Cesare Musatti
(Dolo, 1897 – Milano, 1989)
Psicanalista. Di formazione scientifica
e filosofica, negli anni trenta avvia l’introduzione in Italia della
psicoanalisi ma viene fermato dalle leggi razziali fasciste che gli tolgono
l’insegnamento universitario.
Lo riprende nel dopoguerra diventando uno dei più noti e importanti
studiosi. Pioniere della Psicologia del lavoro si impegna nella vita
sociale e politica del Paese in difesa della pace, del progresso dei
lavoratori, dell'emancipazione femminile, dei diritti civili. I suoi
interessi spaziano anche nel campo del teatro e della televisione.
Nella primavera del '43 le sorti della seconda guerra mondiale volgevano
decisamente a favore degli alleati. Si adunarono allora a Milano,
attorno a Lelio Basso, alcuni vecchi socialisti, con l'ambizione
di preparare;- per quando si fosse giunti alla disfatta dell'Asse e alla
liberazione del Paese dalla dominazione fascista - la ricostituzione
di un unico Partito operaio socialista, il Partito socialista italiano
di unità proletaria (PSIUP). Esso avrebbe dovuto raccogliere tutti
i filoni di tradizione marxista. Una riedizione dunque dell'antico
Partito socialista italiano, anteriore alle scissioni (da quella di Livorno
in poi).
Ci trovavamo in casa di Ferrazzutto (già amministratore dell'Avanti,
prima del fascismo, e che allora lavorava presso l'editore Rizzoli).
Lelio Basso presiedeva le nostre riunioni. A me fu dato l'incarico di
reperire il denaro per una prima organizzazione, e poì di
cercare di allacciare rapporti col Partito comunista clandestino di cui
si conosceva l'esistenza, ma che agiva con estrema prudenza ed era, anche
per gli antifascisti, difficilmente raggiungibile.
Riuscii a farmi dare da un industriale padovano, di orientamento socialdemocratico,
una somma che a me parve cospicua, anche se Leliò invece si aspettava
di più.
Ci fu il problema del trasferimento dei quattrini, da Padova a Milano.
Una faccenda pericolosa, perché la polizia perquisiva i viaggiatori
sospettati di trasportare abusivamente viveri e merci. Andò a
Padova mia moglie Carla, in treno, e ci portò le banconote a Milano,
nascondendole sotto le vesti. Per quanto riguardava l'altro compito,
avevo una possibilità e ne misi al corrente soltanto Lelio.
Negli anni '30, e fino alle leggi razziali del '38, ero stato all'Università di
Padova direttore del Laboratorio di psicologia. In quell'epoca rimasi,
per ben due volte successive, vedovo. Mi recavo perciò in
una fiaschetteria toscana gestita da persone amiche, che non facevano
servizio di trattoria ma, eccezionalmente, preparavano in una stanzetta
appartata i pasti per Concetto Marchesi - anch'egli solo a Padova - e
per me. Là arrivava abbastanza regolarmente una persona, sempre
diversa, che chiedeva di Marchesi e conferiva con lui per qualche
minuto. Nonostante l'amicizia fratema e l'intimità esistente
fra di noi, per discrezione, non facevo domande su questi colloqui, pur
supponendo si trattasse di contatti col PC clandestino.
Quando fu richiesto ai dipendenti statali il giuramento di fedeltà al
regime, Concetto mi disse che non avrebbe giurato e che se per questo
gli avessero tolto la cattedra, avrebbe potuto vivere con il reddito
delle proprie pubblicazioni. Giunse però da lui uno di quegli
omini misteriosi e, dopo il colloquio, Marchesi mi confidò: "Il
Partito mi ha ordinato di giurare: posso essere più utile
conservando il posto all'Università Ebbi così conferma
dei suoi diretti rapporti con la Direzione del PC clandestino.
Incaricato da Basso, andai quindi a parlargli a Padova ed egli, in una
riunione del PC, tenuta a Ferrara, pose il problema. La nostra richiesta
fu però considerata prematura, anche perché non offrivamo
sufficienti garanzie di segretezza.
Ciò che accadde infatti diede ragione alle riserve del PC. Col
passare delle settimane, la situazione bellica su tutti i fronti
stava precipitando. Mia moglie e io insegnavamo al Parini e avevamo
l'abitazione nelle vicinanze del liceo, in corso di Porta Nuova. Dati
i bombardamenti notturni, pernottavamo ad Abbiategrasso e venivamo
ogni giorno a Milano con la vecchia tramvia denominata "el gamba
de legn". I nostri bambini li avevamo mandati al sicuro nel Veneto,
dove non avvenivano incursioni aeree, e mia madre era rifugiata
a Roma.
In quel tempo Adriano Olivetti, col quale avevo rapporti di amicizia,
mi offrì di assumermi per la fondazione di un Centro di psicologia
del lavoro presso i suoi stabilimenti industriali a Ivrea. Lo stipendio
era alto e avrei avuto inoltre alloggio per me e famiglia in una villetta.
Accettai perché la vita a Milano stava divenendo impossibile.
Mi trovavo però in una situazione equivoca, in quanto ero sempre
uno statale in attività di servizio, anche se il liceo aveva chiuso
anticipatamente le lezioni. Così traslocai a Ivrea senza
parlarne con alcuno.
Proprio allora una "talpa", infiltratasi nel gruppo di Lelio,
per la costituzione del PSIUP, ci denunciò tutti alla polizia
fascista. Lelio, avvertito in tempo, riuscì a fuggire; furono
invece arrestati Ferrazzutto e un altro compagno. Mia moglie ed io non
fummo trovati, perché traslocati con i mezzi dell'Olivetti a Ivrea,
mentre la nostra casa di Milano rimase, proprio in quei giorni, totalmente
distrutta da una bomba dell'aviazione alleata.
Nelle settimane successive tornai qualche volta a Milano per conto di
Olivetti (e a Milano ero il 10 luglio, giorno dello sbarco alleato in
Sicilia), ignorando però di essere ricercato dalla polizia; non
riuscii a trovare Lelio e gli altri compagni.
Il 25 luglio Badoglio mantenne in carcere tutti i politici arrestati
dal fascismo e lo stesso Olivetti, che era stato fermato due giorni prima.
Mentre quanti erano detenuti a Roma a Regina Coeli furono rilasciati
dal direttore del carcere al momento dell'occupazione tedesca della città,
i politici dell'Alta Italia vennero consegnati - come i nostri compagni
del PSIUP - ai nazisti, e finirono nei campi di sterminio.
Soltanto qualche anno fa ho potuto ottenere, da un'alta autorità politica,
di conoscere il contenuto del rapporto della polizia nei confronti
miei e di mia moglie Carla, senza tuttavia il nome del delatore,
che è coperto dal segreto di Stato per cinquant'anni (e quindi
fino al '93).
Vi ho potuto riconoscere le precise parole pronunciate da mia moglie
e da me e ho avuto perfino l'impressione che fosse riportato il contenuto
delle relazioni, scritte da chi era incaricato di redigere i verbali
delle nostre riunioni.
Avrei potuto cercare di individuare il delatore. Ma non sono un poliziotto.
E l'attività svolta nel corso della mia vita contrasta con
la ricerca di un colpevole. Nolite iudicare. Così, né ho
fatto ricerche, né aspetto la scadenza dei cinquant'anni. Forse
non sarebbe del tutto d'accordo, però mi comprenderebbe, il mio
caro indimenticabile fraterno amico e compagno, Lelio Basso.
[Tratto
da AA.VV., Socialismo e democrazia. Rileggendo
Lelio Basso, Concorezzo,
Gi. Ronchi Editore, 1992 che raccoglie le relazioni e gli interventi
dell’omonimo convegno svoltosi a Milano nel 1988] |