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LELIO BASSO

LELIO BASSO

Pubblicista, deputato al Parlamento

STALINISMO E DESTALINIZZAZIONE

Il fatto che l’Unione Sovietica e i partiti comunisti dei vari Paesi, sia di governo che di opposizione, siano protagonisti di primo piano della lotta politica che si svolge da parecchi decenni nel mondo, ha pesato fino ad oggi notevolmente sugli indirizzi storiografici piegandoli troppo spesso a strumenti di propaganda o di polemica pro o contro l’URSS e il movimento comunista e ha reso ancor più difficile un esame maturo e sereno degli avvenimenti contemporanei. Così la discussione che si svolge da anni attorno al tema dello stalinismo e della destalinizzazione in campo internazionale è piuttosto di basso livello, falsata com’è dall’intrusione permanente di concetti propagandistici. E naturalmente io non ho la pretesa e non avrei la capacità di correggere in queste poche pagine tante storture: in primo luogo perché anch’io sono un politico e non uno storico professionale, in secondo luogo perché la complessità dei problemi che si dovrebbero affrontare richiederebbe un’analisi molto ampia e ricca di sfumature. Mi limiterò quindi a dare un modesto contributo cercando di tracciare alcune linee orientative.

L’essenza dello stalinismo

Vediamo innanzi tutto di distinguere nel fenomeno che comunemente si chiama “stalinismo” quello che ne costituisce il substrato obiettivo e quelle che ne sono le specifiche connotazioni personali, essendo tuttavia chiaro che i due aspetti non possono essere interamente separati, perché quei caratteri personali non avrebbero avuto modo di affermarsi senza l’aiuto delle circostanze obiettive e queste d’altra parte avrebbero potuto dare luogo ad uno sbocco diverso se alla testa dell’URSS non si fosse trovata la forte personalità di STALIN. Il substrato obiettivo dello stalinismo è evidentemente il fatto rivoluzionario: una rivoluzione che tende a distruggere un vecchio equilibrio, a spossessare dal potere forze tradizionali, a infrangere vecchi istituti e a modificare vecchi rapporti, che perciò richiede una forte tensione di volontà, una notevole concentrazione di sforzi, una grande rapidità di decisioni, richiede perciò stesso che il potere sia affidato ad una cerchia ristretta: la diffusione democratica del potere mal si addice ad un periodo rivoluzionario. Questo insegna l’esperienza di tutte le rivoluzioni: solo si può aggiungere che se lo sbocco rivoluzionario è già maturo nella situazione precedente, sia nelle condizioni obiettive che nella coscienza popolare, se i nuovi rapporti sociali che la rivoluzione vuole introdurre trovano tutte le premesse nella struttura preesistente, se, in altre parole, la nuova società è già contenuta nel grembo della precedente, il passaggio sarà più facile ed esigerà quindi un minore intervento dall’alto, una minore concentrazione di poteri.

Questo non fu però il caso della rivoluzione russa in quanto rivoluzione socialista: se l’abbattimento dello zarismo e l’appropriazione delle terre da parte dei contadini potevano considerarsi maturi, certo erano ben lungi dall’essere mature nella Russia del 1917 le premesse del socialismo che esigono sia già avvenuta la totale distruzione dei rapporti pre-capitalistici, una forte concentrazione industriale, un alto sviluppo della produttività, ecc. Ne consegue che quando LENIN e i bolscevichi s’impadronirono del potere nell’ottobre 1917, e proclamarono la repubblica socialista, essi fecero una scelta che traeva le sue origini non dalle condizioni oggettive del loro Paese ma dalla esperienza del movimento operaio occidentale, dove il socialismo era nato come aspirazione politica e dove si era elaborata la dottrina marxista della rivoluzione. I bolscevichi decisero cioè di utilizzare l’esperienza occidentale per imporre alla rivoluzione russa uno sbocco che, senza quell’esperienza, non si sarebbe affacciato in quanto non era il risultato delle contraddizioni della società russa, ben lungi ancora dal giungere al pieno dispiegamento dei rapporti capitalistici. In altre parole la scelta della rivoluzione d’ottobre implicava la decisione di forzare la storia, facendo saltare alla Russia una tappa dello sviluppo: ciò significava creare a ritmi accelerati quelle premesse del socialismo che il capitalismo andava lentamente creando in Occidente, cioè in primo luogo l’industrializzazione con tutto ciò che essa comporta, in modo particolare la trasformazione rapida di decine di milioni di contadini in operai, quindi la crescita rapida dell’urbanesimo e la necessità di ricavare dalle campagne quantità crescenti di prodotti alimentari per nutrire le crescenti masse urbane.

LENIN si era illuso in un primo tempo che il compito non fosse difficile sia perché accettava l’utopia della gestione facile del potere in una società collettivistica, sia perché credeva alla vittoria della rivoluzione in Paesi occidentali più industrializzati, a cominciare dalla Germania, il cui aiuto e la cui guida tecnica avrebbero permesso alla Russia di superare le fasi di trapasso. Finché queste illusioni durarono, LENIN pensò ad una dittatura del proletariato in senso marxista, cioè democratico, del termine, vale a dire alla gestione del potere da parte di tutta la classe operaia alleata ai contadini, ma queste illusioni dovevano cadere rapidamente. In primo luogo la classe operaia russa politicamente educata, e capace di fornire i quadri di una democrazia socialista, era uno strato troppo sottile dell’immensa popolazione russa, formata in prevalenza di contadini analfabeti, per cui un reggimento democratico diventava impossibile; inoltre questa classe operaia finì in parte notevole distrutta prima dalla guerra e poi dalla guerra civile, e in parte fu assorbita dall’attività burocratica. Inoltre non solo le speranze di una rivoluzione in Germania e dei conseguenti aiuti vennero meno, ma al contrario si accrebbero enormemente le difficoltà con la guerra civile; la rivoluzione minacciata e messa in pericolo dovette difendersi e ciò inevitabilmente condusse ad un’ulteriore concentrazione del potere; alla sperata dittatura del proletariato fu necessario sostituire la dittatura del partito bolscevico, il solo che credeva nella rivoluzione socialista e manifestava la decisa volontà di farla trionfare. In pari tempo la gestione del potere si rivelava sempre più complessa e difficile e sempre più richiedeva competenze specializzate: il peso dei tecnici e soprattutto della burocrazia doveva necessariamente accrescersi e consolidarsi. Tutti questi fenomeni erano in atto già prima della morte di LENIN e la necessità di difendere una rivoluzione che non aveva solide basi nella struttura economico-sociale del paese e che perciò era in permanente pericolo, anche indipendentemente dagli attacchi esterni, aveva come necessaria conseguenza di spingere ulteriormente avanti il processo di concentrazione del potere in mani sempre più ristrette e sempre più fermamente decise a percorrere fino in fondo il difficile cammino della costruzione del socialismo in una società ancora prevalentemente precapitalistica.

Fu questo appunto il compito storico di STALIN. Liquidata ormai la guerra civile, e superata grazie alla NEP la minacciosa situazione economica dei primi anni rivoluzionari, si era ancora ben lungi dall’aver assicurato la vittoria della rivoluzione. La Russia rimaneva ancora un Paese semi-arretrato, circondata da potenze ostili, mentre all’interno il potere socialista non poggiava ancora sulle solide basi di una società collettivizzata. Al contrario i rapporti economici dell’agricoltura, che interessavano ancora la maggioranza della popolazione, non erano affatto socialisti e affidati al gioco spontaneo della propria dinamica interna non avrebbero certamente condotto al socialismo. Conservare il potere in queste condizioni era quindi assai più difficile di quanto non fosse stato conquistarlo: non si trattava ora di condurre vittoriosamente una lotta armata che poteva durare pochi giorni, ma di vincere le resistenze attive e passive di una società non storicamente preparata attraverso una dura lotta politica di parecchi anni. L’industrializzazione e la collettivizzazione agraria sono state le due decisioni economiche fondamentali, senza le quali sarebbe stato difficile che la rivoluzione si consolidasse, e senza le quali comunque non si sarebbe potuto costruire il socialismo. Ma erano due decisioni che, non va dimenticato, non rispondevano alla logica interna di sviluppo della società russa, bensì ubbidivano ad una scelta preventiva fatta dai bolscevichi, quella socialista, che era il frutto della sovrapposizione dell’esperienza occidentale sui dati della realtà russa. Era pertanto naturale che quelle decisioni incontrassero resistenze nell’ambiente sociale, soprattutto contadino, offeso nelle sue abitudini, nella sua mentalità, in quelli che esso considerava i suoi interessi immediati, ed era naturale che la lotta che s’ingaggiò contro queste resistenze, le difficoltà drammatiche che ne derivarono, i pericoli maggiori che sarebbero derivati da una mancata applicazione delle decisioni stesse, portassero di nuovo ad un irrigidimento del potere. È noto che quelle decisioni non furono confortate dall’unanimità del partito: sinistra e destra vi si opposero, gli uni sperando ancora in un’estensione del processo rivoluzionario ad altri Paesi, gli altri viceversa cercando di rallentare il ritmo dell’industrializzazione e della collettivizzazione agraria nella speranza di attenuarne le tensioni e i dolori. La maggioranza del partito seguì STALIN ed è assai probabile che se questa linea non avesse trionfato la rivoluzione sarebbe stata perduta. Ma la gravità della posta in gioco, la necessità di stroncare tutte le resistenze per salvare la rivoluzione, l’estrema durezza della lotta, fece fare ancora un passo avanti - un passo probabilmente inevitabile - alla concentrazione del potere in pochissime mani, a poco a poco quasi soltanto le mani di STALIN.

Se queste sono le ragioni che hanno reso obiettivamente possibile, anzi necessaria, una dittatura ferrea è certo che questa dittatura sarebbe stata ben diversa se in luogo di STALIN si fosse trovato alla testa dell’URSS ancora LENIN.

Si suole a questo punto far intervenire, per spiegare la degenerazione del potere, il carattere di STALIN e si cita a questo riguardo il testamento di LENIN che metteva in guardia il partito contro la brutalità e la slealtà di STALIN. Ma a mio giudizio questo richiamo al carattere di STALIN è anch’esso insufficiente, anche se certamente queste qualità personali del dittatore hanno avuto il loro peso. Quel che mi sembra necessario sottolineare è soprattutto la formazione culturale di STALIN e dei suoi collaboratori, così diversa da quella di LENIN e dei suoi principali collaboratori. Costoro erano dei marxisti, nutriti anche di cultura occidentale e conoscevano la distanza che separava la realtà russa dalla civiltà socialista che vi volevano introdurre; avevano l’esperienza di proletariati più evoluti e di società tecnicamente più sviluppate e probabilmente avrebbero meglio capito, dall’interno, le difficoltà della esperienza, unica nella storia, che si preparavano ad affrontare. Ma questo gruppo di dirigenti scomparve presto dalla scena, o per morte naturale o perché eliminato dalle lotte interne di partito: STALIN e le nuove leve bolsceviche che lo seguirono avevano scarsa esperienza del mondo e della cultura occidentali, ed erano molto più legati alla cultura tradizionale di un popolo fondamentalmente contadino. Perciò anche il loro marxismo era rozzo, meccanico, deterministico; i problemi erano visti in termini semplicistici di bene e di male; il dogma sostituiva la ricerca e l’autorità tendeva a rivestirsi di forme culturali.

L’incontro tra due culture

Credo sia estremamente importante, per capire la degenerazione staliniana del potere e la schematizzazione del marxismo, studiare appunto quali siano state le conseguenze in tutto il popolo russo dell’incontro di due culture, quella tradizionale e quella moderna. Certo la Russia, anche prima della rivoluzione, non era stata estranea allo sviluppo della cultura moderna e anzi vi aveva essa stessa contribuito, ma si trattava dell’opera di élites, mentre la massa del popolo russo restava ancorata a idee, costumi, tradizioni che la cultura borghese distruggeva rapidamente in Occidente. Ora l’introduzione di una tecnica moderna, che la rivoluzione aveva portato con sé, implicava un profondo rivolgimento di quelle idee, costumi a tradizioni: l’abisso che separa il mondo naturale del contadino da quello della macchina doveva essere superato d’un balzo. Ma d’un balzo non si cambia la natura umana, sicché necessariamente quella tecnica moderna, i nuovi processi e i nuovi rapporti ch’essa portava con sé, lo stesso socialismo e la cultura marxista ch’esso aveva espresso, trasferendosi dall’Occidente in Russia, dovevano in un certo senso essere tradotti nei termini di una vecchia cultura, dovevano adattarsi a un mondo che era ancora refrattario a riceverli: ne derivava un’esperienza originale ma piena di contraddizioni e perciò difficile ad entrare negli schemi semplicistici di una mente non dialettica come quella di STALIN.

Come “i contadini - secondo la testimonianza di EHRENBURG - guardavano le macchine sospettosi e, quando una leva rifiutava di funzionare, si arrabbiavano come se avessero a che fare con un cavallo testardo e spesso rovinavano quella macchina”, allo stesso modo, con un analogo processo mentale, quando le difficoltà obiettive di questo difficile trapasso opponevano resistenza ai piani di STALIN, egli guardava sospettoso quelle difficoltà obiettive e scorgeva ovunque sabotaggio e tradimento. E come il contadino si accaniva contro la macchina, trattandola come tradizionalmente si trattava l’animale da lavoro, così STALIN si accaniva contro le resistenze che la società inevitabilmente opponeva alle trasformazioni troppo affrettate e si comportava come tradizionalmente si erano comportati i detentori del potere: il regime poliziesco, le deportazioni, le torture, i processi, le confessioni, la stessa sospettosità e capricciosità che lo caratterizzava come il culto di cui volentieri si circondava, non sono un’invenzione di STALIN ma la reazione tradizionale del potere che non riesce a dominare interamente gli avvenimenti e non riesce neppure a comprenderne interamente le difficoltà, la complessità e le contraddizioni.

E d’altra parte era inevitabile che il processo di costruzione delle basi del socialismo si svolgesse in forme e modi pieni di contraddizioni. Se è esatto, come mi pare pacifico che sia, che l’industrializzazione, la collettivizzazione agraria, e in genere tutto quanto l’opzione socialista implicava per la società russa, rappresentava un’imposizione dall’alto, e non un prodotto spontaneo del processo di sviluppo della società russa, ne deriva che le sollecitazioni del potere facevano avanzare la società a sbalzi e squilibri. Una società che procede e si sviluppa secondo la sua logica interna, sia pure attraverso contraddizioni e difficoltà, tende tuttavia a sviluppare parallelamente i suoi diversi aspetti, perché la società è un complesso in cui tutto si lega: la tecnica, l’economia, i rapporti sociali, le istituzioni, la cultura, la mentalità, tutto si influenza reciprocamente, e se uno di questi diversi aspetti subisce una qualche modificazione si genera un processo di reazioni a catena che tende a ristabilire l’equilibrio sociale. Ma se le modificazioni sono determinate non dalla logica interna ma da un intervento esterno, e soprattutto se esse sono imposte con ritmi troppo rapidi, ne deriveranno necessariamente squilibri: il potere può imporre l’adozione di nuove tecniche produttive, può imprimere uno sviluppo rapido all’economia, può anche modificare radicalmente i rapporti sociali, ma non può violentare la natura umana che si modificherà anch’essa in funzione delle nuove condizioni sociali, ma molto più lentamente. Una cultura di massa potrà essere diffusa ma essa dovrà in un primo tempo necessariamente calarsi nella mentalità tradizionale, e solo lentamente da questo impasto eterogeneo potrà nascere una cultura superiore, a livello delle tecniche moderne importate dall’esterno. Il contadino potrà essere strappato alla campagna e gettato in massa nelle fabbriche, ma ci vorranno molti anni prima che la sua mentalità e i suoi costumi si adeguino alle esigenze nuove. Le istituzioni potranno essere rivoluzionate, ma il loro funzionamento tenderà per lungo tempo ancora ad adeguarsi alla vecchia prassi, a ritrovare le antiche strade, perché i costumi, le tradizioni, la mentalità e la cultura del passato non possono scomparire d’incanto. Ma anche lo stesso sviluppo economico presenterà inevitabilmente contraddizioni: si possono costruire rapidamente delle fabbriche e in qualche modo improvvisare degli operai, ma si trasforma solo lentamente l’agricoltura, e lo squilibrio fra i due settori, quello industriale e quello agricolo, che si manifesta, anche nelle società capitalistiche, sarà tanto maggiore in URSS quanto più freneticamente accelerato sarà lo sviluppo dell’industria. E gli stessi rapporti socialisti di produzione, relativamente facili a introdursi nell’industria, si adatteranno male ad un’agricoltura il cui sviluppo è rimasto molto arretrato sull’industria: la collettivizzazione, nonostante la ferocia con cui fu praticata, rimase una collettivizzazione a mezza via, che conservava entro certi limiti la proprietà privata e lasciava sussistere la mentalità contadina tradizionale, mantenendo di conseguenza un dualismo permanente fra settore agricolo e settore industriale.

Sarebbe difficile spiegare lo stalinismo senza tutte queste contraddizioni e questi squilibri, ma sarebbe erroneo dire che queste contraddizioni e questi squilibri dovevano necessariamente produrre lo stalinismo. Che nelle condizioni descritte lo sviluppo economico dell’URSS procedesse in mezzo a gravi difficoltà, che i piani, soprattutto i primi, non potessero realizzarsi secondo le previsioni, che disfunzioni e tensioni si verificassero di continuo, che industrie o maestranze improvvisate producessero talvolta materiale cattivo o che i pezzi di ricambio necessari non arrivassero a tempo, che non sempre i diversi settori produttivi procedessero in modo armonico, che i quadri dirigenti fossero qualche volta inferiori ai loro compiti e incapaci di affrontare la complessità delle situazioni che si presentavano: tutto questo è assolutamente normale ed inevitabile in una situazione come quella sovietica. Che tutto ciò agli occhi di STALIN e dei suoi collaboratori assumesse veste di tradimento e di sabotaggio e che il rimedio fosse cercato nei processi, questo non era certamente necessario e costituisce appunto l’aspetto deteriore dello stalinismo, contro cui oggi insorgono i dirigenti sovietici.

Due interpretazioni da respingere

Se le cose sin qui dette sono esatte, mi pare se ne possa dedurre che sono da respingere le due interpretazioni prevalenti dello stalinismo: quella ufficiale sovietica che lo riduce ad un’escrescenza, ad una specie di bubbone su un organismo peraltro fondamentalmente sano, sicché basta incidere il bubbone perché tutto ritorni perfetto; e quella degli anticomunisti che vedono nello stalinismo l’espressione necessaria della società sovietica e dalla condanna del primo traggono come conseguenza la condanna di tutto il sistema. In realtà lo stalinismo fu intimamente legato alla fase di transizione della società sovietica verso il socialismo e fu ad un tempo l’espressione sia della volontà implacabile di operare questo passaggio infrangendo con energia feroce qualunque resistenza, sia delle insufficienze, delle difficoltà, delle contraddizioni che il processo comportava. Ma certo le qualità personali di STALIN contribuirono ad aggravare le difficoltà, soprattutto a mettere in moto quella terribile catena che trasformava le difficoltà obiettive in complotti, sabotaggi e tradimenti, provocando repressioni feroci e, come reazione alle repressioni, suscitava critiche o riserve che erano a loro volta oggetto di nuove repressioni, oppure determinava la fuga da ogni responsabilità, l’ubbidienza meccanica, il congelamento burocratico, la falsificazione dei dati, la rinuncia al pensiero critico sostituito dal moltiplicarsi delle citazioni.

È giusto pertanto da un lato affermare che durante il periodo staliniano la costruzione del socialismo è andata avanti, perché è andata certamente avanti l’industrializzazione, perché si è enormemente elevato il livello medio di istruzione e in molti settori la cultura si è sviluppata, perché la natura collettivistica dei rapporti di produzione si è comunque consolidata, ma è inesatto, a mio parere, affermare, come fece STALIN già negli anni trenta, che la fase di costruzione del socialismo fosse compiuta: al contrario può dirsi che, a misura che si avanzava verso una società socialista e, comunque, verso una società più complessa e più articolata, il potere staliniano dava luogo a un processo cumulativo di tensioni e di contraddizioni che avrebbero finito sicuramente con il provocare una grave crisi se non fosse intervenuto a tempo un radicale cambiamento di metodi. Ed è sicuramente grande merito di KRUSCIOV, qualunque siano le critiche che gli si possono muovere, avere avvertito a tempo questa necessità e avere dato il via ad un processo di rinnovamento così profondo da potersi paragonare ad una nuova rivoluzione senza ricorrere alla violenza né a nessuna brusca frattura con il passato.

Ma se lo stalinismo è, nelle sue grandi linee, il fenomeno complesso che ho descritto, è superficiale, per non dire addirittura infantile, pretendere di ridurre la destalinizzazione ad un semplice fatto di democratizzazione, e, più ancora, ridurre la democratizzazione a un semplice fatto di leggi o di istituzioni. Nessun regime democratico può nascere o vivere se non sussistono due condizioni fondamentali: una società in relativo equilibrio, senza gravi tensioni interne, anzi fondamentalmente unita sugli obiettivi di fondo da perseguire, e un alto grado di maturità democratica nei cittadini, che significa innanzi tutto coscienza delle proprie responsabilità verso la collettività e capacità di assolverle attraverso la partecipazione e l’iniziativa. Ora nella società sovietica, così come l’ereditarono i successori di STALIN, mancavano entrambe le condizioni. Non c’era equilibrio interno perché, come si è detto, la scelta socialista si era sovrapposta ad una società arretrata e la necessità di costruire in fretta le premesse del socialismo aveva fatto avanzare a ritmi variabili i diversi momenti della vita sociale, creando situazioni artificiose che solo un potere dittatoriale aveva potuto sostenere e far avanzare; e non c’era neppure maturità democratica non solo perché questa maturità si fa attraverso l’educazione che nasce dall’esperienza e l’esperienza democratica era mancata sia durante lo zarismo che durante lo stalinismo, ma perché il potere staliniano aveva formato una burocrazia chiusa, dogmatica, autoritaria verso il basso e pavida verso l’alto, senza capacità di iniziativa e abituata a sommergere ogni proprio atto sotto un mare di carte che la liberasse da ogni responsabilita propria, cioè precisamente i quadri meno adatti a reggere una società democratica.

I nuovi compiti

I compiti più urgenti della destalinizzazione dovevano quindi essere da un lato quello di ristabilire l’equilibrio interno della società e dall’altro quello di sostituire questa burocrazia dogmatica e caporalesca con quadri nuovi capaci di propria responsabilità e soprattutto con una partecipazione più attiva delle masse. Compiti tuttavia di enorme difficoltà perché in contrasto con tutto il passato, in contrasto con le idee comunemente ricevute, con l’abitudine al dogmatismo, con la mentalità, con le tradizioni, con il costume dell’immensa maggioranza del popolo. E sarebbe stato stupefacente che il processo di destalinizzazione avesse potuto procedere speditamente, senza incertezze e senza contrasti, senza ripensamenti e senza battute d’arresto.

In primo luogo era certamente necessario abbattere il mito staliniano che era la base granitica su cui poggiava tutto l’edificio del dogmatismo: solo distruggendo questo mito e il culto da cui era circondato, si poteva far cadere la leggenda dell’infallibilità, e attaccare uno a uno i dogmi, e insieme i metodi di lavoro. Ma far cadere la base dell’autorità senza potervene sostituire prontamente un’altra è sempre pericoloso, sicché, nonostante il loro sforzo di fondare la propria opera di rinnovamento sul culto di LENIN, i dirigenti sovietici non poterono impedire che, se non in URSS dove la struttura sociale era ormai sufficientemente consolidata, nelle democrazie popolari, dove perduravano tensioni assai più forti, il crollo del dogmatismo dopo il XX congresso fosse seguito nel 1956 da gravi sconvolgimenti, suscitando anche in URSS delle ondate di ritorno che si manifestarono nell’offensiva della maggioranza del Presidium contro KRUSCIOV nel 1956-57.

Superata vittoriosamente questa crisi la destalinizzazione poté procedere più liberamente in molte direzioni: campi nuovi di ricerca che il dogmatismo staliniano aveva precluso, dalla cibernetica all’econometria, furono aperti; principi assurdi furono rovesciati in molte altre discipline; nuovi metodi di organizzazione e di direzione dell’economia furono sperimentati: un allentamento progressivo dei rapporti con l’Occidente fu tenacemente ricercato; e soprattutto fu dato inizio a un generale rinnovamento dei quadri, mentre un lento e prudente processo di democratizzazione, soprattutto di base, veniva avviato[1]. Ma la complessità di una società altamente industrializzata come quella sovietica e l’originalità assoluta dell’esperienza socialista pongono dei problemi sempre più difficili da risolvere, che urtano contro la resistenza passiva offerta dall’incapacità della generazione staliniana, almeno al suo livello medio, di dar loro un’adeguata risposta che richiede non solo la rottura con i dogmi del passato ma soprattutto una capacità e un’iniziativa creatrici che non si possono improvvisare né nella massa contadina né nel quadro medio.

D’altra parte crescono nuove generazioni più libere e più coscienti dell’urgenza dei problemi mentre i più aperti orizzonti verso l’esterno permettono una visione più larga dei problemi. Il duello fra le forze rinnovatrici e quelle anche soltanto passivamente conservatrici si fa più serrato e crea nuove difficoltà, quelle che sono emerse di recente al chiaro giorno nei dibattiti sull’arte e la letteratura ma che sono sintomi di stati d’animo più diffusi. In sintesi credo si possa dire che la nuova ondata destalinizzatrice del XXII congresso e la violenza con cui si è manifestata anche nelle forme più appariscenti, come la traslazione della salma fuori dal mausoleo, hanno messo in moto anche in URSS delle forze e delle tendenze che rischiano di perdere i contatti con la realtà e di sfuggire al controllo. Su due di questi aspetti sembra necessario richiamare particolarmente l’attenzione.

Da un lato si tratta della lotta dei giovani contro la generazione staliniana. La direzione kruscioviana aveva cercato nel corso degli ultimi anni e soprattutto in coincidenza con il XXII congresso di procedere, come si è detto, a un largo rinnovamento di quadri, ad una vasta promozione di giovani, codificando addirittura la non rieleggibilità a molte cariche, e sulle alte percentuali di questo rinnovamento si era particolarmente messo l’accento al congresso. Era naturale che questo fatto provocasse una spinta di fondo nel Paese, spinta di fondo che d’altra parte trovava una ragione obiettiva nelle insufficienze comunemente denunciate della generazione staliniana, nella sua chiusura dogmatica, nella sua incapacità a intendere i problemi nuovi. L’arma sottile di questa lotta dei giovani era le denuncia delle complicità con il regime staliniano: chiunque aveva collaborato a quel tempo - ed e chiaro che tutti coloro che hanno oggi più di 35-40 anni avevano in qualche modo collaborato - era presunto complice dei delitti perché doveva aver saputo e aveva taciuto. Non sono in grado di valutare l’ampiezza di questo fenomeno, che certamente non investiva tutta la gioventù sovietica ma che deve aver comunque assunto proporzioni preoccupanti: pur tenendo conto infatti delle esigenze di rinnovamento non è pensabile che si possa rompere ogni legame di continuità con un passato che pur presenta un bilancio molto ricco all’attivo, non è pensabile che si possa di colpo rinnovare tutti i quadri della burocrazia, della tecnica e della politica, che si possa affidare ad una generazione nuova, e mancante di esperienza, tutti i compiti di direzione del Paese. Le reazioni del gruppo dirigente sono state particolarmente accentuate in questa direzione e l’empirismo di Krusciov ha cercato subito una risposta a questi pericoli, sforzandosi di raggiungere un equilibrio fra novità e continuità, fra l’esigenza di cambiamenti e la necessità di evitare brusche rotture. Quando nel famoso discorso dell’8 marzo agli artisti e agli scrittori KRUSCIOV dice: “Si vuole inculcare nei figli l’idea che i padri non possono essere i loro maestri di vita e che non vale la pena di chieder loro consiglio. Secondo gli autori, la gioventù deve decidere da sola, senza l’aiuto dei più anziani, in che modo vivere (...). Ma non vi sembra di avere esagerato? Che cos’è che volete? Che la gioventù si levi contro le generazioni anziane? Volete farli litigare? Volete seminare zizzanie nella compatta famiglia sovietica, che unisce giovani e vecchi nella lotta comune per il comunismo? A chi vuol questo possiamo dichiarare con piena responsabilità: non ci riuscirete!” o quando più avanti dice: “Ora non di rado si chiede perché al tempo di STALIN non siano state smascherate e impedite le violazioni della legalità, gli abusi di potere. Si chiede spesso se allora fosse stato possibile farlo. Purtroppo c’e ancora gente, anche fra gli artisti, che tenta di dare un quadro deformato degli avvenimenti. È per questo che oggi dobbiamo tornare sul problema del culto della persona di STALIN. Si domanda se i quadri dirigenti del partito sapevano, poniamo, che si arrestava della gente. Sì, lo sapevano. Ma sapevano forse che si arrestavano persone innocenti? No, non lo sapevano. Avevano fede in STALIN e non pensavano che potessero essere oggetto di repressioni persone oneste, votate alla nostra causa”, è a questa lotta interna della società sovietica che ha chiaramente fisso lo sguardo, ed è del resto tutto in questa chiave polemica e politica, e non certamente in chiave estetica, che bisogna leggere questo discorso di KRUSCIOV.

Le preoccupazioni attuali

L’altro aspetto che voglio ricordare è quello delle influenze occidentali. STALIN si era sforzato di condurre per quanto possibile il suo esperimento in vaso chiuso, impedendo la penetrazione di qualunque influenza occidentale nella società sovietica. La guerra e il dopoguerra avevano già aperto parecchie finestre su questo mondo ma solo la destalinizzazione diede impulso vigoroso a una serie di scambi culturali e turistici che dovevano necessariamente contribuire a far crollare il mito della superiorità sovietica in ogni campo. Se da un lato queste aperture giovavano alla società sovietica perché le permettevano di assimilare molti aspetti positivi della cultura occidentale, rischiavano però, così come l’avanzata dei giovani, di cadere nell’eccesso opposto. Si apriva cioè un’avanzata disordinata verso obiettivi nuovi che il regime staliniano aveva precluso e che perciò stesso apparivano legittimi nel clima della destalinizzazione: fra questi obiettivi molti ve ne erano che erano in realtà in contraddizione con le fondamenta stesse della società socialista, come la corsa al benessere individuale e in genere ad ogni forma di manifestazione dell’individualismo in contrasto con i rigidi principi del collettivismo. E questo proprio nel momento in cui il potere sovietico era impegnato nello sforzo più difficile: quello di passare dal regime di costrizione staliniano alla ricerca di nuove forme di adesione morale alla società socialista. Tocchiamo qui uno degli aspetti più difficili della società socialista: se è vera l’affermazione di MARX che la coscienza e la natura dell’uomo mutano con il mutare dei rapporti sociali e della struttura della società, essa è vera tuttavia nel quadro di un’evoluzione progressiva della società che tragga da se stessa le proprie spinte alla trasformazione; se la trasformazione dei rapporti sociali è imposta affrettatamente dall’esterno o dall’alto, essa non può accompagnarsi a una trasformazione della coscienza. Ne consegue che l’“uomo nuovo”, l’uomo dalla coscienza socialista che dovrebb’essere il supporto naturale di una società socialista, non ha ancora trionfato in URSS, dove sono ancora largamente presenti i residui del passato, dell’uomo nato per vivere nella società dei guadagni e dei consumi individuali. Questi residui del passato trovano facile alimento nell’influenza e nella cultura occidentali, che sono espressioni di individualismo: manifestazioni di questa cultura e di questa Weltanschauung, che ebbero una funzione positiva e magari addirittura rivoluzionaria nella società occidentale, possono apparire dannose e controrivoluzionarie in una società impegnata nella costruzione del socialismo. Manca qui lo spazio per esemplificare: è tuttavia da questo punto di vista che bisogna valutare la battuta d’arresto della destalinizzazione in questo campo.

Se sono riuscito a dare almeno approssimativamente un’idea della complessità dei problemi, sono autorizzato a concludere che non ha alcun senso giudicare il processo di destalinizzazione sul semplice metro della democrazia di tipo occidentale e neppure in genere sulla base della mentalità e dei problemi dell’Occidente. Il problema principale rimane quello del riequilibramento di una società che ha subito una serie di spinte forzate e che ha conquistato di slancio delle posizioni di primo piano senza aver assicurato tutte le basi necessarie: bisogna perciò colmare i ritardi nell’agricoltura, rivedere completamente i sistemi di pianificazione e di gestione economica delle imprese, liberare tutta l’economia e tutta la vita sovietica dalle pastoie burocratiche, ristabilire uno sviluppo armonico dei vari settori, ridare spazio all’iniziativa e alla responsabilità, assicurare una base di partecipazione democratica alla vita sovietica. Tutto ciò richiede al tempo stesso molto coraggio e molta prudenza e poiché si tratta di un cammino inesplorato richiede altresì una forte dose di empirismo, pur nel rispetto di alcuni principi fondamentali. Soprattutto difficile e necessariamente lenta la trasformazione dell’uomo, della sua coscienza e della sua mentalità, e purtuttavia essa è il fondamento di tutta la costruzione: finche l’uomo nuovo non sara formato la società socialista non avrà una base sicura.

Se questo può spiegare molti degli aspetti apparentemente o realmente contraddittori del processo in corso nell’URSS, tuttavia - sia ben chiaro - non giustifica ogni cosa: pur convinto come sono che questa difficile fase di transizione può esser condotta a termine solo se la direzione politica mantiene un prudente controllo su tutte le fasi di sviluppo, giudico tuttavia eccessiva la prudenza ed eccessivo il controllo che viene tuttora esercitato. S’impara a camminare camminando e quindi anche cadendo: il rischio dell’errore è inseparabile da ogni ricerca della verità. Forse è difficile chiedere ad una generazione che, nonostante tutto, non può non risentire della sua educazione staliniana, di accettare queste proposizioni e di consentire una maggiore circolazione di libertà - se non come fine in se stesso almeno come mezzo di autoeducazione - e tuttavia non ci stancheremo di chiederlo proprio perché condividiamo gli scopi cui tende oggi la direzione politica dell’URSS e ci sentiamo impegnati nella stessa battaglia.

Lo stalinismo ha due significati; da un lato, sistema di massima centralizzazione, di rigida disciplina, e “marce forzate” in economia; dall’altro, glorificazione del leader, abusi di potere, cieco dogmatismo dottrinale, ecc. Per la stessa Unione Sovietica, il primo aspetto non si rivela più necessario ed è infatti divenuto un ostacolo al progresso; mentre il secondo ripugna ormai profondamente ad una popolazione della quale una parte sempre più larga è stata educata nelle tradizioni scientifiche ed umanistiche del marxismo. La destalinizzazione è quindi un imperativo categorico per il governo sovietico.

Dalla risposta di PAUL M. SWEEZY al Questionario di “Nuovi Argomenti”, n. 57-58, luglio-ottobre 1962.

Durante le grandi svolte dal fondo sale anche il torbido; dopo, la schiuma rimane sulle rive e la corrente torna limpida. I più rumorosi sono stati i mediocri, perché un bidone vuoto se smosso suscita un grande clamore. lo però, che sono vissuto trent’anni sotto Stalin e dieci anni dopo la sua morte, posso dire che verso ciò che è stato non c’è nessuna possibilità storica di ritorno. Anche se qualcuno volesse mettere la marcia indietro, la macchina non camminerebbe nella direzione da lui voluta.

Da una dichiarazione di ALEXEI SURKOV a Roma il 17 maggio 1963.



[1] Per un maggior approfondimento di questi temi, cfr. il mio volume Da Stalin a Krusciov, Milano 1962.