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Stefano Rodotà
(Cosenza, 1933)



Tra i protagonisti della vita politica italiana, è stato deputato come indipendente nelle liste del Pci e poi del Pds, più volte membro di commissioni parlamentari e vicepresidente della Camera dei Deputati. Docente di diritto civile all’Università di Roma “La Sapienza”, ha presieduto per vari anni la Fondazione Lelio e Lisli Basso-Issoco. Dal 1997 è presidente dell’Ufficio del Garante per la protezione dei dati personali. Ha partecipato, su incarico del Governo italiano, alla redazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, approvata a Nizza nel dicembre 2000.


C'è un'irresistibile, e mai sopita, vocazione costituente che accompagna Lelio Basso per l'intero arco d'una vita che lo vide protagonista di vicende politiche e sociali, studioso e uomo d'azione insieme. Una vocazione che emerge prepotentemente all'Assemblea costituente, ma che negli anni successivi trova continue manifestazioni e conferme sempre più consistenti. C'è il rilancio del Tribunale Russell, con un'iniziativa che si allargherà e troverà forma stabile nella Lega internazionale per la liberazione e i diritti dei popoli, c'è' la riapertura del dibattito sull'ars. 7 della Costituzione, con quella mozione che porta il suo nome e che darà l'avvio al processo di revisione del Concordato (poi concluso in un modo che non gli sarebbe piaciuto), ci sono le innumerevoli imprese di organizzazione culturale e politica, che sì consolideranno nella Fondazione che porta il nome suo é della moglie Lisli; c'è una vera, grande reinterpretazione del ruolo dei diritti nel tempo di oggi, con la carta di Algeri, la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli del 1976.
Vocazione costituente, dunque. Ma, insieme, proclamazione rivoluzionaria. Perché di Basso può certo dirsi quel che egli ha detto di altri, l'essere stato "dominato tutta la vita dalla sua passione rivoluzionaria". E il tema della rivoluzione, delle sue possibilità e modalità nell'epoca nostra, è centrale nella sua riflessione teorica e nella sua azione politica: che cercò sempre di congiungere, perché questa congiunzione - come ha ricordato Antonio Giolitti - "era intrinseca alla sua concezione stessa del socialismo", parendogli che così soltanto si potesse rimanere fedeli al "momento più vitale della strategia marxista, cioè la presenza cosciente dello scopo finale in ogni obiettivo parziale". E aggiungeva: "se questa presenza del salto rivoluzionario nell'azione di ogni giorno si oscura, il movimento rischia di essere facile preda di un empirismo che lo rende subalterno ai meccanismi della società capitalistica e che è alla radice dei processi di integrazione". Questa non è solo una dichiarazione di principio: è il criterio che, sul filo degli anni, orienterà il suo giudizio sui partiti della sinistra italiana e che sta a fondamento di quel discorso di commiato dal PSI che fu l'intervento con il quale, nel dicembre del 1963, a nome suo e di altri ventiquattro deputati, negò la fiducia al nascente governo di centro-sinistra.
Ancor più nitidamente questo punto si coglie nel rifiuto di adoperare la "grossolana distinzione, che dominò la Seconda internazionale, tra riformisti e rivoluzionari". "Distinzione grossolana - diceva - almeno dal punto di vista marxiano, perché una semplice somma di riforme che non rispondano a determinati requisiti non porteranno mai al socialismo, e la conquista violenta del potere non può da sola creare il socialismo se prima non ne sono state gettate le basi all'interno della società capitalistica". Da qui l'insistita sua interpretazione della rivoluzione come processo, dando particolare rilievo a un passo solitamente poco citato di Marx, dove il processo rivoluzionario viene definito come "la partecipazione cosciente della classe operaia ai processi che si sviluppano già all'interno della società capitalistica". Partecipazione, dunque. E che cosa aveva detto Basso all'Assemblea costituente intervenendo nella discussione sul progetto di Costituzione? "Noi pensiamo che la democrazia si difende, che la libertà si difende non diminuendo i poteri dello Stato, non cercando dì impedire o di ostacolare l'attività dei poteri dello Stato, ma al contrario, facendo partecipare tutti i cittadini alla vita dello Stato (...). Solo se noi otterremo che tutti siano effettivamente messi in condizione di partecipare alla gestione economica e sociale della vita collettiva, noi realizzeremo veramente una democrazia". La sua visione del processo rivoluzionario e la sua azione istituzionale, lungi dall'entrare in conflitto, si congiungono così intorno alla "partecipazione". Ma, per comprendere un atteggiamento profondo più che per sciogliere una contraddizione che non c'è, conviene andare oltre, approdare a Rosa Luxemburg, a colei che Basso amava nominare familiarmente (non dirò teneramente) soltanto come Rosa, nel cui lavoro scorgeva l'inveramento pieno della lezione di Marx nel nostro tempo. Sì che mi pare che il suo insistito riferimento a uno scritto di Gyòrgy Lukàcs sulla Luxemburg - prima ricordato come quello che lo rese "cosciente" dell'importanza teorica del pensiero luxemburghiano, poi menzionato con rammarico per la mancata autorizzazione al suo inserimento nell'antologia di scritti di Rosa curata da Lelio - quel riferimento insistito fosse dovuto assai al titolo evocativo dello scritto, Rosa Luxemburg als marxist, che ai suoi occhi doveva simboleggiare appunto l'incarnazione nella Luxemburg della tradizione marxista. Che cosa diceva Rosa? "La dialettica storica si compiace per l'appunto di contraddizioni e pone nel mondo per ogni necessità anche il suo contrario. Il dominio di classe borghese è senza dubbio una necessità storica, ma anche la sollevazione della classe lavoratrice, contro di esso; il capitale è una necessità storica, ma anche la sua caduta, per opera dell'internazionale proletaria. A ogni passo si incontrarono due necessità storiche, che sono in contraddizione l'una con l'altra". Commenta Basso: "nessuno studioso di Marx, ma neppure lo stesso Marx, ci aveva descritto prima di allora il processo storico globale come l'arena dove si svolge ogni giorno questo conflitto, e dove perciò ogni aspetto della società, ogni istituzione, ogni avvenimento risente della presenza contemporanea, nel proprio interno, delle due tendenze opposte che dilacerano la società, delle due necessità storiche che si contendono il sopravvento".
Contraddizione e conflitto, e partecipazione dei lavoratori, ci conducono così al capolavoro istituzionale di Basso (assistito dalla fiduciosa sapienza giuridica di Massimo Severo Giannini): all'art. 3 della Costituzione, e soprattutto a quel suo secondo comma sull'eguaglianza sostanziale che innesta sul tronco istituzionale la contraddizione sociale, che forza le istituzioni a misurarsi con il conflitto tra esclusione e partecipazione.
Così Basso non costruisce il momento istituzionale come la sanzione o la legittimazione dell'esistente: per lui il diritto non scende alla sera, non ha per nulla un ruolo notarile. Al contrario. L'assunzione dell'eguaglianza sostanziale tra i principi fondativi della nuova Repubblica ha proprio la funzione di impedire che la Costituzione assuma un puro significato di stabilizzazione, di chiusura d'una fase. Non a caso quel secondo comma dell'art. 3 è stato definito la "norma dì rifiuto" dell'ordine sociale esistente. Sicché il vero significato di questa grande innovazione istituzionale non può essere ricercato solo nell'aver superato una concezione tutta formale dell'eguaglianza, che faceva del soggetto solo un astratto centro di imputazione di situazioni giuridiche, senza riguardo al modo in cui tali situazioni si fanno concrete nella realtà storica. Ciò che viene davvero legittimato è la necessità del mutamento egualitario come fondamento della Costituzione: sì che, dirà Basso, "questa norma in un certo senso smentisce la Costituzione, dice che tutto è una menzogna nella Costituzione fino a che questo capoverso dell'art. 3 non sarà attuato. Non solo non c'è l'eguaglianza del primo comma, ma non è vero neanche l'art. 1, non è vero che l'Italia sia una repubblica democratica, non è vero che ci sia la sovranità popolare finché non è realizzato il capoverso dell'art. 3 che deve mettere tutti in grado di parteciparvi". Non credo che, prima di allora, si fosse riusciti a trasferire con tanta nettezza la struttura contraddittoria della società nella dimensione istituzionale, senza per ciò cristallizzare i rapporti esistenti e introducendo, invece, uno strumento che obbliga (o almeno dovrebbe obbligare) le istituzioni a far propria la logica dinamica del cambiamento (rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini), e di un cambiamento finalizzato all'unico obiettivo di consentire, come dice la nonna, "il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva (vedete come torna qui il rifiuto delle posizioni soltanto formali) partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese"
Ma Basso ha così pure mostrato, anzitempo, come sia possibile sciogliere una contraddizione che, più avanti nel tempo, apparirà a talune forze della sinistra come insuperabile. Parlo del contrapporsi tra movimento e istituzioni, viste, queste ultime, come il luogo dove il movimento si spegne o, comunque, è costretto ad accettare la logica dell'integrazione. Basso mostra che così non è, che c'è un modo di strutturare le istituzioni che può rilanciare l'iniziativa stessa dei movimenti, proprio perché la logica istituzionale viene sviluppata in forme coerenti con le esigenze espresse dai movimenti, aprendo ad essi nuovi ed inediti spazi d'azione. Certo, non è facile muoversi in questa direzione, che richiede impianto teorico solido, lucidità politica, fantasia giuridica. Virtù rare ma che, Basso lo ha mostrato, possono essere congiunte, permettendo così di superare la prova. Basso tornerà variamente e in tempi successivi su questo terreno. Interrogandosi sulla transizione al socialismo, ridefinisce proprio i rapporti tra le diverse logiche che possono manifestarsi nell'uso. degli strumenti istituzionali per cercare di dare un'ulteriore e più convincente sposta alla domanda se è vero che, almeno nella tradizione marxista, "non esistono altre prospettive che la conquista violenta del potere o un riformismo subalterno".
"La contraddizione che lacera la società capitalistica - osserva - è necessariamente presente anche nell'ordinamento giuridico, il quale, lungi dall'essere un corpus compatto di norme internamente finalizzato al bruto dominio della volontà capitalistica, è, in ultima analisi, il risultato di uno scontro di forze e del compromesso che ne consegue, continuamente mutevole a seconda dell'andamento della lotta". A sostegno di questo punto di vista (in cui si ritrova una non irrilevante reinterpretazióne della categoria del "compromesso", tanto discussa nella teoria politica e giuridica) richiama Marx: la sua mutata opinione sul Code Napoléon, "costretto a subire tutti i giorni ogni sorta di attenuazione in conseguenza della forza creatrice del proletariato", e la convinzione netta, sempre di Marx, che fosse possibile far approvare leggi espressive appunto della logica antagonistica di cui la classe operaia si fa portatrice. La citazione da una lettera a Kugelmann dell'ottobre del 1876 è rivelatrice: là Marx sottolinea con forza che "la legge delle dieci ore non fu soltanto un successo pratico; fu la vittoria di un principio. Per la prima volta, alla chiara luce del sole, l'economia politica della borghesia soggiaceva all'economia politica della classe operaia".
Si precisano così le modalità dell'intreccio tra lotta politica e strumenti istituzionali, e il ruolo di questi strumenti nel processo rivoluzionario. Un processo le cui caratteristiche diventano più chiare nel momento in cui il riferimento alla legalità non allude ad un "dopo", ad una legalità rivoluzionaria che si pone come momento terminale, successivo ad una presa del potere realizzata per vie diverse, ma diventa una delle componenti essenziali di una lotta politica e sociale, qualificando così modalità e caratteri di quel processo.
Tutto questo incide profondamente sullo stesso farsi dell'ordine politico-istituzionale, sui modi di formazione del diritto, che Basso di nuovo affronta da un punto di vista che scavalca il puro momento formale: si va alle radici del conflitto, alle ragioni fondanti della regola. Pone questo problema generale quando affronta il punto della legittimità del Tribunale Russell. Andando oltre l'originaria impostazione, della quale s'era fatto portavoce Jean Paul Sartre, di una legittimazione a posteriori di un tribunale non costituito secondo le regole vigenti, Basso individua la fonte vera della legittimazione nella coscienza dei popoli, la stessa, in definitiva, che fonda l'ordinamento delle Nazioni Unite. Richiamando la dichiarazione costitutiva del secondo Tribunale Russell, ne sottolinea il passo dove è detto che "una società così poco organizzata come quella internazionale è retta da un potere diffuso non certo nelle persone giuridiche, gli Stati, né nei loro governi responsabili davanti al popolo, ma in questi popoli medesimi". E conclude: "le esigenze della pubblica coscienza diventano fonti di diritto".
E la coscienza dei popoli come fonte di diritto si dilata e trova il suo compimento nella Carta d'Algeri, in quel testo che si chiama appunto Dichiarazione universale dei diritti dei popoli. Qui l'uscita da una concezione tutta individualistica dei diritti, sulla quale tante volte Basso ha insistito fin dai tempi dell'Assemblea costituente, e l'internazionalismo, che sempre più nettamente era andato segnando il suo pensiero e la sua azione politica, trovano una manifestazione particolarmente matura. Proiettata in un più largo orizzonte, l'ispirazione fondamentale rimane quella dell'art. 3 della nostra. Costituzione: rimozione degli ostacoli di fatto, opposti questa volta ai popoli e non ai singoli, e partecipazione come unica via per l'eguaglianza e la costituzione stessa del soggetto "popolo" sulla scena del mondo. E come nella Costituzione italiana si rifiutava un assetto sociale dato, così nella Carta di Algeri si rifiutano regole e prassi costitutive della comunità internazionale. La logica della non accettazione dell'esistente, la necessità della trasformazione, l'uso degli strumenti istituzionali come via per far esplodere le contraddizioni e consentire il prevalere di una logica alternativa trovano una nuova nettezza. La stessa dimensione dei diritti individuali ne risulta precisata e arricchita: la loro effettività si collega strettamente alla condizione reale dei soggetti che ne sono formalmente titolari. Ed è bene sottolineare - cosa che raramente avviene - come il nostro art. 3 non parli della rimozione degli ostacoli di fatto solo nella direzione dell'eguaglianza: lo fa pure per la libertà, così modificando radicalmente la logica secondo la quale dev'essere letto lo stesso catalogo dei diritti tradizionali. Affiora così una versione dell'eguaglianza che si tinge inequivocabilmente di colori libertari, e che è particolarmente visibile nella lunga battaglia anticoncordataria, nella opposizione intransigente ad ogni limitazione dei diritti di libertà. "Il più appassionato sostenitore dell'abrogazione delle norme concordatarie, l'uomo che per vent'anni ha richiamato nelle aule parlamentari l'esigenza di rivedere radicalmente e se necessario di stracciare i Patti lateranensi", lo ha definito Giovanni Spadolini.
Ma Basso lo ha fatto in un modo che si allontanava assai dal vecchio anticlericalismo, indicando ai cattolici quasi l'immoralità di un privilegio ormai incompatibile con la nuova e dilatata dimensione della libertà. Non a caso la sua sarà una posizione con la quale cattolici e studiosi dei rapporti tra Stato e Chiesa si confronteranno, in un dialogo sempre più intenso. E fu proprio sul tema della revisione del Concordato che Basso, qui in Senato, tenne l'ultimo suo discorso parlamentare, tenacemente riproponendo quella lungimirante "utopia abrogazionista" alla quale alcuni tra noi sono rimasti fedeli, e che ancora può guidarci come "scopo finale" via via che "obiettivi parziali" si pongono dinnanzi a noi.
Sempre in Senato, Basso uno tra quelli che, con sciocca ironia vennero detti "i quattro cavalieri dell'Apocalisse", Franco Antonicelli, Giuseppe Branca e Carlo Galante Garrone - condusse la più coerente delle opposizioni contro la legge Reale, nella quale lucidamente vedeva l'avvio di una perversione dell'ordinamento giuridico. E questa difesa estrema dei diritti di libertà venne perseguita coerentemente con la chiara presa di posizione a favore del referendum per l'abrogazione di quella legge, con il rifiuto altrettanto netto delle prassi dell"`emergenza". Può sorprendere, a questo punto, che l'attenzione grandissima per l'eguaglianza di fatto, dunque per il concreto modo d'essere della struttura socio-economica, non si sia manifestato, al tempo dell'Assemblea costituente, con pari intensità sul terreno della disciplina dell'economia, dove pure (e questa è verità nota non soltanto ai marxisti) si costituiscono le condizioni per l'effettività dei diritti.
Della necessità di principi anche in questa materia Basso era ben consapevole, come dimostra la Carta d'Algeri, con una sezione interamente dedicata ai "diritti economici dei popoli". Ed era pure consapevole che di principi direttivi, non di norme di dettaglio, ci fosse bisogno, così mostrando di appartenere ad una stirpe antica di legislatori, quella che credeva - per dirla con le parole del Portalis del Discours préliminaire al Code Napoléon - ai "principes féconds en conséquences utiles".
ché, allora, l'azione di Basso non produce, in materia economica, all'Assemblea costituente, risultati paragonabili a quelli che ottiene per la disciplina dell'eguaglianza o, come vedremo, per quella dei partiti politici? Si possono proporre spiegazioni diverse: una tutta legata a fattori oggettivi, sottolineando le resistenze politiche che si manifestano sul terreno scottante dei rapporti economici, mentre quello dei principi appare sostanzialmente programmatico, dunque destinato ad una incisività minore o meno immediata; ed una spiegazione soggettiva, legata alla sua vicenda personale che, una volta assunta la segreteria del PSI, lo allontanò dall'impegno quotidiano ed appassionato che aveva portato a tutta la prima fase dei lavori dell'Assemblea costituente.
Ma la ragione essenziale mi sembra un'altra. Basso non fu per nulla assente dalla discussione sui rapporti economici. Aveva, anzi, presentato due proposte molto precise. Con la prima si affermava che "il diritto di proprietà non può essere esercitato in modo contrario all'utilità sociale o in modo da arrecare pregiudizio alla libertà e ai diritti altrui' ; con la seconda si prevedeva che "spetta ai pubblici poteri stabilire piani economici nazionali e locali per regolare e coordinare le attività attinenti agli investimenti, alla produzione, allo scambio ed alla distribuzione dei beni e dei servizi". Entrambe le proposte vengono respinte per l'ostilità dei democristiani che, per bocca di Dossetti, affermano che la prima è superflua, in quanto già sono state approvate norme ben più forti nella stessa materia (e, pur dichiarando di votare a favore della proposta di Basso, anche Togliatti condivide questa motivazione), e la seconda è ripetitiva di altri principi. In quest'episodio, apparentemente minore, c'è quasi una rappresentazione emblematica del difficile rapporto tra pensiero socialista e testi costituzionali, in una lunga parabola che può andare dalla fine del Settecento ai giorni nostri. Nel primo degli articoli proposti da Basso, infatti, compaiono caratteri che si ritrovano nella definizione della proprietà proposta da Robespierre durante la discussione della Costituzione montagnarda del 1793: c'è I-obligation de respecter le droit d'autrui" e il divieto di arrecare pregiudizio ("préjudicier") alla sicurezza, alla libertà, all'esistenza, alla proprietà altrui. Come la proposta di Robespierre, anche quella di Basso viene respinta: e cade pure la richiesta di inserire nella Costituzione una previsione analitica sulla pianificazione.
Ci si può, anzi, stupire della poca combattività con la quale Basso difese in particolare la seconda proposta: dopo tutto, se c'era un tema al quale la cultura socialista del tempo s'era dedicata cori impegno, questo era il tema del piano. Ma la possibilità di arrivare a modifiche significative dell'assetto proprietario era già stata cancellata dai fatti ben prima che l'Assemblea costituente cominciasse a discutere della disciplina dei rapporti economici. Ed era impensabile, contro una "normalizzazione proprietaria" ormai compiuta, una rivincita tutta giocata sul terreno delle formulazioni legislative. Basso, probabilmente, si avvede di tutto questo e gioca senza illusioni la carta delle proposte ricordate, almeno per far risultare dagli atti una posizione di principio che, altrimenti, sarebbe rimasta senza voce nei lavori della I commissione. La sua esperienza di costituente, tra l'altro, gli aveva insegnato che gli accordi fondamentali tra Togliatti e i democristiani venivano stretti in riunioni private e non era possibile poi ribaltarli in commissione: e da ciò aveva tratto probabilmente la convinzione della vanità di contrastare frontalmente l'intesa già raggiunta tra Dossetti e Togliatti.
Questa spiegazione mi sembra ragionevole alla luce dell'interpretazione che Basso ha poi dato del lavoro dell'Assemblea costituente e dei suoi limiti, ricondotti ad un ritardo rivelatosi poi politicamente incolmabile. "Secondo me - disse più tardi - non è tanto in seno alla Costituente, dove ormai in gran parte i giochi erano fatti, ma nel periodo precedente, che si doveva fare qualcosa, nel periodo della Resistenza e nell'immediato post-Resistenza". Sappiamo, tuttavia, che mai questo atteggiamento si mutò in disimpegno. E non era un gioco di convenienze. Era convinzione profonda, che lo ha sempre portato a guardare alle istituzioni come ad una via essenziale per la legittimazione politica del movimento operaio. E, a questo proposito, credo che valga la pena di ricordare un episodio - non so se già noto - narratomi dallo stesso Lelio. All'indomani della scissione di Palazzo Barberini, appariva inevitabile il passaggio della presidenza dell'Assemblea costituente al PCI, per il patto stretto tra i tre maggiori partiti che voleva la Presidenza del consiglio assegnata al primo tra essi, la Presidenza della Costituente al secondo (che, per effetto della scissione, diventava appunto il PCI).
Nella sua veste di segretario del PSI, Basso si reca da Togliatti, chiedendogli di rinunciare all'applicazione del patto e di mantenere la presidenza al PSI, che così sarebbe stato legittimato di fronte all'opinione pubblica come il "vero" partito socialista. Il rifiuto di Togliatti è motivato anch'esso con l'argomento della legittimazione, quella che il PCI acquisiva proprio attraverso il ruolo presidenziale in Assemblea. Questo non è un fatto occasionale: è un: tratto caratteristico della nostra storia repubblicana, nella quale la piena legittimazione è stata ricercata dai partiti della sinistra con una forte accentuazione del momento istituzionale, che ha così acquistato uno spessore caratteristico, che distingue il nostro sistema dagli altri e spiega molte polemiche, anche recenti.
Ma non venivano solo dall'esterno le difficoltà per Basso segretario del PSI. Egli ricorda che, dopo la scissione, la maggioranza dei parlamentari era rimasta nel PSI: "però di quella maggioranza una buona metà erano in realtà dei socialdemocratici, quindi io dirigevo una pattuglia che veniva al mio seguito molto malvolentieri". In questo modo di riferirsi polemicamente alla socialdemocrazia Enzo Collotti ha ritrovato accenti tipici della Seconda internazionale, che contrastano proprio con il suo rifiuto di accettare la "grossolana distinzione" tra rivoluzionari e riformisti. Una aporia del suo pensiero? Forse. Certamente un segno della sua irriducibilità ad una qualsiasi delle caselle della canonica ortodossia marxista. La sua ostilità ai modelli, peraltro, si rivela in pieno nella materia dei partiti politici, altro punto centrale della sua azione e riflessione, testimoniata dalla paternità di un'altra importantissima norma costituzionale, quell'articolo 49 che per la prima volta fa entrare in una costituzione il soggetto "partito politico". "La mia prima tessera socialista - ricorda - è del novembre 1921, quando il Partito comunista d'Italia, che, sotto alcuni aspetti, soddisfaceva meglio il mio temperamento, era già nato da dieci mesi. Ma non accettati dal Partito comunista l'idea di una rivoluzione in Occidente fatta sul modello sovietico, così come mi parvero inaccettabili le 21 condizioni uniformemente poste a tutti i partiti e, più tardi, la “bolscevizzazione dei partiti”.
Il partito politico - che egli immagina, propone e descrive - ha diversa natura e senso. In un tempo di degenerazioni gravi del sistema dei partiti, si potrebbe esser tentati di mettere a confronto questa realtà con l'immagine che Basso disegnava del partito politico. Ma sarebbe gioco sciocco. Il ruolo del partito, da lui teorizzato, era lontanissimo da quello che, poi, ha finito con l'assumere nella storia repubblicana. Un partito forte, motore vero della vita politica e sociale, ma rigorosamente limitato nell'ambito della sua azione, lontanissimo da una gestione economica e sociale che, conformemente alle sue premesse, vedeva affidata alla più larga partecipazione dei. cittadini. Un partito, dunque, che non doveva occupare né la società, né lo Stato; che, lungo la via delle istituzioni, doveva essere fattore costituente della società politica, senza mortificare in nulla la società civile. E in queste indicazioni c'è, evidente, una linea che porta in direzione ben diversa dalle degenerazioni che conosciamo. Il destino ha voluto che Lelio Basso, uomo di partito e dell'idea del partito, dovesse concludere la sua vita fuori dai partiti. "In questo momento non milito - dice nel 1975 - ma l'ho fatto per cinquant'anni". C'è amarezza in questo suo rivolgersi a passato? I suoi "anni perduti" non sarebbero solo i venti di cui ebbe a parlare, ma addirittura cinquanta?
Non mi pare, e non lo credo. Certo è, però, che con grande insistenza Basso ha parlato della sua solitudine. Di un segretario del PSI "troppo solo" per realizzare i suoi "ambiziosi programmi"; di un presidente del PSIUP come "un leader isolato, senza strumenti per realizzare una qualsiasi politica"; di "mezzo secolo di vita partitica, che è stata per me quasi sempre una vita di minoritario o addirittura di solitario".
Isolato, solitario, solo addirittura. Dobbiamo dire che non fu così, che la sua fu una ricchissima e affollata solitudine, se fino all'ultimo giorno si rammaricava che la salute non gli consentisse di andare ovunque lo invitassero?
Diciamo, invece, che non fu uomo di unanimismi, e che proprio la sua vocazione critica gli consentì di non fare del suo marxismo una gabbia, ma davvero l'occasione di un "umanesimo integrale" dando alla sua ricerca una capacità sempre più larga di parlare a molti, moltissimi. E poté così restare uomo di entusiasmi, quello che lo portò ad annunciare ad Algeri "la primavera dei popoli". Così, per tanti tra noi ha potuto essere un compagno e un amico, dunque assai più che un maestro.

[Discorso pronunciato il 15 novembre 1988 nella sala Zuccari di palazzo Giustiniani, e pubblicato in “Annali della Fondazione Lelio e Lisli Basso”, vol. X (1989)]