verginità, come matrici di socialismo. Il programma di transizione dev’essere un programma che non ha paura di confrontarsi con le più moderne soluzioni capitalistiche, che non rifiuta quel tanto di progresso che può essere in esse contenuto, ma anzi impone un acceleramento del ritmo, dev’essere un programma che, appunto perché prepara il passaggio al socialismo, deve offrire soluzioni che si muovano su alcune direttrici essenziali: massimo acceleramento del progresso tecnico, accentuazione del momento sociale nello sviluppo del processo produttivo (quindi nazionalizzazioni, pianificazione, ecc.) e, viceversa, lotta contro il momento-privato nell’appropriazione del prodotto sociale (quindi per modificare l’attuale processo di accumulazione) e contro l’appropriazione privata del potere (quindi per estendere ovunque una democrazia reale, dalla vita di base delle aziende e dei comuni, alla vita statale), infine uno sforzo intensificato per dare alla classe lavoratrice coscienza della sua autonomia e della sua funzione egemonica nell’attuale fase del processo storico. Solo coordinate attorno a questi motivi centrali le singole posizioni di battaglia, di cui la società capitalistica offre infinite occasioni, assumono un contenuto socialista, diventano un momento del processo rivoluzionario. L’esito di queste battaglie potrà essere di volta in volta positivo o negativo, segnare dei passi avanti, delle soste, o magari dei passi indietro nei risultati obiettivi, ma, se condotto su queste basi, svilupperà sicuramente il momento soggettivo, aiuterà la formazione di una coscienza rivoluzionaria, darà a masse sempre più vaste la capacità di legare tutti i momenti particolari della loro lotta alla visione generale di una trasformazione socialista della società, preparerà, in una parola, quel che è sempre mancato al movimento operaio occidentale anche nelle grandi svolte storiche, in particolare nel primo e nel secondo dopoguerra, la coscienza della maturità della presa del potere e della rivoluzione socialista.

Per concludere voglio riassumere brevemente il senso di questo discorso in poche proposizioni. Marx vedeva il processo rivoluzionario come una coincidenza fra situazione oggettiva (contraddizioni della società capitalistica) e la volontà soggettiva (coscienza di classe); di questa volontà soggettiva Rosa Luxemburg sottolineò con particolare vigore l’elemento necessario della partecipazione attiva delle masse e Lenin quello della direzione cosciente del partito, della dottrina rivoluzionaria. La situazione oggettiva, per le ragioni che ho esposto, ha oggi in sé possibilità rivoluzionarie; del momento soggettivo non è la partecipazione attiva delle masse la faccia che fa maggiormente difetto. Quel che fa maggiormente difetto è la faccia della direzione politica, la presenza di un partito rivoluzionario che dalle contraddizioni reali e dalla capacità di lotta di massa tragga la spinta decisiva verso il socialismo.



[1] Articolo apparso su “Problemi del Socialismo”, a. V (1962), n. 7/8, pp. 585 sgg.

[2] Gli atti del dibattito sono contenuti nei volumi Tendenze del capitalismo italiano, Roma 1962.

[3] I “Quaderni rossi” fondati nel 1961 da Raniero Panzieri erano espressione del lavoro teorico e pratico che faceva capo all’Istituto Rodolfo Morandi. Il loro programma comprendeva una attività di ricerca, di intervento e di organizzazione nelle lotte della classe operaia e lo sviluppo dei risultati sul terreno dell’elaborazione di una strategia politica di classe. Ne sono usciti sei numeri.

[4] Su questo argomento cfr. anche Lelio Basso, Su alcuni problemi di metodo, in “Problemi del Socialismo”, a. V (1962), n. 6, pp. 457 sgg.

[5] In un interessante articolo pubblicato nel n. 2 di “Quaderni Rossi”, Franco Momigliano ascrive a merito della posizione politica espressa da questa pubblicazione il rifiuto di ricorrere “a facili argomentazioni sulla necessità di compromesso, di contemperamento, di intermediazione, tra esigenze di fondo ed esigenze immediate, tra prospettive a lungo periodo e realtà a breve periodo”. Se l’accento è messo sull’aggettivo “facili”, cioè sulla facilità con cui da altri si tende a giustificare qualunque compromesso con la necessità generale dei compromessi e delle mediazioni, sono d’accordo con Momigliano, ma il mio timore è che la posizione di “Q.R.” finisca con l’esclusione di qualunque compromesso e qualunque mediazione, cioè praticamente della lotta politica. E questo non mi sembra un merito. Sono invece senza riserve d’accordo con l’articolo di Momigliano nell’apprezzare il particolare rapporto tra “ricercatore sociale” e “centri di decisione politica” che sta alla base del lavoro di “Q.R.”.

[6] C’è indubbiamente qualche cosa di scolastico nella discussione che si fa attorno a quella che deve intendersi come “contraddizione fondamentale” del capitalismo, e non intendo affrontarla per mio conto in questa sede. Desidero tuttavia ricordare a coloro che assumono come tale la contraddizione fra capitalisti e operai, come io non sia il solo, in campo marxista, a designare come tale la contraddizione indicata nel testo, quella cioè che influisce su tutto il ritmo della vita sociale.

“La socializzazione considerevole delle forze produttive, che risulta dall’accentuazione continua della divisione sociale e del lavoro - tanto all’interno dei diversi paesi, che su scala mondiale - crea una tendenza all’unificazione dell’insieme dell’economia nazionale in ogni paese e all’unificazione economica delle nazioni del mondo intero. Tuttavia, la proprietà capitalista dei mezzi di produzione ostacola questo processo, perché essa implica l’appropriazione privata, a profitto dei capitalisti, del prodotto della produzione sociale. È la contraddizione fondamentale del capitalismo, contraddizione fra il carattere sociale della produzione e l’appropriazione capitalistica privata” (V. Kaigl, Nuove particolarità del sistema capitalistico mondiale in “Novà Mysl”, 1956, n. 6, pp. 528-42; il corsivo è dell’autore).

“Tutta la storia delle crisi conferma che la loro causa risiede nella contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico: la contraddizione fra il carattere sociale della produzione e il carattere privato dell’appropriazione dei risultati della produzione” (I. Trachtenberg, Inflazione e tensione del sistema creditizio-monetario negli Stati Uniti, in “Mirovaja economica i mezdunarodnye otnosenija”, 1957, n. 1, pp. 720).

“Il risultato è di spingere all’estremo la contraddizione fra produzione e consumo, che è una manifestazione della contraddizione capitalistica fondamentale fra, da una parte, il carattere sociale della produzione e, dall’altra, il carattere capitalistico privato dell’appropriazione dei prodotti” (A. Becin, Gli investimenti dopo la guerra, in “Mirovaja economica i mezdunarodnye otnosenija”, 1957, n. 3, pp. 38-52).

“Tutte le contraddizioni del modo di produzione capitalistico possono essere riassunte nella contraddizione generale e fondamentale: la contraddizione fra la socializzazione effettiva della produzione e la forma privata, capitalistica dell’appropriazione” (E. Mandel, Trattato di economia marxista, vol. I, Roma 1965, p. 267; il corsivo è dell’autore).

Si veda anche Shigeto Tsuru: “[...] il fatto dominante del capitalismo è che il surplus come frutto dello sviluppo della produttività sociale assume la forma di profitto del capitale privato individuale”, in Tsuru ed altri, Dove va il capitalismo?, Milano 1962, p. 48.

[7] “La prima e principale ragione per cui un’economia di grandi unità poco numerose mostra caratteristiche nuove, è che ad un certo punto di questo processo di sviluppo dimensionale e di riduzione numerica, i dirigenti delle unità rimaste cominciano ad essere in grado di influire sui prezzi, anziché esserne esclusivamente influenzati. È impossibile esagerare l’importanza di questo cambiamento: i prezzi, da dati oggettivi che si muovono automaticamente senza dipendere da chicchessia, diventano elementi che entro certi limiti possono essere modificati dalle decisioni coscienti di gruppi di uomini. [...] Le conseguenze profonde dello sviluppo del potere di influire sui prezzi una volta che le imprese di un dato settore della produzione sono diventate grandi e poco numerose, si vedranno nelle rimanenti pagine del presente capitolo. Il lettore vedrà subito, comunque, che in generale, e nella misura in cui esiste, quel potere consente a queste imprese di influire sul livello dei propri profitti” (J. Strachey, Il capitalismo contemporaneo, Milano 1957, pp. 25-28). “Il fatto da sottolineare è che in condizioni di monopolio o di oligopolio gli imprenditori, invece di essere dominati, o dipendere, dai prezzi di mercato, sono in grado fino a un certo punto di controllarli” (Shigeto Tsuru, È mutato il capitalismo?, in Tsuru ed altri, op. cit., p. 22).

[8] “Un altro tratto del capitalismo del dopoguerra merita di essere rilevato per l’importanza potenziale considerevole che riveste per il processo di accumulazione del capitale, quantunque non sia affatto sufficiente per poter dire che il capitalismo ha raggiunto un ‘nuovo stadio’. Si tratta dell’aumento considerevole dell’importanza delle riserve accumulate dalle grosse società (accumulazione interna sociale), che permette il ‘finanziamento interno’ di una fortissima proporzione delle spese d’investimento, senza ricorso alle banche o al mercato dei capitali” (M. Dobb, Le trasformazioni del capitalismo dopo la seconda guerra mondiale, in “Marxism today”, dicembre 1957, pp. 79-85). “Il punto di gran lunga più importante da comprendere nel capitalismo americano è che il suo potere di accumulare capitale è molto maggiore della sua capacità di utilizzare in modo continuativo il capitale addizionale nell’industria privata produttrice di profitto” (P. M. Sweezy, Il presente come storia, Torino 1962, p. 134).

[9] “In queste condizioni il sistema, se fosse lasciato completamente a se stesso, nel luogo periodo tenderebbe a crescere con un saggio troppo basso per assicurare una occupazione abbastanza vicina al massimo: più precisamente, il saggio d’incremento del reddito difficilmente supererebbe quello della produttività e quindi l’occupazione, al massimo, resterebbe costante; ma l’aumento dell’offerta di lavoro genererebbe una crescente disoccupazione. In queste condizioni è organicamente necessario un supplemento di domanda, che nel lungo periodo viene fornito dallo Stato. [...] Ormai è l’elemento più importante della congiuntura” (P. Sylos Labini, Economie capitalistiche ed economie pianificate, Bari 1960, p. 131). “Gli interventi dello Stato - fra cui sono l’aumento delle spese pubbliche e la politica di sostegno di certi prezzi - mirano, consapevolmente o no, a contrastare o a compensare, almeno in parte, queste tendenze; e queste tendenze sono così forti che, nonostante gli interventi dello Stato, di regola continuano a prevalere, cioè la somma algebrica fra spinta e controspinta è sempre a favore delle prime, delle tendenze originarie” (ib., p. 127).

[10] “In breve, in un’economia molto concentrata le forze che producono disoccupazione tendono a sopravanzare quelle che l’assorbono. Non si vede alcun meccanismo spontaneo che assicuri, sia pure in modo intermittente (‘ciclico’), un tendenziale pareggiamento dei due ordini di forze” (P. Sylos Labini, Oligopolio e progresso tecnico, Torino 1967, p. 246). “Il problema che quei complessi (oligopolistici) originano per l’economia sociale va ricercato fuori di quei complessi stessi, o, meglio, fuori della loro organizzazione tecnica. Il problema dipende dalla politica dei prezzi e dei costi che essi perseguono, dipende dal modo con cui viene a svolgersi il processo di distribuzione, per tutti i rami produttivi, dei frutti del progresso tecnico attuato da quei complessi; dipende dalle disuguaglianze che questo modo di distribuzione comporta fra le varie parti dell’economia; dipende dalla disoccupazione cronica che, nell’economia complessiva considerata, scaturisce dall’indebolimento delle forze che riassorbono gli operai resi liberi dalla meccanizzazione” (ib., p. 186).

[11] “Le compagnie che pagano agli operai delle industrie di base americane dei salari comparativamente elevati sono le stesse che danno salari di tipo coloniale agli operai dei campi petroliferi arabi, delle miniere di rame del Cile e delle piantagioni di caucciù della Liberia” (V. Perlo, Fisionomia economica del capitalismo americano del dopoguerra, in “Voprosi Filosofii”, 1957, n. 5, pp. 119-28). “Che la politica dell’imperialismo potesse riuscire effettivamente vantaggiosa per l’uomo comune in un paese imperialista era stato chiaramente compreso da Lenin, il quale aveva richiamato l’attenzione sull’esistenza di una ‘aristocrazia operaia’ partecipe degli extra-profitti dell’industria monopolistica” (P. A. Baran, Il ‘surplus’ economico e la teoria marxista dello sviluppo, Milano 1962, p. 32).

[12] “La lotta delle classi non è una guerra che si fanno due o più eserciti armati su un campo di battaglia esterno ad essi. È il movimento della società presa come un tutto, le forze sociali in lotta essendo elementi che l’astrazione teorica può isolare, ma che partecipano a tutti gli aspetti della vita sociale. Gli operai scioperano, occupano le fabbriche, manifestano; ma gli stessi operai lavorano, sono assicurati sociali, ascoltano la radio, mandano i loro figli a scuola. È l’evidenza stessa. Ne consegue che la natura delle istituzioni economiche e sociali che il sistema capitalistico offre loro e in cui inscrivono la loro vita quotidiana reagisce sulle lotte che possono intraprendere” (R. Fossaert, L’avenir du capitalisme, Paris 1961, p. 65).

[13] V Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo in Opere, XXII, Roma 1966, p. 207.

[14] N. Bukharin, L’economia mondiale e l’imperialismo, Roma 1966, pp. 12-13.

[15] “Nessuno, [...] può dubitare che, lasciato a se stesso, il capitalismo, concorrenziale o monopolistico, faccia oscillare fortemente l’attività economica con tutte le conseguenze sociali, politiche ed umane, che tutte queste ampie oscillazioni debbono avere. [...] In ogni caso non può esservi alcun dubbio che il capitalismo oligopolistico, senza le modificazioni che in alcuni casi la pressione democratica è riuscita ad apportargli, sarebbe stato, ed è stato ovunque è apparso, molto più instabile che nelle altre sue fasi” (J. Strachey, Il capitalismo contemporaneo, cit., pp. 217-23). “Tutta la logica della teoria economica pura porta alla conclusione raggiunta da John Strachey: la tendenza immanente di un’economia oligopolistica di imprese giganti è diretta verso una maggiore disuguaglianza e una ancor maggior instabilità” (P. M. Sweezy, op. cit., p. 286).

[16] “Nell’epoca attuale, il governo che avesse la forza e la volontà di porre rimedio ai maggiori difetti del sistema capitalistico, dovrebbe avere la volontà e la forza di abolirlo completamente; ma i governi, pur avendo la forza di mantenere il sistema, mancano della volontà di porre rimedio ai suoi difetti” (J. Robinson, in “Economic Journal”, dicembre 1936, p. 693).

[17] “Invero, la struttura delle spese dell’impresa monopolistica o oligopolistica rassomiglia ben poco a quella che si aveva (e che ancora si ha) in un’impresa concorrenziale relativamente piccola. Stipendi ed emolumenti elevatissimi per i dirigenti delle società, generosi onorari per avvocati, esperti di ‘pubbliche relazioni’, specialisti pubblicitari, analisi di mercato e ‘galoppini’, enormi erogazioni per ‘ammorbidire’ la burocrazia, per spese di rappresentanza e di vendita erano tutte cose sconosciute ai tempi del capitalismo concorrenziale e sono tuttora fuori della portata della ‘minutaglia’ operante nelle retrovie concorrenziali dell’economia capitalistica progredita. Né l’imprenditore d’un tempo poteva mai sognarsi le enormi somme che le imprese gigantesche assegnano alle fondazioni di vario genere, il cui scopo più o meno palese è quello di influenzare i manipolatori dell’ ‘opinione pubblica’ in favore del capitale monopolistico” (P. A. Baran, op. cit., p. 104).

[18] “In queste condizioni, si crea una profonda armonia fra gl’interessi dell’industria monopolistica da un lato e quelli della popolazione considerata dall’altro. La formula unificatrice di questo ‘imperialismo popolare’ - per usare la felice espressione di Oskar Lange - è la ‘piena occupazione’. Con questo motto sulla sua bandiera, l’industria monopolistica incontra scarse difficoltà nel procurare l’appoggio delle masse al suo dominio incontrastato, nel controllare apertamente e globalmente lo Stato, nel determinare indisturbata le sue politiche all’interno e all’estero. Questa formula solletica il movimento sindacale, soddisfa le esigenze degli agricoltori, accontenta l’‘opinione pubblica’ e distrugge sul nascere ogni opposizione al regime del capitale monopolistico” (ib., p. 134).

[19] Questo saggio non è la sede per una trattazione più ampia della funzione del cattolicesimo sociale nel momento presente e quest’accenno brevissimo ne sottolinea soltanto un aspetto. Per evitare una falsa interpretazione del mio pensiero desidero aggiungere che anche questo è un fenomeno complesso che va interpretato dialetticamente: accanto all’aspetto che abbiamo sottolineato, è pure presente, nel movimento cattolico, una spinta democratica effettiva. Su questo argomento cfr. Nota introduttiva a La Chiesa, i cattolici e la politica, “Problemi del Socialismo”, a. VII (1965), n. 2, pp. 280 sgg.

[20] “L’evoluzione delle strutture economiche del capitalismo verso uno statalismo e un centralismo crescenti sembra l’ipotesi più probabile [...] e può condurre a una fascistizzazione dei sistemi politici capitalistici” (Fossaert, op. cit., p. 114).

[21] P. M. Sweezy, op. cit., p. 73.

[22] “Stando alle statistiche disponibili per gli anni 1909-1956, si è verificato un notevole divario fra l’incremento della produttività e l’aumento dei salari reali dei prestatori di lavoro produttivo. Mentre la produzione per uomo-ora di questi è aumentata nel corso di quel mezzo secolo del 277,1%, la loro paga oraria media reale è aumentata del 230%, di modo che il loro salario reale per unità di produzione è diminuito del 13,5%. Di conseguenza, il surplus economico prodotto dalla società è diventato notevolmente più grande, non semplicemente in termini assoluti, ma nell’unico senso rilevante: come quota della produzione aggregata” (P. A. Baran, Riflessioni sul sottoconsumo, in Dove va il capitalismo?, cit., p. 127).

[23] “Nella sezione quarta, il prof. Tsuru pone quella che egli chiama una domanda decisiva: si può mantenere una condizione di pieno impiego in regime capitalista senza un elevato profitto? Convengo che la domanda tocca la radice stessa del problema. Risponderei che, in linea di principio, il pieno impiego non può essere mantenuto senza un elevato profitto e che ciò rappresenta il fondamentale dilemma di un sistema capitalista altamente evoluto. Infatti, se il profitto rimane elevato, il sistema tende ad incepparsi per effetto della distribuzione estremamente cattiva del reddito nazionale che ne risulta. Ma, se l’inconveniente è corretto mediante una tassazione ridistributiva e ogni sorta di pressioni democratiche, fra cui naturalmente l’azione sindacale, prezzi fissi e garantiti per gli agricoltori, ecc., il sistema tende a ristagnare per mancanza di una sufficiente spinta del profitto. Non ho mai creduto che ci potesse essere una via definitiva di scampo dal dilemma nel sistema capitalista”, (J. Strachey, Capitalismo moderno e democrazia, in Dove va il capitalismo?, cit., pp. 75-6).

[24] Sull’istituzionalizzazione dello spreco cfr. soprattutto Shigeto Tsuru, È mutato il capitalismo?, cit., pp. 42 sgg.

[25] P. Sweezy, op. cit., p. 240.

[26] Cfr. anche per questi problemi Lelio Basso, Su alcuni problemi di metodo, art. cit.

[27] Cfr. J. Schumpeter, Business Cycles, 1939, II, p. 1045.

[28] Cfr. soprattutto gli articoli Marxismo e democrazia, “Problemi del Socialismo”, a. I, (1958), n. 1, pp. 7 sgg; Cose di Francia e d’Italia, ib., a. I (1958) n. 8, pp. 588 sgg. Contributo ad un bilancio del movimento operaio occidentale, ib., a. Il (1959), n. 7-8, pp. 505 sgg.

[29] Non è difficile vedere come in ogni settore e ad ogni livello della vita nazionale si riproduca appunto questa contraddizione; si pensi p. es. ai problemi che toccano da vicino tutti i lavoratori, come quelli urbanistici, dei trasporti pubblici, della localizzazione delle industrie, come pure quelli della scuola, dell’organizzazione del tempo libero, per non parlare di quelli in cui la ricerca del profitto degenera nel crimine organizzato come p. es. l’adulterazione ormai generale degli alimenti. Si tenga inoltre presente che l’ordinamento capitalistico della società, che garantisce l’appropriazione privata del prodotto sociale, implica altresì la socializzazione delle perdite; è infatti la collettività che sopporta necessariamente il peso sia dello spreco istituzionalizzato sia delle trasformazioni tecnologiche. Ricondurre ogni conflitto a questo aspetto inscindibile del capitalismo (appropriazione privata del profitto e socializzazione delle perdite di ogni natura) significa risalire dal particolare al generale, ricollegare tutte le lotte alla lotta per il socialismo. Analogo ragionamento si può fare per il concetto di sicurezza e stabilità: oggi la grande impresa ha bisogno per i suoi programmi di investimento di garantirsi continuità e regolarità di profitti, ma stabilità e sicurezza del profitto si traducono necessariamente, in una società contraddittoria, in instabilità e insicurezza dei lavoratori. Anche su questo terreno quindi la lotta per il socialismo è immanente alla lotta per risolvere i singoli problemi: rendere cosciente questa naturale immanenza è appunto compito di un partito che voglia lottare per il socialismo oggi. Perché rendere cosciente significa non solo spiegare ma mobilitare attraverso un’esperienza di lotta le masse lavoratrici.